LAI MARIA |
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Maria Lai è nata a Ulassai(Nu) nel 1919. Dopo aver frequentato a Roma il Liceo Artistico,è allieva di Arturo Martini all’Accademia di Venezia dal 1942 al 1945. Dall’eredità martiniana nasce la vocazione sperimentale della Lai. La ricerca di tecniche e materiali diversi è ricca ed originale: pani, telai, ceramiche, tele e libri cuciti fino agli interventi ambientali ed alle performans collettive.Ha partecipato a numerose mostre nazionali ed internazionali.
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Lo scialle della luna "L’isola dei miei naufragi"di Maria LaiEro
convalescente e il clima del mio paese, in alto sulla montagna, minacciava
la mia fragilità. Fui affidata agli zii che non avevano figli, ma se
dall’età di due anni non tornai in famiglia che al tempo della prima
adolescenza, non fu per un progetto di adozione.
Quel primo distacco fu una specie di
profezia. La mia salute tardava a ristabilirsi, tenendo tutti in allarme per
un tempo più lungo del previsto. Più
di una volta, le malattie sono state complici delle mie scelte.
Della famiglia vedevo spesso solo mio
padre, che per i suoi impegni di veterinario nella zona veniva spesso a
trovarmi e anche perché le sue visite erano una festa per me. Madre e
fratelli erano quasi estranei. Avevo
quattro anni quando gli zii diedero ospitalità a due carrozzoni di zingari.
Avevano cercato rifugio in Sardegna durante la prima guerra e disperavano di
ripartire. I loro carrozzoni, difficili da imbarcare, restarono quindi
posteggiati per più di un anno a pochi passi dalla casa degli zii.
Gli zingari lavoravano nei campi ma
praticavano anche la loro attività di acrobati e giocolieri, a cui venivano
allenati anche i loro tanti bambini. Fui accolta e frequentai i loro giochi.
Imparavo un po’ delle loro abilità e
facevo spettacolo per gli zii che mi applaudivano.
Quando gli zingari dovettero partire, con
la complicità dei loro bambini mi nascosi in un carrozzone. Solo in viaggio
fu scoperta la mia fuga. Gli zingari mi
trovarono addormentata e tornarono
indietro durante la notte per riportarmi in braccio agli zii. Ma io
continuai a viaggiare per anni, con la fantasia, su quei carrozzoni. La mia
vita con gli zii fu un grande viaggio nella fantasia, nella vastità della
grande casa, della campagna, dei giochi. Ero analfabeta ma piena di favole.
Ciò che ho fatto dopo, da adulta, è iniziato a quell’età. Mani, occhi,
parole, diventavano collegamenti tra realtà e sogno. Mancarono gli zii. La
mia vita cambiò. I miei studi erano insufficienti, quando fui mandata a
Cagliari a frequentare le scuole secondarie. Ero in ritardo su tutto, ma tra
i banchi di scuola trovai quello che doveva diventare il mio più grande
maestro e amico. Con Salvatore Cambosu entravo nel mondo della poesia e la
scuola diventava affascinante, anche se restavo chiusa nell’inesauribile
bisogno di spaziare “altrove”. Dopo qualche anno ci fu la mia partenza dall’isola.
Il motivo non trovava giustificazione, ma
mio padre sperava di vedermi tornare delusa dalla grande città. “Ti
passerà”. Mio padre era preoccupato, ma non mi imponeva la sua volontà.
L’arte era per lui un argomento astratto. Per mia madre l’idea di una
emancipazione significava scandalo. Io
cosa pensavo? Semplicemente, io non pensavo. Come quando disegno su una
pagina bianca e so che solo alla fine potrò vedere l’immagine. Quella
partenza era la mia pagina bianca “La
vita è una frase incompiuta” diceva Virginia Wolf, solo la morte la
conclude. Gli
anni di guerra, vissuti prima a Roma, poi a Venezia, mi tennero lontana
dagli affetti familiari, e dalla mia
isola. Ero all’estero, doppiamente straniera. Anzitutto per essere sarda,
poi per essere donna, unica donna a
Venezia tra gli allievi di Arturo Martini. Ma essere donna a Venezia fu per
tre anni la mia più grande scommessa.Arturo Martini, nella sua altissima
statura di artista, era pur sempre di quella generazione che non dava spazio
al femminile nell’arte. “Qui si fa sul serio” mi diceva come a un
essere ingombrante. Non
intuiva, nel frastuono della guerra, i movimenti della storia.Eppure non
dubitavo di essere al posto giusto. Ero più serena che in Sardegna.
Alla Sardegna pensavo col rimorso di un
tradimento, ma per quanto crudele fosse quella distanza dalla mia famiglia,
sapevo che era l’unica possibilità di costruire la mia vita.
Quando, nel quarantacinque, da Venezia
tornai in Sardegna, passando per Napoli, approdai come un naufrago nel porto
di Cagliari, sulla scialuppa di una nave che in viaggio si era scontrata con
un’altra imbarcazione. Fui accolta in famiglia come una miracolata.
L’idea di una futura partenza diventava
improponibile. Mi
ammalai . Il
medico, lo zio Manfredi, mi disse:”se non mi aiuti non ti tiro fuori”.
Voleva che io tirassi fuori la mia voglia
di vivere. Ma
per vivere dovevo trovare una ragione. Furono
tre gli angeli del mio volo
successivo: lo zio Manfredi, tirandomi fuori dalla malattia.
Salvatore Cambosu, con la sua fiducia
nella mia possibilità nell’arte, nonostante
le convenzioni di quel momento storico, Lorenzo, il più giovane dei
miei fratelli, la cui tragica fine: “La vita è breve, non perdere
tempo”. Ripartii
per Roma, sostenuta ancora da mio padre che si arrendeva all’evidenza di
una figlia incapace di realizzarsi secondo le regole della sua logica,
Oppure, come diceva, ero una capretta ansiosa di precipizi, che non si
poteva tenere nel recinto, anche se il lupo la stava aspettando.
Le mie montagne non sono poi tanto
terribili, se, oltre ai precipizi e ai lupi, ci sono anche le nuvole. Eccomi
infine all’ultimo mio naufragio in Sardegna. Che non è un “ritorno a
casa”.Il viaggio è la casa. Non
solo la mia casa, ma quella di tutti noi. Siamo
sulla terra, che gira a circa trenta chilometri al secondo, in un viaggio
che è pur sempre un viaggio speciale, dove non si distingue la partenza dal
ritorno. La
vera nostalgia non è quella per un’isola.
E’ l’ansia di infinito. |