Regalità: signoria della speranza

   Cari amici,
     ci siamo più volte ricordati in questi anni che il mondo ha un estremo bisogno di speranza. Sono troppe le situazioni personali e sociali, fisiche e morali, che inducono alla paura e portano a chiudere gli orizzonti del cuore e della mente nello spazio angusto del vivere quotidiano, senza alcun progetto per il futuro. Questa sindrome può aver preso anche noi presbiteri. Si manifesta con le reiterate lamentele, i giudizi pesanti, l'ingiustificata aggressività e quella rassegnata passività che riscontriamo in una fascia sempre più larga di confratelli. Anche la difficoltà a “lasciare” da parte dei più anziani non è determinata tante volte dall'attaccamento al posto ma dalla convinzione che chi viene dopo di noi non è più capace di lavorare con lo stesso impegno ed entusiasmo, quindi dalla mancanza di speranza.
     C'è innanzitutto una motivazione teologica che induce alla speranza: Cristo è risorto, ha vinto la morte e con essa ogni altro limite della natura umana. Egli cammina con noi sulle strade del mondo per condurci nel suo Regno di giustizia e di pace, di cui la comunità dei credenti è, già in questo tempo, figura e primizia. Noi presbiteri in particolare siamo chiamati a testimoniarne la presenza e la forza. L'annuncio del Vangelo, la celebrazione dei sacramenti, l'esperienza della preghiera, mentre ci mettono in comunione con il Signore Gesù e la sua opera di salvezza non ci allontanano dalla concretezza della vita, perché sono doni che alimentano la storia e ne orientano il percorso anche oltre le nostre debolezze e i nostri peccati.
     C'è poi una motivazione esistenziale che induce alla speranza: schiere innumerevoli di Santi, che hanno testimoniato l'amore di Cristo, il più delle volte fino all'effusione del sangue, continuano a dimostrare che la vita è pienamente realizzata proprio quando è donata, che germi di novità sbocciano da scelte coraggiose e il futuro farà fiorire come una primavera ciò che durante l'inverno è rimasto nascosto a macerare. Anche di questa certezza noi presbiteri siamo annunciatori. Quando valorizziamo la fatica dei confratelli che ci hanno preceduto, quando ci fidiamo dei laici, accogliamo i carismi, lavoriamo senza aspettarci niente in cambio e facciamo con gioia e umiltà la nostra parte nella costruzione del regno di Dio, noi inondiamo di speranza l'aridità delle nostre parrocchie e delle nostre diocesi che soffrono per la diminuzione del numero dei ministri ordinati e l'indifferenza di tanti battezzati.
     C'è poi una motivazione spirituale, che ci appartiene in modo particolare, che induce alla speranza: con il nostro carisma di secolarità consacrata siamo “seme di santità gettato a piene mani nei solchi della storia”. Si tratta di un'interpretazione e di un auspicio che vengono da Benedetto XVI: «Siate cercatori della Verità, dell'umana rivelazione di Dio nella vita. È una strada lunga, il cui presente è inquieto, ma il cui esito è sicuro. Annunciate la bellezza di Dio e della sua creazione. Sull'esempio di Cristo, siate obbedienti all'amore, uomini (…) di mitezza e misericordia, capaci di percorrere le strade del mondo facendo solo del bene. Le vostre siano vite che pongono al centro le Beatitudini, contraddicendo la logica umana, per esprimere un'incondizionata fiducia in Dio che vuole l'uomo felice. (…) Radicati nell'azione gratuita ed efficace con cui lo Spirito del Signore sta guidando le vicende umane, possiate dare frutti di fede genuina, scrivendo parabole di speranza con le opere suggerite dalla "fantasia della carità" (Discorso ai membri degli Istituti secolari tenuto il 3 febbraio 2007). Ancora una volta siamo noi presbiteri chiamati ad aprire la strada a questa regalità, perché si diffonda nel mondo la signoria della speranza.

     Vi abbraccio tutti, in semplicità e letizia

Don Francesco           

     Gennaio - Febbraio 2010



Preti per la causa del Regno

   Cari amici,
     l'anno sacerdotale costituisce per la nostra fraternità occasione propizia per approfondire il carisma ricevuto, verificarne l'attualità e individuare percorsi nuovi per il suo sviluppo.
     Il carisma si configura proprio a partire dall'identità presbiterale. Scelti e costituiti per l'esercizio del ministero all'interno di una chiesa locale, ci sentiamo chiamati a viverne le esigenze con quella radicalità evangelica che è misura di autenticità, di docilità, di oblatività. Profondamente inseriti nel contesto ecclesiale e sociale in cui la provvidenza ci ha posto – il nostro “saeculum” – ci facciamo attenti alle persone e alle situazioni, coltiviamo relazioni feconde di fraternità e corresponsabilità, “osiamo il nuovo” sul fronte dell'apostolato, soprattutto quello di frontiera dove la Chiesa è attesa nel suo dialogo col mondo e con la storia.
     L'attualità del nostro carisma è confermata da alcune attese non più tanto nascoste del mondo presbiterale.
Le diocesi avvertono l'esigenza di riscoprire il presbiterio come soggetto di pastorale, di maturare personalità sacerdotali serene, equilibrate, ricche di virtù umane, di promuovere vocazioni forti e coraggiose in un contesto giovanile piuttosto liquido, carente dei riferimenti certi e dei grandi ideali d'un tempo; i presbitèri sono in debito di comunione, di condivisione, di “aggiornamento”, frammentati purtroppo da strutture ancora individualiste, da personalità eccessivamente autoreferenziali, da assenza di autorevolezza da parte dei responsabili; i preti cercano convinzioni solide, tradizioni cui ispirarsi, guide sagge nella ricerca e testimonianze affascinanti per la verifica del proprio cammino.
Con le sue accentuazioni di secolarità, di missionarietà, di regalità intesa come servizio, di fraternità, di riferimento chiaro alla spiritualità diocesana, il nostro Istituto si pone nel contesto di queste attese come un tentativo collaudato di risposte giovani, com'è giovane sempre la vita di chi si consacra totalmente al Signore.
     Per lo sviluppo del nostro carisma, infatti, stiamo tentando percorsi sempre nuovi, in armonia con il magistero della chiesa e costantemente sollecitati dalla storia. Accanto e come applicazione concreta della via maestra dei voti, povertà, castità, obbedienza e apostolato (il nostro quarto voto), stiamo percorrendo il sentiero delle relazioni personali, che fanno del mistero dell'Incarnazione a cui ci ispiriamo il modello della presenza, del coinvolgimento, della spogliazione di sé; il sentiero della minorità, che interpreta la categoria della regalità di Cristo non in termini di potere, di prestigio, di ricerca dei privilegi, ma in termini di primato di Cristo e della sua grazia sulle nostre capacità, i nostri progetti e tecnicismi perfetti; il sentiero della carità che, come ci insegna il Papa nella sua ultima enciclica, è cifra interpretativa della verità, della giustizia, della pace e del vero progresso, perché dona un'anima a strutture condannate diversamente alla sterilità; il sentiero della testimonianza, perché il prete oggi è atteso, più che sul piano dei principi e della parola, su quello della vita interiore, dell'essenzialità, della trasparenza, della dedizione generosa e gioiosa.
     Nell'indire questo anno sacerdotale il Papa ha espresso chiaramente il suo obiettivo: promuovere un più intenso cammino di santificazione del clero. Il nostro Istituto guarderà senz'altro alla figura del Santo Curato d'Ars, così come si ispira allo stile di vita cristiana di Francesco d'Assisi; entrambi ci educano a unire insieme il riferimento prioritario a Dio, per mezzo della preghiera, il percorso ascetico, che trova nella direzione spirituale e nel sacramento della riconciliazione i suoi strumenti irrinunciabili, e l'esercizio del ministero, luogo teologico dell'offerta concreta della nostra persona alla causa del Regno.

     Vi abbraccio tutti, in semplicità e letizia

Don Francesco           

     Settembre-Dicembre 2009



Regalità: la signoria della vita

   Cari amici,
     in questo numero di “Ut unum sint” trovate il testo degli interventi che sono stati fatti al Convegno unitario sulla Regalità, celebrato ad Assisi all'inizio di maggio. Mi permetto di darvi una chiave di lettura. Siamo chiaramente sulla linea della testimonianza: la regalità prima che un concetto da approfondire è un'esperienza da vivere. La sua evoluzione storica, come è stato affermato, risente indubbiamente della riflessione biblico teologica maturata nel Vaticano II, ma nella misura in cui questa riflessione è calata nella vita delle persone promuovendo forme nuove di presenza, nuovi stili di vita e di annuncio cristiano.
     La presenza innanzitutto. Non più arrogante e selettiva, ma umile e aggregante. Una presenza in cui l'identità cresce con l'incontro, il dialogo si sviluppa nel rispetto e la stima reciproca, la convivenza delle differenze non è subita come un limite ma valorizzata nella sua propositività, la multiculturalità non viene negata ma assunta come luogo del confronto franco e leale. Questa presenza interpella il singolo battezzato e l'intera comunità cristiana, anche nelle sue espressioni gerarchiche. Non rinuncia al linguaggio proprio della ritualità e al suo simbolismo, ma ricerca anche quello della gente comune per far giungere a tutti la bella notizia della speranza. Se poi si arriva a coniugare insieme entrambi questi linguaggi, come domanda l'autentica riforma liturgica e le sue successive elaborazioni, il cristianesimo riesce ad esercitare quella signoria della vita di fronte alla quale sboccia lo stupore e non l'aggressività e il rifiuto.
     Gli stili di vita. Improntati alla sobrietà, all'essenzialità, all'oblatività. Di fronte al culto dell'immagine, all'ansia di corrispondere agli standard del consumismo, alla logica quantistica del benessere, il cristiano può benissimo proporre i valori dell'essere, della relazione interpersonale, della solidarietà e del servizio. Nel modo di vestire e nell'utilizzo del tempo libero, nella cura della casa e nella finalizzazione del proprio lavoro, la signoria della vita domanda libertà, spontaneità, autentica umanità. Anche questa provocazione sugli stili di vita interpella il singolo e la comunità: una chiesa povera ed estroversa profuma di pulito ed emana fragranza, si lascia avvicinare senza soggezione e toglie dall'imbarazzo anche chi la accosta bisognoso di redenzione.
     L'annuncio cristiano. Non di una verità astratta, fatta di formule e divieti, ma di un vissuto emblematico, messo a disposizione senza presunzioni, con la sola forza della sua bellezza e della gioia che l'accompagna. I fatti del Vangelo, le sue parabole, quei miracoli con cui Gesù ha assicurato di accompagnare l'opera dei discepoli, proprio questi sono attesi anche inconsapevolmente dal ricercatore autentico. Sono l'amore senza steccati, il perdono senza condizioni, l'accoglienza senza garanzie, nella famiglia, nel lavoro, nella chiesa. È questa signoria della vita che costituisce sia il contenuto che la forma dell'annuncio, perché non è possibile distinguere ciò che risulta impastato di storia, eventi ed esperienze.
     Cari amici, volendo applicare a noi questa chiave di lettura dei contenuti del nostro Convegno, desidero mettere in evidenza un rischio che noi presbiteri corriamo senza accorgercene: quello dell'astrattezza dei nostri discorsi, della presunzione delle nostre certezze, della durezza delle nostre prese di posizione. Ci capita raramente di metterci alla pari dei nostri fratelli laici, di confrontarci con loro sul piano della ricerca comune e del fraterno ascolto; quando questo avviene, e l'esperienza di Assisi è stata una provvidenziale occasione, vengono smascherati proprio questi limiti. È il caso di non mettere la testa sotto la sabbia, di accogliere quella signoria che proprio la vita esercita su di noi, mentre ci chiede di esercitarla sugli altri, nella verità.

     Vi abbraccio tutti, in semplicità e letizia

Don Francesco           

     Maggio-Agosto 2009



Regalità: la signoria della fede

   Cari amici,
     la riflessione che stiamo facendo nei gruppi sulla “Regalità” risulta davvero provocatoria, perché domanda la capacità di fare sintesi tra esigenza di autorità e disposizione al servizio, bisogno di verità e capacità di misericordia, chiarezza di principi e paziente accompagnamento del vissuto. Sono caratteristiche della carità pastorale che costituisce il fulcro della nostra spiritualità secolare. Aspettiamo perciò un importante contributo per il nostro cammino dal Convegno di maggio ad Assisi.
     Volendo continuare la conversazione avviata in questa rubrica, al discorso sulla signoria del cuore aggiungerei quello sulla signoria della fede. Nelle relazioni è fondamentale che noi siamo guidati dalla nostra fede in Dio, nel suo progetto di salvezza realizzato in Cristo e affidato alla Chiesa, nella presenza di Cristo che si fa compagno di viaggio nel pellegrinaggio di ogni uomo e dell'umanità intera verso la Gerusalemme del cielo. L'attenzione ai fratelli, l'accoglienza del diverso, lo spirito di misericordia, l'attitudine al dialogo non possono esimerci dal presentarci comunque con la nostra identità e le convinzioni che reggono le nostre scelte di vita.
     L'approccio alla realtà, con le sue tensioni, la risposta agli interrogativi del cuore dell'uomo, turbato dalle sue stesse contraddizioni, il respiro della progettualità soprattutto dei giovani, ogni piega del pensiero e della volontà, ogni avvenimento, ogni frammento di storia, tutto domanda un riferimento ultimo, un orizzonte di senso. Noi siamo chiamati ad offrirlo, come Mosè che ha innalzato il serpente nel deserto, immagine della Croce di Cristo posta a modello dell'amore ricevuto da Dio e che siamo chiamati a donare come realizzazione piena della nostra vita.
     La giusta pretesa di conservare i simboli religiosi nei luoghi pubblici deve andare in questo senso: confermare la signoria della fede e del suo significato per la civiltà che ci adoperiamo a costruire; il rito della benedizione, con cui ci vien chiesto di accompagnare avvenimenti personali e sociali, richiama il primato della fede su noi stessi e sulle opere delle nostre mani; la stessa presenza del sacerdote, tanto apprezzata nelle ore liete e soprattutto nei momenti di sofferenza fisica, morale e materiale, se non aiuta a fare appello alla fede, resta puro folklore e vuota tradizione.
     Spiritualità della regalità allora è proporre la nostra persona e interpretare il nostro ruolo come testimoni della fede. La domanda di Gesù ”Ma il Figlio dell'uomo, quando verrà, troverà la fede sulla terra?” (Lc 18,8) deve suonare come monito costante e impegnarci con passione nella via della nuova evangelizzazione. Di fatto una delle sfide di questo nostro tempo consiste proprio nel tentativo di svincolare i giudizi, le scelte, i valori, i percorsi della vita dalla visione della fede, per seguire più opportunamente le mode, il sentimento, l'interesse del momento. La signoria della fede prospetta invece un'etica che può contare su dati oggettivi, su un'antropologia redenta, su prospettive spirituali; quindi diventa una risposta alla cultura del relativo, dell'edonistico, della materialità, del terrenistico. La traduzione concreta di questo discorso spetta a noi, nella predicazione innanzitutto, ma poi nella vita concreta, nella sua spinta radicale, capace di coinvolgere le nostre comunità e lasciare così un segno nel territorio.
     Rimando ad un passaggio delle nostre Costituzioni che trovo in sintonia con il pensiero che ho sviluppato. Dice il numero 6/g che “I sacerdoti missionari, per la loro ispirazione francescana, coltivano in particolare l'azione pastorale intesa e vissuta come partecipazione in perfetta letizia alla volontà redentrice di Cristo”. Partecipare alla volontà redentrice di Cristo significa proprio questo: leggere la storia a partire dalla Croce, immettervi il respiro della grazia, percorrerla con aderenza senza lasciarcene imbrigliare, promuoverla nella prospettiva del suo compimento, farla correre sui binari della fede in Cristo.

     Vi abbraccio tutti, in semplicità e letizia

Don Francesco           

     Marzo-Aprile 2009



Regalità: la signoria del cuore

   Cari amici,
     con l'Assemblea di Medio Corso, celebrata in gennaio a Roma e di cui potete leggere gli Atti proprio in questo numero di "Ut unum sint", abbiamo avviato anche il nuovo anno formativo sul tema della Regalità. È ormai alla conoscenza di tutti che in maggio, precisamente dalla prima mattina di venerdì 1 fino al pranzo di sabato 2, terremo il primo Convegno unitario con gli altri due Istituti fondati da P. Gemelli proprio su questa categoria teologica che il Padre ha voluto inserita nel titolo delle nostre famiglie. Dopo le letture storica, biblica e teologica, già proposte da P. Cesare Vaiani e da Mons. Bruno Maggioni, siamo impegnati nell'offerta di una riflessione esistenziale, capace di dire la concretezza e l'attualità di quello che potremmo chiamare l'orizzonte spirituale della nostra missionarietà e secolarità. Verranno offerte ai gruppi due schede specifiche orientate a questo scopo. A voi il compito di adoperarle nei prossimi incontri, o anche a livello personale, per una verifica dello spirito della propria risposta vocazionale. Fate pervenire qualche suggestione al delegato per la Formazione Permanente e iscrivetevi quanto prima al Convegno presso il segretario, perché i posti sono limitati.
     Mi sono attardato a dare queste informazioni perché giungano davvero a tutti e per giustificare il contenuto delle mie lettere nell'anno LIV della Rivista. Prendo le mosse da un'affermazione di Maggioni che a Milano, la vigilia della Festa di Cristo Re del 2007, diceva: "Per capire la regalità di Cristo bisogna vederla dal crocifisso". Ecco il punto di partenza. Gesù non è re perché è passato attraverso la croce e quindi ha meritato la signoria sul mondo e sulla storia. Gesù è re perché dalla croce si dona di un amore eccedente e sorprendente; la sua signoria sta già lì e si perpetua nel tempo e permane per l'eternità. L'Apocalisse lo presenta proprio così, Agnello ritto in piedi, risorto, vincitore, ma perché sgozzato, con quel fianco aperto all'accoglienza, alla misericordia, al dono della vita.
     Proviamo a verificare il nostro modo di stare di fronte al mondo e alla storia, perché è chiamato ad essere "regale" oltre che profetico e sacerdotale.
     Qual è il nostro trono? Quello umano della gloria e del potere, poggiato sui nostri titoli e ruoli, sulle comodità e i privilegi, o quello divino dell'umiltà e del servizio, costruito nelle relazioni povere della vita di tutti i giorni con la gente semplice delle nostre famiglie, del mondo del lavoro, degli ospedali, della solitudine e dell'abbandono? Certo, non dobbiamo trascurare le relazioni con imprenditori e professionisti, uomini della cultura e della politica, ma ponendole nella stessa lunghezza d'onda perché le une e le altre possano dialogare insieme e dare vita ad una cultura della solidarietà e dell'amore.
     Qual è il nostro fianco squarciato? Quello umano della denuncia e della condanna, del giudizio anche motivato ma che esclude ed emargina, o quello divino del rispetto e della partecipazione, che abbraccia mentre rimprovera, tende la mano anche quando pronuncia la radicalità del vangelo e ne fa risaltare le esigenze? È la signoria del cuore chiamata a manifestarsi in tutta la sua forza nella Confessione, nel dialogo spirituale, nelle confidenze raccolte da coscienze dilaniate anche dalla consapevolezza del proprio errore; ma anche di fronte all'arroganza e alla pretesa di chi fa appello a Dio solo per denunciarne l'impotenza. Proprio come nella scena del Calvario, dove Gesù ha una parola chiara da una parte e silenziosa dall'altra per ciascuno dei due ladroni crocifissi con lui.
     Qual è la nostra vittoria? Quella umana della rivalsa su chi non ci ha seguito, della vendetta su chi ci ha fatto del male, del successo delle nostre idee e dei nostri progetti, al di sopra delle persone e di intere comunità, o quella divina della pazienza, del perdono, della comunione costruita anche a scapito delle nostre opinioni e interessi? Non dimentichiamo mai che un giorno Egli, il re della parabola, dal suo trono di gloria ci giudicherà sull'amore… sullo stesso amore su cui poggia l'attesa di ogni persona che incrociamo da preti, chiamata da Dio, anche grazie al nostro ministero, a riconoscere e a prendere parte del suo Regno.

     Vi abbraccio tutti, in semplicità e letizia

Don Francesco           

     Gennaio-Febbraio 2009



Nell'abisso infinito del suo amore

   Cari amici,
     sta per concludersi anche questo 2008 che la provvidenza ha riservato al nostro cammino personale e comunitario sui sentieri della carità, e la liturgia concentra la nostra attenzione sul mistero della Natività, dell'Incarnazione, praticamente su qualcosa che inizia.
     È quanto mai stimolante concludere ricominciando. Non si tratta soltanto della spiritualità ciclica propria del tempo liturgico ma di una dinamica dell'esistenza destinata ad approdare là dove tutto ha inizio, a portare la caducità sulla soglia dell'eterna perfezione.
     Un anziano confratello, con il quale dissertavo amichevolmente sul dramma-risorsa dell'età ultima, diceva: “Sono pronto a ricominciare; è stata una costante nello stile del mio ministero ed è ancor più vero ora”.
     Chiaro. Egli non si riferiva alla pretesa di rieditare le forze dei trent'anni, neppure al desiderio di venire rimesso in gioco con un servizio nuovo; la sua tenuta fisica e psicologica era ormai limitatissima. Egli manteneva invece quella freschezza spirituale che aveva accompagnato la lunga parabola della sua esistenza: ogni giorno è grazia e la grazia non conosce il declino della fisicità.
     Grazia è raccogliere i frutti dell'amore profuso e, ancor più, riconoscere che esso è grande e gratuito al di là di ogni umana riconoscenza. Grazia è avere la lampada accesa e sentire di tenere in riserva l'olio della gioia e dell'entusiasmo che ci è stato dato di vivere. Grazia è aprirsi all'inedito con la fiducia del bambino e abbandonarsi alla volontà premurosa di quel Padre che abbiamo insegnato ad incontrare e ad amare.
     Al termine di un anno possiamo sentirci tutti un po' così, capaci di verificare ogni nostra età sulla logica della grazia: la giovinezza ricca di idealità e capacità di osare, l'età matura con la solidità dell'esperienza e il coraggio delle scelte concrete, la vecchiaia, portatrice di essenzialità e pazienza.
     Il segreto è dato dalla prospettiva: il termine non è un tramonto ma un'alba di novità verso la quale, come terra promessa, abbiamo imparato ad orientare l'anelito di tutta la vita.
     La novità si chiama “incontro con Dio in Cristo Gesù per opera dello Spirito”.
Proprio come il Natale. E, come il Natale, riempie il cuore di tenera speranza: Colui che si è fatto uno di noi nella grotta di Betlemme ci introdurrà per sempre nell'abisso infinito del suo amore per farci una cosa sola con lui. Certezza che mette in moto tutte le energie che da questo amore sono alimentate e di questo amore sono chiamate a diventare concreta testimonianza.
     Vi auguro di celebrare, contemplare e vivere questo consolante e rasserenante mistero lì dove siete per contingenza geografica ed anagrafica.
Uniamoci tutti all'ora media in questo tempo natalizio con la recita della preghiera di Clemente XI che le nostre Costituzioni riproducono a pagina XXIV delle note spirituali. È un atto di confidente fiducioso abbandono e nello stesso tempo di impegno creativo e coraggioso; esso coinvolge mente, cuore, corporeità nella tensione a fare della nostra esistenza un autentico dono d'amore nel presente e per l'eternità.

     Vi abbraccio tutti, in semplicità e letizia

Don Francesco           

     Novembre-Dicembre 2008



“Carità pastorale”

   Cari amici,
     stiamo per intraprendere un nuovo anno pastorale, ricchi di quelle esperienze spirituali e culturali che abbiamo potuto fare durante questi mesi estivi. Spero infatti che non siano mancati momenti di riflessione, di studio, di aggiornamento, richiesti anche dalla nostra spiritualità secolare. Obiettivo principale: maturare una sempre più consapevole “carità pastorale”.
     Sappiamo che si tratta dell'espressione con cui Giovanni Paolo II nella Pastores dabo vobis sintetizza quell'insieme di doti umane e di virtù cristiane richieste a un presbitero, soprattutto se impegnato direttamente nell'attività pastorale di una parrocchia. Tuttavia può essere utile focalizzarne alcune particolarmente necessarie nell'attuale contesto socio-culturale e in rapporto alle indicazioni del magistero per questo primo decennio del nuovo secolo.
     La prima dote è quella di un “animo pacificato”. A volte percepisco troppe tensioni agitarsi nel cuore e nella mente del presbitero: il bisogno di essere applaudito, che risponde alla logica dell'apparire; l'urgenza di vedere i risultati del proprio lavoro, che sa di efficientismo; la tendenza al confronto con i confratelli, che nasconde il desiderio dell'arrivismo, della carriera; da qui nascono le invidie, le gelosie, le rivendicazioni, con la conseguente perdita della serenità, della gioia di vivere il grande dono della vocazione. L'animo pacificato è frutto di un fondamentale equilibrio tra una piena e appagante relazione con il Signore Gesù, alimentata dalla preghiera profonda e fedele, e un'umile realistica comunione con le persone e tutto il quotidiano, assicurata dalla propensione al dialogo e alla verifica fraterna. L'animo pacificato traspare dal volto disteso, dal parlare costruttivo, dalla presenza discreta, dalla propensione all'ascolto.
     Una seconda dote è quella della “corresponsabilità presbiterale”. Non è più pensabile la figura del prete solitario che “regge” una parrocchia in maniera autonoma, seguendo le proprie intuizioni personali, per quanto possano essere profeticamente valide. Siamo chiamati a vedere ogni servizio pastorale come impegno e responsabilità di tutto il presbiterio. Non ci sono più allora incarichi prestigiosi e altri poveri e insignificanti, occupazioni comode e garantite rispetto ad altre più problematiche e rischiose. L'intero arco dell'attività apostolica di una diocesi viene passata al presbiterio come responsabilità comune, in modo che, animato e guidato dal Vescovo, se ne faccia carico nella sua totalità senza ombra di privilegi, di arroganze o latitanze. La corresponsabilità presbiterale domanda il coraggio del discernimento comunitario, la generosità del lavoro indefesso, l'onestà della stima e fiducia reciproche. Da essa nascono il sostegno fraterno, lo scambio di competenze, l'unità dei progetti e la sussidiarietà delle iniziative.
     Una terza dote è quella della “passione per la missione”. Se la natura stessa della Chiesa è di essere missionaria, i presbiteri non possono ridurre il loro servizio ministeriale alla conservazione dell'esistente, come tante volte avviene nelle nostre comunità. Anche la celebrazione dei Sacramenti, pur costituendo il compito principale del ministro ordinato, non può essere disgiunta dall'annuncio della Parola e dalla catechesi. In altri termini, ci deve stare a cuore la fede delle persone affidate alle nostre cure, per sostenerla nelle difficoltà e farla fiorire là dove è stata solo seminata, ma anche per annunciarla con la parola e la testimonianza a coloro che non credono. La passione per la missione vince la pigrizia, scommette sull'azione misteriosa della grazia, riempie di speranza le nostre fatiche.
     Attraverso queste attitudini passa quell'amore per Dio e per gli uomini che abbiamo scelto di interpretare come scopo della nostra stessa vita nell'attività pastorale. Aderendo al carisma dell'Istituto l'abbiamo poi consacrato nella forma della secolarità, convinti che il primo luogo della carità pastorale sono il mondo e la storia, e che il suo fine ultimo è la costruzione della civiltà dell'amore.
     Rileggiamo insieme quel breve ma intenso paragrafo delle Costituzioni che costituisce una sintesi efficace di tutto il discorso: “I presbiteri, perché sono ministri e testimoni di Cristo Risorto, portano tra gli uomini la forza dell'amore con la serenità, la speranza e il coraggio cristiano” (art 5/m).

     Vi abbraccio tutti, in semplicità e letizia

Don Francesco           

     Luglio-Ottobre 2008



Carità si coniuga con “gratuità”

   Cari amici,
     desidero condividere con tutti alcune riflessioni emerse nell'incontro di gruppo con i confratelli che vivono a Roma sul tema della gratuità. Sono concrete e di grande attualità, suffragate dall'esperienza variegata di giovani presbiteri provenienti dall'Africa (Burundi e Tanzania) e da regioni italiane diverse (Lombardia, Emilia Romagna, Umbria).
     La gratuità è una delle sfide più importanti del ministero presbiterale. La relazione vera, improntata alla carità, non può che essere gratuita. Ecco perché stride con la missione l'atteggiamento arrogante e prepotente del prete che gestisce la parrocchia come un'azienda e si rapporta ai fedeli con presunta sufficienza. La gratuità domanda umiltà, condivisione della vita quotidiana con le sue gioie e i suoi problemi, ricerca comune della verità attraverso l'ascolto della Parola, l'obbedienza allo Spirito che opera efficacemente anche sul popolo dei battezzati.
     Un'ulteriore sfida viene giocata sul fronte del disinteresse economico e della libertà nei confronti dei beni materiali. L'ostentata ricchezza dei mezzi e il mal celato benessere del prete non favorisce la stima e la fiducia dei fedeli che faticano ad assicurare alla propria famiglia il minimo necessario ad una vita dignitosa e serena. La gratuità domanda povertà, solidarietà anche materiale con i poveri, scelte controcorrente animate da un testimoniato abbandono nella Provvidenza.
     Anche un concreto spirito di servizio costituisce importante verifica della gratuità nello svolgimento del proprio ministero. Il ruolo, la posizione sociale, la deferenza ancor oggi riconosciuta al prete tendono a porlo sopra un piedestallo svilendo l'efficacia del suo insegnamento in quanto risulta “altro” rispetto alla normalità e alla semplicità del sentire comune. La gratuità domanda attenzione ai bisogni umani e spirituali del gregge, abnegazione nella risposta, dedizione senza calcoli e senza risparmio.
     Neppure il “battitore libero” interpreta adeguatamente l'appello alla gratuità iscritto nella natura del suo ministero. Assieme a chi ricerca riconoscimenti e compra i privilegi, egli fa dell'esercizio del sacro il pretesto per la propria affermazione personale, molto affine alle logiche della carriera e dell'arrivismo. La gratuità viene vissuta nella comunione, là dove le proprie doti e risorse sono messe in rete per il compimento di un progetto che è della Chiesa e il cui soggetto riconosciuto è il presbiterio.
     Il dialogo, l'apertura, l'accoglienza sono sfide molto attuali all'interno della Chiesa e nei confronti del mondo. Il prete che, timoroso di perdere la propria identità, si arrocca sulle proprie certezze e ne fa ragione di scontro o giudizio più che di sereno confronto, mina le fondamenta di una esperienza di chiesa chiamata a costruire l'unità tra i suoi membri e a collaborare alla costruzione di un rinnovato umanesimo cristiano. La gratuità è la valorizzazione del positivo che connota la cultura, la tradizione, così come la creatività e le spinte profetiche, senza gelosie, steccati, condanne aprioristiche ma con lo stupore di chi ha occhi per vedere le meraviglie che Dio continua a compiere nella storia.
     Secondo l'articolo 26 delle nostre Costituzioni il supplemento dell'agire gratuito è bene espresso dal riflessivo “spendersi”. Il prete non è chiamato a svolgere una “funzione” sia pure con generosità e competenza umana oltre che professionale, ma innanzitutto a donarsi come persona, a corrispondere con spirito oblativo ad una missione che non è lui a gestire ma che interpreta con passione in comunione con Cristo nella Chiesa.

     Vi abbraccio tutti, in semplicità e letizia

Don Francesco           

     Maggio-Giugno 2008



Custodi del mistero dell'amore di Dio

   Cari amici,
     è vivo il dibattito sul ruolo e sulla figura del presbitero. Anche il quotidiano Avvenire ha iniziato in queste settimane un “viaggio” con il professor Vittorino Andreoli sulla realtà dei preti nella società odierna. Non costituisce sorpresa che il quotidiano dei cattolici italiani disquisisca sul ministero e sulla vita dei presbiteri, ma risulta nuova la modalità: la voce è di un “non credente” – così si definisce Andreoli stesso – e il prete viene accostato dall'angolo visuale del suo rapporto con la vita sociale. Anche l'obiettivo è di particolare interesse: “Se il vescovo vuole che i suoi sacerdoti siano santi, io da psichiatra vorrei che fossero sereni e, almeno alcune volte, felici. La mia attenzione cioè è rivolta alle condizioni sociali del sacerdozio, poiché sono i prolegomeni alla serenità e alla felicità”.
     Può essere che al psichiatra veronese sfuggano le ragioni specificatamente spirituali che stanno alla base della felicità del prete, ma egli aiuta a fare un passo avanti rispetto ad una precedente visione riduttiva e stimola a considerare l'unità della persona del prete, esprimibile, sulla falsariga di un classico assioma, “prete sano in un uomo sano”.
     Questa problematica è stata affrontata anche nel numero 6/2007 di “Ut unum sint” dal nostro Lillo, che ci riferiva i risultati dell'indagine condotta in una diocesi del Nord sul “burnout” dei preti. Lo “stress da ministero” porta anche all'abbandono, molto più spesso all'insoddisfazione, ad un vissuto stanco e rassegnato.
     Quali vie percorrere per non cadere in questi rischi, per non entrare in crisi e “subire” la propria vocazione invece di viverla con entusiasmo e speranza?
     Sono più facili le analisi che le proposte, anche in questo ambito. Ma, ascoltando le riflessioni avviate in diverse chiese locali e attingendo alla nostra esperienza nell'Istituto, provo a indicare alcune “vie” capaci di orientare i percorsi formativi, assolutamente necessari non solo negli anni di preparazione e di inserimento nella realtà pastorale, bensì lungo tutto il cammino della vita di un presbitero.
     Una prima via è relativa all'esigenza che il presbitero ha di definire se stesso: il prete è l'uomo che custodisce il mistero dell'amore di Dio. Questa verità sacramentale ha una prima incidenza proprio nella percezione di sé e istituisce quella comunione con Dio, cercata nella preghiera, nell'ascolto della Parola di Dio, in un'intensa vita spirituale, che viene prima di ogni altra contingenza storica. Nella misura in cui egli vive e manifesta questa sua intima “natura” viene percepito sempre meno come manager e faccendiere e sempre più come portatore di un mistero d'amore, il mistero stesso di Dio. Egli stesso saprà serenamente privilegiare i tempi dell'esercizio delle funzioni più propriamente sacerdotali, quali l'annuncio della Parola, la formazione delle coscienze, la direzione spirituale, oltre ovviamente alla celebrazione dei sacramenti, rispetto alle faccende organizzative, dalla manutenzione dei locali alla ricerca dei finanziamenti necessari. Non sarà un trauma, ma un naturale sviluppo, all'interno di questa percezione di sé, il coinvolgimento dei laici, anzi costituirà il riconoscimento di una loro titolarità in questioni amministrative e gestionali. Ne guadagna l'immagine assieme alla salute fisica e psichica, messe in difficoltà tante volte proprio dalla molteplicità e conflittualità delle preoccupazioni.
     Una seconda via riguarda invece il proprio ruolo all'interno della Chiesa: il prete è l'uomo della comunità. La missione a cui è chiamato dal ministero stesso è il servizio non l'esercizio del potere, sulle orme del Maestro che è venuto non per farsi servire, ma per servire e dare la vita. Questa coscienza ha due implicazioni: la natura oblativa della propria scelta di vita e la dimensione comunitaria del suo sviluppo. Come uomo, come credente e come apostolo del Signore Gesù il prete è chiamato a maturare quell'agàpe che, lungi dal rinnegare la propria originalità, si traduce in dono gratuito e generoso, libero dal ricatto dei privilegi. Come pastore del popolo di Dio è chiamato a crescere e maturare nella sua umanità e vocazione solo all'interno di una comunità ed è inviato ad esserne un riferimento senza cessare mai di farne parte intimamente. Si tratta di una vera conversione alla comunità, cioè di uno spostamento del baricentro dalla comprensione dell'«io prete» di fronte a tutti, staccato da tutti e senza bisogno di nessuno a un «credente» prima di tutto, che umilmente scopre come l'amore di Dio di cui è testimone passa attraverso quello di una comunità che lo accoglie e lo custodisce. Il modello di prete «assertore di principi», «difensore della morale» e «organizzatore di iniziative parrocchiali», frustrato dall'indifferenza e dalla mancata corrispondenza, lascerà il posto a un modello di prete promotore di comunione e costruttore di comunità, serenamente integrato, nella ricerca pur severa della verità e della coerenza, in una fede e speranza condivise.
     “Il mistero dell'Incarnazione proclama ai presbiteri la loro identità e il loro compito: (…) essi rendono presente nel cuore della Chiesa l'amore di Dio per gli uomini nel Cristo, del quale sono segno, mediante la parola e il sacramento, e suscitano la comunione degli uomini con Dio e tra loro” (art 5/a delle nostre Costituzioni).

     Vi abbraccio tutti, in semplicità e letizia

Don Francesco           

     Marzo-Aprile 2008



La disciplina dell'amore

   Cari amici,
     mentre mi accingo a scrivere sul nuovo tema della “carità nella vita di relazione” che caratterizza l'identità e la missione del presbitero, mi urge dentro il bisogno della verifica sincera sul modo con cui interpreto e mi sforzo di vivere questa ineludibile esigenza di santificazione personale e di profezia ecclesiale.
     Amo la mia vocazione e quanto ha generato in me e attorno a me? Quale posto occupano nel mio cuore i confratelli, i superiori, i miei seminaristi e i membri dell'Istituto affidati in questo momento al mio servizio?
     Sono domande un po' imbarazzanti soprattutto perché portano a galla limiti e resistenze, ma nello stesso tempo assai stimolanti in quanto vanno alla radice del nostro carisma: “L'Istituto (…) è una comunità di presbiteri diocesani, chiamati dal dono dello Spirito Santo a cercare la perfezione del loro ministero e della loro vita per mezzo di quella forma di consacrazione che è conferita dalla professione vera e completa dei consigli evangelici nel secolo riconosciuta dalla Chiesa” (art 1 delle Costituzioni).
     Il primo amore è alla propria vocazione. Lungo gli anni ha assunto colorazioni diverse ma questo amore ha costituito l'ossatura della nostra stessa personalità. Dovendoci pensare, nei tempi della riflessione spirituale e non solo, e volendoci definire, in occasione di proposte e testimonianze, non possiamo trovare sintesi migliore di questa: “Siamo chiamati all'amore, siamo chiamati a vivere l'amore nei termini e con la radicalità propria di Colui che un giorno ci ha interpellati: Vieni e seguimi!”. È una sequela orientata all'intimità con Lui, non però alla chiusura, una sequela al dono di sé, al servizio. Chiediamoci se è stata questa la percezione di tanti giovani che hanno incrociato il nostro ministero negli anni dell'entusiasmo giovanile, così come di tanti adulti, sposi, persone consacrate, singoli fedeli che ci passano accanto o ci interpellano, assorbendo anche inconsapevolmente la carica oblativa della nostra vita.
     Amare la propria vocazione significa vivere con entusiasmo non solo la soddisfazione ma anche la fatica di questa oblatività, avvertendo con chiarezza che diversamente non avrebbe senso la scelta compiuta il giorno dell'ordinazione diaconale e sacerdotale. Non abbiamo scelto comodità e successo, prestigio e guadagno, bensì di metterci a disposizione perché attraverso di noi possa essere conosciuto e goduto l'amore di Dio per il suo popolo, per ognuna delle sue creature.
     La seconda importante esperienza d'amore cui siamo richiamati è alle persone che in maniera stabile si relazionano con noi e, ancor più, contribuiscono a costituire il nostro stesso stato di vita: sono il vescovo e il presbiterio, le comunità familiari o simili, dove sviluppiamo anche la carica affettiva della nostra vita.
     Guardando alla mia diocesi colgo con evidenza il senso di appartenenza, sia pure problematico e a volte conflittuale, ad una comunità di presbiteri solidale e rassicurante. Lo leggo nell'assistenza assicurata con dignità ai confratelli anziani e malati, nella cura verso chi si trova in qualsiasi genere di difficoltà, nell'attenzione rispettosa delle peculiarità e delle risorse personali.
     Questa realtà offre serenità e integra anche umanamente, ma nello stesso tempo domanda disciplina, la disciplina dell'amore. Le espressioni di questa disciplina che intravedo necessarie sono la relazione costante e sincera, mai arresa di fronte a inevitabili incomprensioni e chiusure, l'attenzione coinvolta e partecipe alla storia personale di ciascuno come di un membro della propria stessa famiglia, la condivisione degli ideali e dei progetti sia personali che pastorali. Sopra tutto diventa esperienza d'amore fraterno la comunione sacramentale e spirituale, coltivata nel profondo della propria coscienza e alimentata dalla preghiera, primariamente quella liturgica.
     Prima di scrivere sulla carità ho individuato elementi fondamentali su cui verificarmi. Li propongo anche a voi, così, per crescere insieme nell'amore reciproco.

     Vi abbraccio tutti, in semplicità e letizia

Don Francesco           

     Gennaio-Febbraio 2008



Il nome della speranza

   Cari amici,
     questa lettera vi raggiunge agli albori del nuovo anno. L'abbiamo iniziato celebrando la Divina Maternità di Maria. Trovo significativo concludere le riflessioni sul tema della speranza invitando a volgere verso di Lei il nostro sguardo e il nostro cuore.
     Lo sguardo, per cogliere le sfumature del suo agire, dall'Annunciazione alla Pentecoste, e accorgerci che è colorato di speranza. La speranza che aveva guidato assieme al suo popolo l'attesa della salvezza ha animato anche la sua risposta nel dialogo misterioso con Dio mediato dalla figura dell'angelo. L'energia della speranza ha messo in moto quei piedi che l'hanno condotta dalla cugina Elisabetta e ha dato fiato alla sua voce nel prorompente inno di lode e di ringraziamento che ha sancito l'incontro tra il vecchio e il nuovo testamento sulle montagne di Ain Karem.
     Il frutto della speranza ha stretto tra le braccia e proposto agli umili pastori e ai ricchi magi nella sperduta borgata di Betlemme; lo stesso che ha difeso, assieme al debole Giuseppe, scelto un giorno come sposo, dalla feroce arroganza del potente Erode che ne aveva decretato prima del tempo l'annientamento. La stretta provocata dalla profezia di Simeone e Anna non ha atrofizzato la speranza in quel cuore di madre che nel silenzio di Nazareth per lunghi anni ha meditato le parole del figlio: "Non sapevate che devo interessarmi delle cose del Padre mio?".
     Animata dalla speranza ha fatto anticipare l'ora in cui il Messia aveva previsto di rivelare la sua identità, quando disse ai servi: "Fate quello che Egli vi dirà".
     Solo la speranza ha impedito che anche il suo petto si squarciasse ai piedi della croce, quando la voce di Gesù che le affidava in Giovanni l'umanità è penetrata nelle sue viscere al pari della lancia che fece uscire da quelle del figlio le ultime gocce di sangue e le prime di quell'acqua destinata ad offrire la grazia del perdono. "Donna del sabato santo" ha atteso non solo la resurrezione ma anche la pienezza del dono dello Spirito, diventando per la chiesa tutta modello di speranza.
     Il cuore, per imitarne le virtù e informare nel suo esempio lo sviluppo del nostro ministero. Esempio di umiltà e di servizio che ci spingono a dedicare la vita ai fratelli non presumendo delle nostre capacità ma ponendo la nostra speranza in Colui che ci ha chiamati e inviati promettendo di restare sempre con noi.
     Esempio di docilità e prontezza che fanno della nostra vocazione il luogo in cui si prolunga nel tempo la missione che Gesù a ricevuto dal Padre ed ha affidato ai suoi discepoli, portatrice di speranza a quanti attendono il riscatto dalle proprie infermità fisiche e morali.
     Esempio di fedeltà e pazienza che costruiscono il nostro quotidiano ripetitivo e scontato con la speranza di vederlo un giorno fiorire al di là di ogni aspettativa con le promesse primaverili dei frutti dello Spirito.
     Esempio di sacrificio e generosa offerta che ci uniscono al mistero eucaristico del pane spezzato e della lavanda dei piedi attraverso i quali passa la speranza di tutta la storia, la speranza che questo nostro tempo torni ad esse il luogo dell'incontro, del dialogo, della pace e il giardino dell'Eden torni domani ad ospitare nella Gerusalemme del cielo l'umanità riconciliata con Dio.
     Buon cammino con Maria. Assunta in cielo, incoronata e invocata regina degli angeli e dei santi, delle famiglie e di tutto il popolo cristiano, riempia di speranza ogni spazio del nostro complesso vissuto così da rendere solido l'edificio incerto dei nostri fragili progetti con il cemento della certezza che viene dall'Amore incontrato e testimoniato.

     Vi abbraccio tutti, in semplicità e letizia

Don Francesco           

     Novembre-Dicembre 2007



Un volto alla speranza

   Cari amici,
     ho incontrato la maggior parte di voi ai vari corsi di Esercizi. È stato bello e importante riconoscere insieme i doni ricevuti dal Signore e confermarci nella risposta libera e generosa alla sua particolare chiamata. Con questa lettera desidero far pervenire a tutti, anche a coloro che non hanno potuto partecipare ad un corso dell'Istituto, la riflessione condivisa sul tema dell'appartenenza. Con la scomparsa del caro Don Angelo Mazzarone, degli altri presidenti emeriti, e di tanti fratelli della prima ora non devono scomparire, infatti, le ragioni della nostra forma di vita e lo spirito con cui siamo chiamati a incarnarla oggi.
     Noi apparteniamo al Signore, per cui la prima e più importante relazione va vissuta con Lui, sorgente e meta della nostra speranza. Tuttavia questa appartenenza si storicizza in contesti specifici, assumendo un volto, quel volto che ci permette di testimoniarla.
     Il primo contesto è un presbiterio. Indispensabile condizione per entrare a far parte dell'Istituto è proprio questa appartenenza ad un presbiterio, ad una chiesa locale. Essa costituisce un elemento importante della nostra secolarità. Lì siamo chiamati anzitutto a vivere la nostra missione: promuovere la fraternità, far amare e accrescere l'ecclesialità, sollecitare alla contemporaneità, elaborare percorsi di pastorale rinnovata…
     Tuttavia siamo stati chiamati dal Signore a compiere questa missione all'interno di una particolare forma di vita, descritta nella sua idealità e nella sua concretezza dalle nostre Costituzioni. Per questo apparteniamo ad un Istituto, che ha una struttura e si è dato delle regole allo scopo di formare i suoi membri e aiutarli a vivere le esigenze della propria vocazione.
     Appartenere all'Istituto non smentisce né relativizza l'appartenenza al presbiterio e alla chiesa locale, anzi. Tuttavia appartenere all'Istituto non è secondario e opzionale. È esigenza funzionale alla propria identità spirituale e ministeriale, che poi si postulano reciprocamente.
     L'appartenenza all'Istituto passa attraverso la vita di gruppo. Non è uno scotto da pagare, né la ricerca di un sostegno morale. È l'ambito naturale di espressione e quindi di verifica della propria vocazione. Se si ama la vita del gruppo, se si ricerca l'incontro con i confratelli consacrati, se si offre la propria disponibilità allo studio e alla ricerca comuni, se si mette in calendario l'incontro mensile al di sopra di ogni altra esigenza, soprattutto personale, vuol dire che si appartiene all'Istituto, altrimenti l'appartenenza è solo formale.
     L'appartenenza all'Istituto passa attraverso uno stile di vita sacerdotale umile e generosa. I confratelli, e il vescovo stesso, devono poter accorgersi che apparteniamo all'Istituto perché siamo preti obbedienti, preti che non cercano posizioni di prestigio e di potere, preti che non sono attaccati ai soldi e agli interessi personali, preti che non vantano attenzioni e non esigono riconoscimenti, ma serenamente servono la chiesa locale nelle modalità e nei luoghi dove sono richiesti, con la preferenza a quelli più problematici e meno gratificanti. Nessuna tendenza al masochismo, in tutto questo, ma fedeltà alla professione dei consigli evangelici vissuti non in una dimensione intimistica ma storica.
     L'appartenenza all'Istituto passa ancora attraverso la fedeltà agli adempimenti: Esercizi annuali nell'Istituto, e se altrove motivandone la ragione; domanda di ammissione al rinnovo in Quaresima; rinnovo annuale al Corso di esercizi o in gruppo, premettendo la verifica; versamento della quota annuale; lettura della Circolare “Ut unum sint”. Non siamo consacrati “fai da te”, ma membra vive di un organismo che cresce e si rigenera con la partecipazione di tutti e per il bene di tutti.

     Vi abbraccio tutti, in semplicità e letizia

Don Francesco           

     Settembre-Ottobre 2007



I luoghi della speranza

   Cari amici,
     questo tema della speranza risulta quanto mai affascinante. Sta aprendo squarci di luce inaspettati tra le nubi del presente, come avviene di frequente quando si scurisce il cielo in primavera. La speranza illumina il cammino, arricchendo di significato spazi semplici e feriali di vissuto. Mi piace chiamarli “i luoghi della speranza”. Sì, perché la speranza non è virtù teorica e intimistica. Se scorre come un fiume carsico sotto la crosta di un quotidiano a volte grigio e piatto, essa torna in superficie proprio nei momenti di maggiore responsabilità.
     Luogo di speranza è la comunione con Cristo. La vita spirituale è il fondamento della speranza. Infatti essa è innanzitutto amore gratuito di Dio, di Dio che ci cerca in Gesù Cristo, di Cristo che patisce e muore per noi. Siamo stati riscattati, ci ricorda l'apostolo Pietro, dal sangue prezioso di Cristo; il che vuol dire che siamo debitori della nostra vita a Dio, che siamo frutto d'amore. E chi ci potrà separare dall'amore di Dio? Immagine di speranza è il prete felice, di una felicità che sembra non avere giustificazione dal punto di vista umano, perché affonda la sue radici nel segreto di un cuore innamorato di Dio.
     Luogo di speranza è la fraternità presbiterale. Vive la speranza il prete che ha forte la coscienza di essere presbiterio, di vivere la propria identità e missione non in solitudine ma in cordata. Non solo perché insieme si fa meglio, anzi a volte si impiega più tempo perché bisogna aspettarsi, da soli si fa più in fretta. Ma per obbedire allo stile voluto da Gesù che li mandò a due a due, segno di una autorevolezza che non ci appartiene, che ci viene data. Insieme si supera la fragilità, ci si dichiara consapevoli di aver bisogno l'uno dell'altro per il proprio cammino. Immagine di speranza è allora il prete che condivide la vita, la fede, il ministero, partecipa al cammino di formazione permanente della diocesi, fa tesoro delle proposte di spiritualità e coltiva sinceri rapporti esistenziali con il vescovo e i confratelli.
     Luogo di speranza è il dono di sé. La capacità, cioè, di donare, di donare senza attendere nulla in cambio, di donare accoglienza, fiducia, perdono. Se calcoliamo tutto, se valutiamo ogni azione sulla base del vantaggio e dello svantaggio, vuol dire che non siamo aperti al futuro, non facciamo affidamento sulla provvidenza di Dio. Immagine di speranza è il prete giovane che accoglie con generosità ed entusiasmo il servizio pastorale che il vescovo gli affida, qualunque esso sia; è il prete che nell'esercizio del suo ministero non accampa crediti da nessuno e non ha debito alcuno se non quello di un amore sempre più grande.
     Luogo di speranza è la libertà interiore. Sperare, infatti, vuol dire acquisire un atteggiamento di scioltezza, di leggerezza di fronte alle cose e agli avvenimenti della vita, compresa la vecchiaia e la stessa morte. Se noi siamo continuamente in ansia, se ci preoccupiamo fino all'angoscia di circondare la nostra vita di protezione, di garanzie, che speranza abbiamo? Immagine di speranza è il prete anziano che lascia serenamente il proprio incarico pastorale, una volta raggiunti i previsti limiti di età, e trasloca con due semplici valigie piuttosto che con sorprendenti processioni di camion.
     Luogo di speranza è la scelta degli ultimi. Profeta di speranza è anche colui che non sceglie di stare con i vincitori di questo mondo, ma preferisce i poveri, i sofferenti; la chiesa si prende cura di tutte le situazioni di marginalità perché è animata dalla speranza. Immagine di speranza è il prete per il quale la fragilità è un ambito non solo di attività pastorale ma soprattutto di relazioni umane significative e costanti, per cui compie volentieri la visita ai malati, dedica tempo all'ascolto dei poveri, difende la causa dei deboli e si fa voce di chi non ha voce.
     Luogo di speranza è la fedeltà e la pazienza. Stanno alla base della perseveranza, del coraggio, della volontà di affrontare resistenze, durezze, tutte le opacità del presente. Immagine di speranza è la vita del prete che sa stare al suo posto, che coniuga bene insieme verità e carità, che affronta l'inevitabile frenesia del tempo dedicando tempo a ciò che è essenziale: l'annuncio della Parola e il dono della Grazia, attraverso la predicazione, la celebrazione dei sacramenti, la direzione spirituale.
     Luogo di speranza è la corresponsabilità ecclesiale. Di speranza, infatti, si sostanzia il modo nuovo di intendere e vivere il compito specifico del prete, dentro una visione di chiesa dove ciascuno ha un dono particolare in ordine alla testimonianza del Risorto. Pensiamo a una delle icone più significative del vangelo di Pasqua, quando Maria di Magdala va da Pietro e Giovanni e poi tutti e tre insieme vanno al sepolcro a ricercare i segni del Risorto; tre persone diverse, con caratteri diversi, con storie diverse che camminano insieme alla ricerca dei segni del Risorto. Immagine di speranza è il prete che non si sente padrone ma servitore della verità, che cammina con tutti e come tutti sui sentieri della storia alla ricerca di quei segni che confermano la certezza che porta nel cuore: Dio ha salvato il mondo! Diventiamone testimoni.

     Vi abbraccio tutti, in semplicità e letizia

Don Francesco           

     Maggio-Agosto 2007



Il paradigma della speranza

   Cari amici,
     vi scrivo nel cuore della Quaresima, mi leggerete nel clima gioioso della Pasqua. Questo passaggio dalla Quaresima alla Pasqua è un paradigma per noi credenti in Cristo, il paradigma della speranza. È stato ribadito al Convegno ecclesiale nazionale: l’originalità della speranza cristiana è una persona, Gesù Cristo risorto, che riempie di “senso” la vita dell’uomo in ogni suo percorso, anche quelli più complessi e drammatici.
     C’è un futuro già dato, un futuro che mi viene incontro come libero dono. Nel linguaggio teologico si chiama “eschaton” ed è la condizione definitiva che solo Dio può donare. Ebbene in Cristo Gesù questo dono è già stato fatto: “Noi fin d’ora siamo figli di Dio - dice Giovanni (1Gv 3,2) - ma ciò che saremo non è stato ancora rivelato; sappiamo però che quando egli si sarà manifestato, noi saremo simili a lui”. Questa visione teologica bene espressa dal linguaggio giovanneo non elimina la creaturalità, ma introduce una realtà futura che eccede la creaturalità e parla del destino dell’uomo come un destino condiviso con Cristo (“simili a Lui”). Con Lui saremo morti e risorti, morti al peccato, risorti allo spirito, con un’esistenza nuova rispetto all’oggi.
     L’escatologia quindi si lega all’esperienza di Cristo fatta nostra attraverso l’adesione della fede. Esprime la convinzione che la storia è nelle mani di Dio e che la storia del mondo può trovare il suo compimento in Cristo.
     Quello che trovo importante per noi è che l’eschaton non si contrappone al tempo ma lo chiarisce e lo illumina. L’escatologia è dimensione profonda del tempo e della storia umana; è il segreto della storia umana; l’eschaton potrebbe essere definito addirittura come il mistero del tempo. Come tale il tempo non ci permette di venire a capo di alcunché fino a quando noi non saremo posti di fronte al suo mistero, quello di un compimento già avvenuto e in esso nascosto. È possibile distinguere ma non è possibile separare la storia umana di libertà dalla salvezza donata da Dio. Chi nel riferimento a questa salvezza riesce a scorgere il mistero del tempo è anche capace di cogliere nella concretezza dei singoli momenti la struttura di speranza che vi è racchiusa.
     Alla base di questa visione teologica sta il mistero dell’incarnazione intesa come vivo e libero scambio tra le sfere del divino e dell’umano. Balthasar scrive: In questo movimento Cristo mostra che le due sfere non sono originariamente estranee l’una all’altra, l’una contro l’altra, perché è stato mandato a farsi uomo colui che chiama Dio “suo padre” ed entra egli che ne è “figlio” in un mondo che al padre appartiene. Pensato sulla base dell’incarnazione l’eschaton appare allora come un incontro-relazione d’amore, libera e responsabile, tra Dio Padre e l’umanità: Cristo infatti con il mistero della sua Pasqua porta a compimento la nuova ed eterna alleanza che riconcilia il divino con l’umano, il passato e il futuro, offrendo al presente sulla terra un grande spessore di “senso”.
     Lo spessore di senso del presente è la speranza cristiana. In sintesi potremmo dire che la speranza è l’atteggiamento di chi ha accolto il mistero del tempo, è l’atteggiamento di chi vive, cioè, nel tempo la tensione verso quel futuro che Dio gli ha donato.
     Il futuro di Dio interpella continuamente la nostra libertà perché si apra alla sua verità ultima. La risurrezione di Gesù ha messo in movimento un processo storico determinato escatologicamente, la cui meta è la distruzione della morte nella vittoria della vita, la cui meta termina in quella giustizia con cui Dio ottiene ragione su tutto, e in cui anche il creato trova la propria redenzione.
     Tuttavia non dobbiamo dimenticare che questa speranza, questo futuro di Dio ha la forma del crocifisso e nel crocifisso guadagna centralità in un mondo di peccato e di morte, di violenza e di ingiustizia per essere proprio lì il principio del rinnovamento. Non ci serve una prospettiva che, a immagine delle altre religioni - dell’ induismo ad esempio - salti il finito sognando di potersi immergere nell’infinito. Ci serve una capacità di immergere la stessa realtà di Dio entro il finito di morte, di male, di povertà e di miseria umana per poter vedere se a partire da questa storia, non saltando al di là di essa, si può parlare di salvezza e di speranza. Questa visone si lascia certamente alle spalle una concezione del progresso intesa come movimento assolutamente autonomo dello spirito umano, ma si lascia alle spalle anche la visione di un’eternità che sovrasta indifferente lo scorrere del tempo senza sentirsene mai toccata.
     Vi affido questa riflessione, invitandovi a meditare l’art. 5/c delle nostre Costituzioni: “…il presbitero, configurato a Cristo nella realtà sacramentale del sacerdozio ministeriale e con Cristo in comunione di rapporto personale costante, vive con la gioia della fede questa sua parte del mistero della croce aperto alla risurrezione”.

     Vi abbraccio tutti, in semplicità e letizia

Don Francesco           

     Marzo-Aprile 2007



Seminatori di speranza

   Cari amici,
     sto tornando a Chioggia dopo il nostro annuale Seminario di studio e penso a tutti voi, al grande dono della famiglia presbiterale dell'Istituto, alla possibile incisività del carisma nella vita delle Chiese locali e nell'esercizio del ministero.
     Sulle pagine di questo numero rinnovato di Ut Unum Sint troverete gli Atti di un'esperienza ricchissima per i contenuti, la modalità di svolgimento e la significativa partecipazione. Tuttavia desidero tornarci sopra anche con questa lettera. Ho un'idea da comunicare, una convinzione da condividere, un desiderio da esprimere.
     L'idea. Ci sono molti preti seriamente impegnati a consegnare alla storia, sia attraverso l'attività pastorale che il proprio cammino di santificazione, la figura di un pastore attento, coraggioso, profetico. Sarebbero in grado di apprezzare il carisma degli Istituti secolari, ne verrebbero incoraggiati e orientati; ma in realtà non ne conoscono neppure l'esistenza. Così come non la conoscono tanti altri presbiteri magari disorientati dalla complessità della realtà sociale ed ecclesiale di oggi, che potrebbero ricevere dall'appartenenza ad un Istituto quel fraterno accompagnamento che li aiuti a superare le inevitabili tentazioni allo scoraggiamento e al ripiegamento su se stessi.
     La convinzione. La diffusione di questo carisma e il suo futuro sono iscritti nella nostra capacità di vivere relazioni significative, di comunicare l'entusiasmo di uno stile di vita pienamente coinvolto nelle vicende del nostro tempo e profondamente abitato dalla presenza viva del Risorto. Si tratta non solo di confermare l'insostituibilità della testimonianza, ma anche di veicolarla in quei rapporti personali e feriali che incidono maggiormente nella reciproca edificazione. Proprio nel dialogo che ho avuto con i fratelli della Germania ho avuto conferma di questa convinzione: alcuni presbiteri si sono affacciati al gruppo con il chiaro desiderio di potersi confrontare sulla vita personale e non solo sul ministero.
     Il desiderio. Che possiamo diventare seminatori di speranza nei solchi del quotidiano. La nostra missionarietà possa esprimersi oggi nelle nostre comunità, nei nostri presbiteri e nell'azione pastorale in termini di affidamento alla grazia dello Spirito e di fiducia nelle risorse di questa umanità ricca di valori anche se segnata da profonde ferite e contraddizioni. La nostra missionarietà possa esprimersi nella capacità di rispondere alle nuove attese e alle crescenti novità che il “saeculum” pone al Vangelo. La nostra missionarietà possa esprimersi non tanto nell'intimismo e nel clericalismo, che segna ancora troppe comunità parrocchiali, ma “nell'andare in cerca di relazioni e relazioni per elevare e cambiare in Vangelo tutto quanto si incontra” (come mi scrive Don Angelo in una delle sue belle lettere).
     Torno volentieri al mio Seminario. Si respira il gusto dello stare insieme, anche se non mancano le spigolature provocate dalla diversità dei caratteri e delle personalità. Il confronto è reso fecondo dalla stima e dalla fiducia reciproche, dalla condivisione della passione pastorale, dal sostegno nelle differenze. Il Signore mantenga questo spirito di relazioni sincere e solidali nell'arco dell'intera missione presbiterale. Ne costituisce frutto e radice.

     Vi abbraccio tutti, in semplicità e letizia

Don Francesco           

     Gennaio-Febbraio 2007



Negli spazi infiniti delle dinamiche relazionali

   Cari amici,
     ho avuto la gioia e la grazia di partecipare al Convegno ecclesiale nazionale, delegato della mia diocesi. Ve ne parla in maniera compiuta Don Giuliano all'interno di questo numero della Rivista. Ci siamo ritrovati in tanti, da Don Angelo Mazzarone al vescovo Thomas Maria Renz, inviato come osservatore dall'episcopato tedesco, e poi altri sodali anche giovani (ne ho contati una quindicina), segno che nelle nostre chiese locali siamo visti come preti capaci di futuro, servitori di quel rinnovamento pastorale per il quale l'assise di Verona ha tracciato ulteriori percorsi.
     Desidero raccontarvi che ho scelto di lavorare in un gruppo dell'ambito che rifletteva sulla “Vita affettiva”. Avevo voglia di dire che l'affettività è una risorsa enorme anche nello sviluppo della formazione e della vita del prete.
     Dal punto di vista teologale solo l'esperienza dell'amore di Dio in Cristo Gesù, morto e risorto, giustifica la nostra scelta di vita così radicale. Il primo dato del percorso vocazionale è la coscienza di essere amati; è l'amore accolto che genera la risposta e mette in moto verso i fratelli.
     Dal punto di vista antropologico la maturità della persona è definita dalla sua capacità di amare sull'esempio di Colui che ha dato la Sua vita per la salvezza dell'umanità. Il cammino formativo, sia quello iniziale che quello permanente, è chiamato a porre al centro proprio questa “abilità” che si affina con l'ascesi iscritta nella scelta rivoluzionaria dei consigli evangelici.
     Dal punto di vista pastorale la domanda insistente è di uscire dalla logica valida ma riduttiva degli ambiti e dei soggetti per navigare sugli spazi infiniti delle dinamiche relazionali, di cui proprio l'assemblea liturgica è punto di arrivo e punto di partenza. È stato l'agire di Gesù nello spazio della Sua vita terrena, dal segreto di Nazareth agli incontri con quanti incrociava sulla via nella sua vita pubblica. Gli elementi propri ma non esclusivi della vita di coppia e di famiglia, quali la tenerezza, il rispetto, la collaborazione, la solidarietà, il dialogo, l'ascolto ecc. sono stati e continuano ad essere i luoghi concreti in cui e per mezzo dei quali Dio si fa presente e parla.
     Si può evincere che nella riflessione sulla vita affettiva è avvenuto un passaggio fondamentale. Da una visione dell'affettività come problema, per lo più morale, e ambito da educare, si è passati a considerarla risorsa per l'incarnazione dell'annuncio evangelico. Per cui emerge chiaramente che ogni forma di vita cristiana è chiamata a sostanziarsi di esperienza affettiva, intesa come “relazione eticamente qualificata”.
     Dal mio osservatorio di rettore del Seminario rilevavo come anche nella formazione del futuro presbitero è fondamentale lo sviluppo di una equilibrata vita affettiva, per superare i rischi, presenti in un non lontano passato, del prete “individuo”, solo, e a volte incapace di relazioni significative e paritarie. Anche il fronte del dialogo tra presbiteri e laici può venire arricchito da quelle relazioni affettive che si sviluppano al di là di quelle puramente funzionali, di ruolo.
     Si sono dati dei nomi anche alle fragilità di una vita affettiva immatura. Non ne siamo esenti, per cui vale la pena sostare a individuarle: la cultura dell'individualismo che riduce l'affettività a sentimentalismo e ricerca di piacere, l'analfabetismo affettivo che rende incapaci di assumere impegni e responsabilità, il rifugio nel virtuale, cioè in relazioni cercate e consumate in internet, nelle chat o messenger vari.
     Ancora una sollecitazione, tutta nostra, per dare seguito a questo percorso così importante emerso dal Convegno: coltiviamo la fraternità nel gruppo e promuoviamola nel presbiterio. A Verona ho parlato degli Istituti secolari, anche di quelli sacerdotali, come “laboratori” di relazioni liberanti. La nostra famiglia è questa. Lo è per ragioni sacramentali, lo sia anche per elezione.

     Vi abbraccio tutti, in semplicità e letizia

Don Francesco           

     Novembre-Dicembre 2006



La competenza relazionale

   Cari amici,
     vi penso immersi nelle attività che tradizionalmente danno avvio al nuovo anno pastorale: riunioni con il Consiglio pastorale, quello degli affari economici, il gruppo dei catechisti; preparazione degli ambienti per la catechesi e le attività ricreative; stesura di un programma di massima per l'ammissione ai sacramenti dell'Iniziazione cristiana, per lo sviluppo di celebrazioni liturgiche integrate con l'attenzione che siamo chiamati ad avere in particolare alle famiglie, ai giovani, alle situazioni di disagio materiale e morale sempre più numerose in tutte le parrocchie.
L'elenco potrebbe continuare senza esaurire mai completamente le innumerevoli esigenze ed attese di una pastorale complessa e in continua evoluzione. È saggio attenersi alle indicazioni del magistero dei nostri vescovi, ai programmi pastorali della diocesi, mettendo al primo posto la preghiera, “riconoscendo i nostri limiti, riconoscendo che dobbiamo lasciar fare la maggior parte delle cose al Signore”, come ricordava il Papa ai sacerdoti della diocesi di Albano nell'udienza del 31 agosto u.s.      Mi inserisco in questo contesto per proporre una riflessione in continuità con il tema della relazione che ci ha tenuti occupati in questo anno formativo, in particolare nell'assemblea generale di luglio.
     Trovo importante infatti sottolineare che il nostro agire risulterebbe sterile se avvenisse nell'arrogante presunzione che tutto dipende da noi, dalle nostre vedute personali e capacità organizzative. Siamo di fronte ad una comunità, ma ancor prima inseriti in una comunità. Il nostro ministero pastorale, come ci ha ricordato recentemente S. Agostino, non ci rende padroni del gregge ma servitori della fede dei nostri fratelli. Mettiamoci allora in dialogo, affiniamo l'arte dell'ascolto, armiamoci più di fiducia che di sicurezze, percepiamo che non dobbiamo trascinare avanti una massa di individui sempre più amorfi e indifferenti, ma una comunità di persone ricche di valori umani ed evangelici, testimoniati per lo più in quel quotidiano che costituisce il tessuto vero della stessa esperienza cristiana. Il luogo della nostra azione pastorale sia la vita delle persone, la storia delle famiglie, gli eventi del territorio che incidono sui loro comportamenti e scelte.
     Un'altra relazione importante quindi è con l'ambiente sociale e culturale in cui si inserisce il cammino di fede della nostra comunità. Richiede conoscenza profonda, preventivo rispetto, inserimento intelligente, discernimento comunitario. Nessuna situazione e pensiero ci sono estranei, ogni tradizione e nuovo progetto vanno verificati alla luce della perenne giovinezza del Vangelo, perché la prima contestazione o accoglienza sia l'amore e le sue rivoluzionarie esigenze.
     Penso abbiate letto tutti la Nota dell'Ufficio catechistico nazionale su “La formazione dei catechisti nella comunità cristiana” editata nel giugno scorso. Potrebbe essere utile anche per i nostri fratelli tedeschi e polacchi (si può scaricare da internet). Ha un respiro nuovo, che risente dell'ossigeno portato alla pastorale delle nostre chiese dai recenti pronunciamenti sulla comunicazione della fede, sul volto missionario delle parrocchie, sull'esigenza del primo annuncio, sul fondamento della speranza che è Cristo Gesù e il suo mistero di risurrezione. Ma ciò che mi ha colpito maggiormente è l'elenco delle “abilità” che vengono richieste oggi al catechista: “la competenza relazionale, la capacità di annuncio e di narrazione, la capacità di educare a leggere i segni di Dio, la capacità di introdurre alla vita della comunità” (n. 25). Un'attenta riflessione e un approfondimento di queste “abilità” possono delineare la personalità dello stesso presbitero nell'esercizio del suo ministero.
     Un ulteriore passaggio della Nota citata riguarda lo “stile del laboratorio” da assumere tra i metodi possibili al servizio della formazione. “La caratteristica principale del laboratorio è quella di produrre facendo, sperimentando, e di assumere l'esistenza e il vissuto dei partecipanti come luogo di ricerca, di analisi e d'intervento” (n. 37; cfr. nn. 39-41). Amo citare questa indicazione perché può essere assunta non solo come metodo di formazione dei catechisti, ma bensì come cammino di tutta una comunità che si lascia educare da relazioni concrete, dalla condivisione della propria esperienza del Signore Risorto tra le pieghe complesse ma affascinanti dello stupendo dono di ogni vita.

     Vi abbraccio tutti, in semplicità e letizia

Don Francesco           

     Settembre-Ottobre 2006



La gioia e la responsabilità di ripartire

   Cari amici,
     tutti i delegati all'assemblea generale elettiva, con un attestato di grande stima e affetto, mi hanno voluto per altri sei anni guardiano del nostro carisma e della sua attualizzazione. Non è facile riconciliarsi con questa idea; non mi è facile soprattutto se penso ai miei limiti e alle esigenze sempre nuove di un servizio così delicato. La relazione con le persone, il dialogo con la storia, la risposta alle sfide poste alla fede e alla nostra forma di vita richiedono uno sguardo acuto e un cuore grande. Ho accettato in nome di quel passaggio della nostra preghiera a Cristo Re che dice: “Noi vogliamo compiere con umiltà di cuore il servizio al quale tu chi chiami, per l'avvento del tuo Regno”, confidando quindi nella sua grazia.
     Desidero però meditare con voi l'esortazione che Pietro rivolge agli anziani nella sua prima lettera: “Pascete il gregge di Dio che vi è affidato sorvegliandolo non per forza ma volentieri secondo Dio; non per vile interesse, ma di buon animo; non spadroneggiando sulle persone a voi affidate, ma facendovi modelli del gregge. E quando apparirà il pastore supremo riceverete la corona della gloria che non appassisce” (5,2-4). Sono parole di grande responsabilità ma anche di grande conforto, che offrono indicazioni preziosissime per me in questo momento e per ciascuno di voi nell'esercizio di qualsiasi tipo di responsabilità: spirito gioioso, buon animo, vita coerente.
     Il primo invito è a non far pesare la fatica fisica e psicologica che la responsabilità del governo suo malgrado comporta, attingendo serenità dalla consapevolezza che la famiglia dell'Istituto appartiene al Signore e che il miglior servizio è compiere docilmente la sua volontà così come di volta in volta si presenta. La ricerca della volontà di Dio nella preghiera e nella meditazione della Parola, nel dialogo aperto e nella corresponsabilità garantisce retta intenzione e il vero bene di tutti. Ne deriva quella riserva di gioia che si legge nel volto e traspare nei tratti, di cui vorrei essere sempre portatore.
     Il terzo invito è ad una testimonianza di vita coerente con l'identità e gli obiettivi del nostro carisma, con gli impegni dettati dalle Costituzioni, con le risposte che la Chiesa e il mondo si attendono da un consacrato secolare. Lungi da me la presunzione di poter essere un modello per voi. Mi conceda il Signore di convertirmi continuamente e di fare penitenza per le mie incoerenze, e di questo possa diventare semmai un segnale che valga per tutti nel difficile cammino di fedeltà al Signore.
     Ora le doti richieste al pastore sono indicative anche della identità del gregge. Possa scorrere tra noi la linfa di un sincero affetto, stima e accoglienza. Il nostro dialogo personale ed epistolare sia improntato all'incoraggiamento, alla ricerca del positivo anche all'interno di inevitabili tensioni, incomprensioni, contrasti sia nell'ambito civile che ecclesiale. L'esercizio delle virtù umane costituisca tra noi e per noi una gara positiva nel manifestare la novità di vita cui siamo costantemente introdotti dall'esperienza della redenzione. La relazione intima con Cristo intensifichi la comunione tra di noi, comunione di ideali e di percorsi, si da non sentirci mai soli e dimenticati. Per questo impariamo ad amare e a desiderare tutte le occasioni per incontrarci, condividere, sostenerci reciprocamente.
     L'impegno di vita richiesto dalla nostra consacrazione stia al primo posto tra le molteplici esigenze del ministero perché nella maggior parte dei casi le deroghe arbitrariamente motivate sono frutto di sconti e di accomodamenti. Anche la ricerca di modalità nuove con cui donarci incondizionatamente all'umanità attraverso l'annuncio del vangelo e la celebrazione dei sacramenti non dev'essere lasciata alle circostanze o all'improvvisazione ma programmata come stile profetico.
     Una sfida ci attende in questi anni, anche alla luce del recente incisivo magistero del Papa e dei Vescovi, quella di una radicalità più convinta e reale. Si aggancia qui il discorso vocazionale, perché nessuno può restare affascinato da una vita mediocre e insignificante che oscura ideali alti e coraggiosi. Anche il nostro attaccamento alla Chiesa locale e il nostro apostolato nel presbiterio sono chiamati a sostanziarsi di radicalità, pena il loro svuotamento di significato e di valore.
     Un ultimo invito rivolgo a tutti: appropriamoci delle ricche indicazioni che sono venute dall'assemblea generale e di cui troviamo eco in questo numero della Rivista. Essa, infatti, come recita l'art. 48 delle Costituzioni, “interpreta il disegno di Dio nei segni dei tempi e ne trae direttive, affinché l'Istituto possa compiere la sua missione”

     Vi abbraccio tutti, in semplicità e letizia

Don Francesco           

     Luglio-Agosto 2006



La ragion d'essere della vita consacrata

   Cari amici,
     quando leggerete questa mia lettera saremo ormai in assemblea elettiva, per cui verrebbe facile tentare dei bilanci a conclusione di questo sessennio. Li lascio alla relazione che terrò in quella circostanza e ai lavori di gruppo che seguiranno. Desidero sostare invece su un passaggio ineludibile della nostra vocazione, richiamato fortemente dal Papa nell'udienza che ha concesso ai Superiori generali di tutti gli Istituti di vita consacrata e alla quale ho partecipato assieme a Don Giuliano: la “ragion d'essere della vita consacrata” a cui siamo chiamati a “corrispondere con una fedeltà sempre rinnovata”.
     Si evincono due movimenti apparentemente contrastanti, ma che concorrono in realtà a rendere perenne l'azione forte dello Spirito. Il primo verso le radici della vocazione (la ragion d'essere della vita consacrata) e il secondo verso un costante rinnovamento delle sue istanze (la fedeltà sempre rinnovata).
     Le radici della vocazione alla vita consacrata stanno in un amore appassionato a Cristo Gesù che porta ad appartenere totalmente a Lui. Il nostro “proprium” è questo: puntare su Dio direttamente, senza intermediari. È la sete di Dio che viene resa vita, attività. è uno stato di vita riconosciuto dalla Chiesa, per cui noi siamo veramente di fronte alla Chiesa e di fronte al mondo coloro che per “professione” cercano Dio, pongono in lui la loro piena fiducia, desiderano immergersi nel suo mistero di totale donazione per la salvezza del mondo. Il Papa usa un'espressione molto suggestiva: “Appartenere al Signore vuol dire essere bruciati dal suo amore incandescente, essere trasformati dallo splendore della sua bellezza”. Vale la pena riflettere su questa verità per non correre il rischio di affogarne la pregnanza nel mare dello scontatezza teorica e quindi della mediocrità pratica. Quando valutiamo le priorità della nostra azione pastorale non dimentichiamo la centralità della preghiera e della vita sacramentale, il quotidiano incontro con la Parola di Dio, l'esigenza della contemplazione. Non si tratta di attività che si aggiungono alle altre, magari con quel carico di pesantezza che porta alla stanchezza e all'abbandono. Sono il respiro della nostra identità, l'alimento che produce energie salutari per la nostra missione, il calore dell'entusiasmo, il colore della creatività. Il giorno in cui non avessimo più tempo per coltivare la comunione di vita con il Signore sarebbe opportuno che cessassimo le nostre attività pastorali pena la loro inefficacia.
     Nel dialogo che abbiamo avuto a Marzio, dove ci siamo recati con i presidenti dei tre Istituti fondati da P. Gemelli, Don Luigi Curti ci raccontava come il Padre in tutte le sue attività eccelleva per la profonda fiducia e il totale abbandono al Sacro Cuore. Da qui prendeva le mosse la sua obbedienza piena, la sua entusiastica castità, la sua povertà autenticamente francescana. Anche quando doveva tenere qualche conferenza di tipo scientifico, per tutto il tempo della confutazione delle sue tesi a difesa magari della posizione cattolica, chiedeva a un confratello di sostare in chiesa davanti al tabernacolo e tornando ringraziava proprio lui per la riuscita del dibattito.
     Il costante rinnovamento delle istanze della radicale appartenenza al Signore viene richiesto ai consacrati dal “compito di essere testimoni della trasfigurante presenza di Dio in un mondo sempre più disorientato e confuso”. Il rischio che il Papa mette in luce è quello di lasciarsi risucchiare nel vortice travolgente dell'imborghesimento e della mentalità consumistica, in una parola dalla cultura secolarizzata, intendendola “come una forma di accesso alla modernità e una modalità di approccio al mondo contemporaneo”. Non possiamo negare che tra secolarità e secolarismo il passo è breve, e che può risultare facile confondere attualità e contemporaneità con quelli che sono invece i loro linguaggi, appiattendosi sulle forme dopo aver perso di vista l'orizzonte di una autentica incarnazione. La via da percorrere viene così delineata da Benedetto XVI: “Essere capaci di guardare questo nostro tempo con lo sguardo della fede significa essere in grado di guardare l'uomo, il mondo e la storia alla luce del Cristo crocifisso e risorto”. Il Cristo, del cui amore siamo chiamati ad ardere, diventerà così la “stella” di riferimento per ogni esperienza nel vasto mare della storia contemporanea. Questo richiede scelte coraggiose che imprimano una nuova disciplina alla nostra vita e ci portino a scoprire la dimensione totalizzante della sequela di Cristo. Un cuore serenamente casto, uno stile di vita povero e dimesso, la disponibilità a servire, in umile obbedienza alla chiamata ricevuta, nella Chiesa e nel mondo, sono le coordinate necessarie per un rinnovamento che non ceda alle lusinghe della “mentalità di questo secolo” ma ricerchi costantemente “la volontà di Dio, ciò che è buono, a lui gradito e perfetto”.
     Con questi sentimenti, che desidero in sintonia con quelli del Pontefice, invito tutti a rileggere le nostre Costituzioni e il percorso fatto insieme in questi anni, ringraziando il Signore di tutti i doni che ci ha fatto.

     Vi abbraccio tutti, in semplicità e letizia

Don Francesco           

     Maggio-Giugno 2006



Radicati in Cristo nostra speranza

   Cari amici,
     stiamo celebrando il mistero della Pasqua del Signore: il crocifisso è risorto! Questo passaggio dalla morte alla vita diventa annuncio e garanzia di ogni altro passaggio cui anela l'uomo d'oggi, questo nostro tempo, e che può essere sintetizzato dalla coppia disperazione-speranza.
   Il cammino della Chiesa italiana verso il IV Convegno ecclesiale, che si celebrerà a Verona nell'ottobre prossimo, è accompagnato proprio da questa convinzione: Cristo risorto è la speranza del mondo e noi ne siamo testimoni.
La percezione generalizzata è di abitare un mondo che può esplodere da un momento all'altro sotto i nostri piedi. Terrorismo, disprezzo della vita, presunzione tecnologica, arroganza politica, eccesso materialistico ed edonistico sono alcune delle armi che stanno minando la sicurezza mondiale, i diritti fondamentali della persona, i valori spirituali, la convivenza democratica. Si tratta di un'analisi presente in numerose pubblicazioni, condivisa da seri editorialisti, facilmente desumibile anche dalla nostra esperienza di costante confronto con la vita dei nostri quartieri.
Su questo sfondo si staglia il volto della disperazione di chi rinuncia a vivere, ma più forte pulsa il cuore della speranza di chi non accetta lo svilimento del bene più grande e intramontabile che è la persona umana con le sue risorse.
     Ma quale via può percorrere questo sentimento per non naufragare nel mare dell'illusione? Spetta a noi indicare questa via, percorrerla e testimoniarne l'efficacia. È la via dell'apertura al mistero del tempo e della storia. Per chi crede, il tempo non è una forza indeterminata, in balia di se stessa, ma il campo della parabola dove è nascosto un tesoro: l'orientamento certo alla pienezza della vita. Ce l'ha immesso Cristo stesso con la sua incarnazione, l'ha radicato profondamente con la sua crocifissione e morte, l'ha arricchito di un valore eterno con la sua risurrezione.
Con Gesù la storia umana ha cambiato di segno: da storia di perdizione è diventata storia di salvezza, di lotta al male che si concluderà con la vittoria definitiva del bene. Con l'incarnazione infatti egli si è fatto compagno di strada dell'umanità, in particolare dell'umanità ferita, per darle fiducia e non lasciarla soccombere nella disperazione. Con la crocifissione e morte Gesù ha dato visibilità storica all'amore sconfinato di Dio per gli uomini, donando la sua vita per la loro salvezza; a quelli che credono in lui e uniscono le proprie sofferenze e la propria morte alle sue sofferenze e alla sua morte ha dato la speranza di vincere la morte e di vivere eternamente con Dio, partecipando alla sua vita e alla sua felicità. Soprattutto con la risurrezione Gesù è divenuto la speranza degli uomini. La risurrezione infatti è stata un fatto di portata universale, che riguarda l'intera storia umana e il destino eterno di ogni uomo, nel senso che ha radicalmente trasformato la situazione del mondo in generale e dell'uomo in particolare, perché in essa ha fatto irruzione la “potenza” della risurrezione, che ne ha cambiato il corso, dando inizio a una storia “nuova”, in quanto è la “vittoria” sul peccato e sulla morte.
     È possibile percorrere questa via attraverso l'esperienza della comunione con Cristo, perché in lui si realizza il compimento di ogni speranza umana. Al di fuori di lui si poggia unicamente su speculazioni vuote e arbitrarie. La comunione con Cristo dà al futuro di Dio un carattere di presenza nell'oggi; egli infatti è il regno già seminato che attende la sua piena realizzazione.
La comunione con Cristo poi rende possibile la testimonianza, perché diventa forza di rinnovamento del presente e di apertura a quel futuro nel quale Dio sarà tutto in tutti. La prima e più efficace testimonianza è l'offerta di una esperienza di radicalità, di radicamento in Cristo, che ha riempito di senso e di speranza la nostra vita.
     Ritorniamo ancora una volta all'articolo 5/c delle nostre Costituzioni: “Cristo esercita il suo sacerdozio nel sacrificio pasquale di sé, assume le miserie degli uomini di ogni tempo, i tentativi di coloro che soffrono per la giustizia o sono angustiati da una sorte infelice; il presbitero, configurato a Cristo nella realtà sacramentale del sacerdozio ministeriale e con Cristo in comunione di rapporto personale costante, vive con la gioia della fede questa sua parte del mistero della croce aperto alla risurrezione”.
     Se il sacramento dell'ordine ci configura a Cristo nell'esercizio del ministero, la “comunione di rapporto personale costante” con lui ci abilita a testimoniare la “speranza viva”, quell'eredità “che non si corrompe, non si macchia e non marcisce” (cfr 1Pt 1,3-4).

     Vi abbraccio tutti, in semplicità e letizia

Don Francesco           

     Marzo-Aprile 2006



Spiritualità della relazione

   Cari amici,
    in questo numero di “Ut unum sint” viene introdotta la nuova tematica per il nostro cammino formativo personale e di gruppo: la verginità sacerdotale.
   Già nel titolo della riflessione che abbiamo affidato all'esperienza e alla preparazione di Don Amedeo Cencini è contenuta l'intuizione che la verginità è questione di relazioni. La spiritualità del presbitero diocesano è resa più ricca e feconda da questo carisma proprio perché lo apre a relazioni molteplici e sempre nuove, capaci di testimoniare profeticamente l'assoluto di Dio.
   Nelle nostre Costituzioni è l'articolo 19 a descrivere la pregnanza evangelica ed esistenziale di questo voto. Cita il n. 16 della “Presbiterorum Ordinis” che sottolinea la congenialità della verginità consacrata “alla vita sacerdotale” in quanto “segno e stimolo della carità pastorale e fonte speciale di fecondità spirituale nel mondo”. Ma in particolare richiama l'accoglienza gioiosa del carisma, la sua dimensione sponsale, l'ascetica che lo alimenta e il suo profondo valore di testimonianza.
   Innanzitutto ci richiama che la verginità è un dono, non una rinuncia. Il vergine accoglie questo dono, e ne abbraccia le esigenze, perché lo trova rispondente ai suoi ideali di dedizione e servizio, interiormente appagante, conforme alla propria sensibilità umana. L'immagine biblica che riesce a descrivere nel modo migliore la ricchezza di questo dono è quella della sponsalità. Il vergine scopre e coltiva una profonda intimità con Cristo, di cui interpreta la missione. Con Cristo egli si dona alla comunità cristiana “con la totale oblazione di se stesso” come uno sposo si dona alla sua sposa.
   L'amore a Cristo e alla sua Chiesa va coltivato, come e più di ogni altro amore. Si alimenta con la preghiera personale e comunitaria, in tutte le sue diverse forme, ma privilegiando soprattutto l'adorazione, la contemplazione, l'ascolto; si salvaguarda da pericolose involuzioni impegnandosi creativamente nel suo sviluppo concreto ed evitando prudentemente quanto lo può far scadere in celate forme di egoismo.
   La scelta verginale poi non è finalizzata a salvaguardare la purità esteriore. Il suo significato primario è quello della testimonianza. Il vergine dice al mondo la signoria di Dio, ne proclama l'insostituibilità per la piena realizzazione della persona, annuncia il suo progetto di salvezza mettendosi umilmente al suo servizio.
   La vocazione al sacerdozio e alla consacrazione secolare ci pone nel cuore del presbiterio e della fraternità dell'Istituto con la peculiarità di questo carisma. La sua eloquenza viene espressa dall'umiltà che vince la tentazione del protagonismo, dalla delicatezza che rispetta lo spazio inviolabile di ogni coscienza, dalla partecipazione responsabile che supera il rischio della pigrizia e della paura, dalla generosa dedizione al progetto del regno, di cui ci sentiamo missionari.
   Vengono delineate così le relazioni di cui si sostanzia la nostra vocazione e missione, relazioni verginali, che partono cioè dal cuore che è Cristo e, attraverso la parabola della sua sponsalità condivisa, arrivano alle estreme periferie della chiesa e dell'umanità per portare il plasma rigenerante della grazia.
   Questo numero della Rivista guiderà anche la nostra preparazione all'assemblea elettiva di luglio ad Assisi (dalla sera di martedì 4 al pranzo di venerdì 7) presentando le relazioni delle diverse commissioni. Si tratta di un'esperienza forte di fraternità e comunione, ma anche di fiducia e speranza. Lodiamo il Signore per i suoi innumerevoli benefici e disponiamoci a cogliere le vie nuove su cui orienta i nostri passi.

     Vi abbraccio tutti, in semplicità e letizia

Don Francesco           

     Gennaio-Febbraio 2006



Obbedienza allo Spirito

   Cari amici,
     andavo meditando in questi giorni quella pagina evangelica che riporta il rimprovero di Gesù: “Ipocriti! Sapete giudicare l'aspetto della terra e del cielo, come mai questo tempo non sapete giudicarlo?” Gli ascoltatori, morbosamente attaccati alla legge e alle proprie tradizioni, guardavano con sospetto questo nuovo profeta, e non comprendevano che era venuto il tempo in cui le promesse di Dio si andavano compiendo.
   Il monito di Gesù suona attuale se a fronte di un dichiarato bisogno di salvezza, di nuova evangelizzazione, di spinta missionaria, non ci apriamo all'azione gratuita e imprevedibile dello Spirito, ma facciamo diventare noi stessi e i nostri metodi pastorali la misura del regno e del suo sviluppo. Vinta questa sottile forma di ipocrisia ci è dato invece di credere e sperimentare che la salvezza è già stata portata a compimento e chiede solo di manifestarsi nella storia, tra le pieghe del quotidiano; che la salvezza non dipende da noi e che a noi è chiesto, in atteggiamento di umile docilità, riconoscerne i segni e additarli al mondo.
   La vita, il ministero, la consacrazione secolare ci spingono su quella strada che conduce al giudizio di Dio, anzi che cerca il giudizio di Dio. Non si tratta, come sappiamo, di un giudizio finale di condanna, ma della vittoria sul maligno, sulla morte, sull'odio, sulla violenza, sulla notte, vittoria già attiva ed operante. Facciamo strada in questa direzione. È il cammino percorso durante quest'anno e che non deve interrompersi; si può definire in sintesi: “Obbedienza allo Spirito”. L'obbedienza allo Spirito rende questa virtù dinamica e creativa, non statica e scontata.
   Dinamica vuol dire “storica”, cioè incarnata in un vissuto specifico, non astratta e teorica, ma quotidiana e feriale. S. Francesco prende le distanze dalla logica mondana, non dal mondo; egli sviluppa la sua missione sulla strada, nelle città e nelle campagne, accanto ai poveri e ai ricchi, dentro e fuori i recinti rassicuranti del sacro. La prudenza è importante; è frutto della chiara coscienza del proprio limite, della consapevolezza dei rischi che si corrono, ma non giustifica la fuga, la chiusura, il pregiudizio. Essa domanda invece il discernimento: non siamo chiamati ad essere alchimisti, cioè a trasformare in oro quello che incrociamo, ma cercatori; il tesoro c'è già, è importante abitare il campo dove è nascosto, e questo campo è la storia.
   Obbedienza dinamica vuol dire “radicale”, cioè fino in fondo, senza condizioni e confini: sequela costante, sequela in salita; ultimo atto, la morte: tutto è compiuto! L'esperienza di Francesco prima della conversione era di una vita agiata e mondana; per lui la sequela aveva la consistenza della rottura, esigeva spogliazione, era accompagnata da incomprensione e disprezzo. Il nostro “sì” al Signore, come ogni scelta, è provocato da una fascino travolgente ma si sostanzia poi di sacrifici, di rinunce, di abnegazione, perché pone dentro la logica del dono totale di sé, sull'esempio di Cristo Gesù.
   Obbedienza dinamica vuol dire “personale”, rivolta cioè ad una persona, non a una norma, e a tutte le mediazioni che la rendono incontrabile oggi. San Franacesco rivendicava per sé e per i suoi frati un riferimento diretto al vangelo, “sine glossa”; è come dire un riferimento alla persona del Salvatore. Tutte le mediazioni sono autentiche se conducono lì, a lui, al suo comandamento.
   Obbedienza dinamica vuol dire “creativa”, capace cioè di individuare le “rinnovate esigenze della missione” (cfr art. 5/l); non un'obbedienza rassicurante, che ci fa seguire le indicazioni ricevute per sentirsi a posto, ma un'obbedienza coraggiosa ed eccedente che non si appiattisce sul minimo ma punta al massimo di amore, di compassione, di servizio, di disponibilità. In Francesco era costante la domanda: Signore, cosa vuoi che io faccia? Fu il suo “tormentone” fino alla fine del suo servizio di guardiano dell'Ordine, e per questo visse i suoi ultimi anni stigmatizzato dall'amore e dal dolore, quell'amore e quel dolore che hanno redento il mondo.
   Abbiamo concluso il nostro itinerario sull'obbedienza guardando, durante gli esercizi spirituali, alla testimonianza di Elia, profeta a cui Dio ha rubato la vita per metterla a servizio del suo nome, della sua signoria. Invochiamo anche su di noi la ricchezza dello Spirito, di cui egli è stato riempito, perché, interpreti di un'obbedienza veramente dinamica, possiamo essere strumenti efficaci dell'edificazione del Regno.

     Vi abbraccio tutti, in semplicità e letizia

Don Francesco           

     Novembre-Dicembre 2005



“Sino ai confini della terra”

   Cari amici,
     stiamo riflettendo sui luoghi dove si compie la nostra speciale vocazione e missione. Il primo luogo è la Chiesa, come abbiamo approfondito nell'ultima lettera; ma la nostra missione si sviluppa anche nel mondo.
Il termine mondo è entrato a titolo nuovo negli documenti della Chiesa italiana: “Comunicare il vangelo in un mondo che cambia”, “Il volto missionario delle parrocchie in un mondo che cambia”. Di esso si sottolinea lo stato di continua e veloce trasformazione nei diversi ambiti del pensiero, dell'etica, della convivenza civile, dello sviluppo sociale ed economico. Benedetto XVI ci ha messo in guardia nei confronti della debolezza del pensiero e del relativismo dell'etica, ma con il suo esempio ci spinge a non interrompere quel dialogo chiaro e costruttivo che permette all'esperienza cristiana di incidere nella trasformazione in atto. È avvenuto già nei primi secoli dell'era cristiana, può avvenire anche oggi, che i valori del vangelo orientino le scelte e imprimano un orientamento allo sviluppo della società e della cultura. A condizione che questi valori siano incarnati dentro le vicende del quotidiano e accompagnino l'interpretazione dei grandi eventi nella loro ricaduta sul comportamento degli uomini. Ecco i termini del dialogo: non una battaglia ideologica che si contende il possesso della verità, ma la ricerca sincera e condivisa di ciò che fa crescere la persona, nella certezza che lì sta la verità, la volontà di Dio, lì avviene l'incontro con lui. Possono essere proprio questi i veri e propri “confini della terra” cui fa riferimento Gesù nel chiamare gli apostoli alla missione.
Anche in questo contesto è richiesta una docile e fiduciosa obbedienza, che per il consacrato secolare diventa strumento di santificazione personale e contributo profetico alla costruzione del regno.
   Obbedienza alla storia. La Scrittura ci insegna che la storia è di Dio e il suo sviluppo conduce comunque al compimento della sua opera di salvezza. Obbedire alla storia, allora, significa credere che in essa è iscritto un disegno divino; credere che l'umano, anche il più contraddittorio e malvagio, nasconde una mano provvidente e misericordiosa che scrive il suo canto d'amore anche con note di pianto sul rigo della sofferenza; credere nell'efficacia del bene, anche se debole e apparentemente insufficiente, secondo l'insegnamento delle parabole del regno, da qualsiasi pianta venga germinato.
Questa obbedienza si traduce in silenzio, pazienza, fedeltà, senso del limite, capacità di ascolto, condivisione, speranza.
   Obbedienza al presente. La Scrittura ci insegna che la salvezza si compie oggi, perché la Pasqua del Signore ha superato i limiti del tempo e dello spazio ed è costantemente disponibile per essere incontrata nella sua efficacia in ogni epoca e in ogni luogo. Non si può, quindi, e non si deve fuggire dalla propria realtà, dal proprio vissuto; non si può vivere di ricordi del passato o di sogni che pretendono di ipotecare il futuro; il presente è nelle nostre mani: esso si sostanzia di memoria e tende verso il compimento, ma è il presente che permette al passato di vivere e al futuro di proporsi all'orizzonte della speranza umana.
Questa obbedienza si traduce in contemporaneità, impegno coraggioso, consapevolezza della propria responsabilità, personale e comunitaria.
   Obbedienza al proprio essere. Sempre la Scrittura ci insegna che ogni essere umano ha una sua peculiare vocazione; Dio l'ha scritta nelle pieghe del suo carattere, delle sue doti, delle sue stesse scelte libere e responsabili. Come afferma S. Paolo, “…quelli che da sempre ha conosciuto li ha anche predestinati ad essere conformi all'immagine del Figlio suo…; quelli poi che ha predestinati li ha anche chiamati; quelli che ha chiamati li ha anche giustificati; quelli che ha giustificati li ha anche glorificati.” La vita di ciascuna persona ha una sua dignità in riferimento alla sua “predestinazione”, che è quella di essere conforme all'immagine di Cristo Gesù, del suo mistero di spogliazione e di glorificazione.
Questa obbedienza si traduce in ricerca della propria vocazione, in risposta generosa alle sue esigenze, in consapevolezza di essere figli di Dio, in riconciliazione con se stessi, in gioiosa accoglienza di quanto quotidianamente ci interpella sul fronte della nostra identità personale. Il cuore dell'articolo 22 delle nostre Costituzioni, a mio avviso, sintetizza lo sviluppo di tutto questo pensiero nell'espressione: “Egli (il sacerdote missionario) si propone con questo voto di esercitarsi veramente nell'imitazione interiore di Gesù il quale fu «obbediente fino alla morte» (Fil 2,8) e «imparò quanto costi l'obbedienza da quel che ha sofferto» (Eb 5,8), cioè dentro la storia, portando a termine, nello specifico “oggi” della sua condizione sociale e religiosa, la missione che il Padre proprio a lui aveva affidato.

     Vi abbraccio tutti, in semplicità e letizia

Don Francesco           

     Luglio-Ottobre 2005



“Mi sarete testimoni”

   Cari amici,
      ho terminato la mia ultima lettera citando l'art. 1/b delle Costituzioni: la nostra speciale vocazione e missione si compie nella Chiesa e nel mondo. Innanzitutto nella Chiesa.
Abbiamo vissuto in queste settimane esperienze uniche: il cedimento fisico di un “gigante” di vita spirituale e profonda umanità, quale fu Giovani Paolo II, l'incredibile attestato di stima e affettuosa riconoscenza di tutto il mondo nei suoi confronti, la rinnovata fiducia nell'azione dello Spirito Santo che ci ha donato Benedetto XVI come illuminato pastore all'inizio del terzo millennio. Questi avvenimenti non sono passati inosservati, come normali fatti di cronaca, ma hanno trovato riscontro in tutti i mass media e hanno inciso nel normale sviluppo della vita della società stessa, dalla sospensione dell'intoccabile torneo sportivo che è in Italia il campionato di calcio, allo spostamento della celebrazione delle nozze del principe Carlo d'Inghilterra, dalla presenza a Roma degli ultimi tre presidenti degli Usa, assieme a tanti altri capi di stato, a quella di oltre 4 milioni di persone appartenenti a culture, religioni e fedi diverse… fino alla pacifica invasione di piazza San Pietro dell'entusiastico popolo romano, e non solo, per dare il benvenuto al nuovo Pontefice.
Ho seguito e condiviso il pensiero di coloro che hanno tentato di leggere tutto questo partendo da un'analisi dei desideri anche inconsci che albergano nel cuore di questa umanità: desiderio di una parola libera, chiara e rassicurante, desiderio di una concreta comprensione e partecipazione ai propri drammi e gioie esistenziali, desiderio di porte aperte alla dimensione spirituale ed eterna della vita. Questo ha saputo essere Papa Wojtyla, questo è chiamata ad essere la Chiesa: annuncio di verità, esperta di umanità, testimone di eternità. In questa Chiesa siamo chiamati a rendere storica la nostra vocazione e missione, a questa Chiesa dobbiamo obbedienza: non si tratta di un impianto ideologico cui aderire, né della strategia di un potere forte cui asservirsi; si tratta invece di offrire modelli di vita liberanti, di tessere relazioni profonde e coinvolgenti, di sostanziare il presente di un promettente rimando all' “oltre” del tempo e dello spazio.
Obbedire alla Chiesa significa allora individuare con chiarezza e personalizzare con coerenza il cuore dell'annuncio: Gesù Cristo, salvatore del mondo, principio e fine della storia, risposta efficace a tutte le attese dell'umanità. La Chiesa infatti è mistero, presenza del Risorto da riconoscere nella forza trasformante del suo amore: piedi e mani forate, costato aperto, pane spezzato e calice condiviso. A questa presenza siamo chiamati ad aderire imprimendola sui nostri piedi, le nostre mani e il nostro costato; farsi cibo e bevanda, accettare di essere “consumati” nella missione, prima che impegno è identità vocazionale originaria.
Obbedire alla Chiesa significa farsi carico della sua missione: dare volto al Risorto che cammina sulle strade degli uomini “beneficando e risanando” ogni sorta di malattie e infermità. L'espressione usata da Gesù in casa di Simone il lebbroso, quando Maria di Betania gli profumò i piedi con il prezioso unguento: “I poveri li avrete sempre con voi!”, non è stata solo un tentativo di scusare lo spreco eccessivo stigmatizzato da Giuda, quanto un invito a continuare a profumare con l'unguento della carità i piedi dell'umanità in ogni tempo e luogo. Obbedire alla Chiesa significa abitare il tempo possedendo già l'eternità. Ricordiamo tutti la lettera a Diogneto, ma il significato di questa dimensione dell'esperienza ecclesiale è iscritto nella vita e ancor più nella morte di tanti fratelli e sorelle martiri, ancora, all'inizio del nuovo millennio; è iscritto nella testimonianza di chi incarna nel servizio l'ammonimento di Gesù: solo chi è disposto a perdere la sua vita la ritrova.

Vi abbraccio tutti, in semplicità e letizia

Don Francesco           

     Maggio-Giugno 2005



"Parla, Signore… il tuo servo ti ascolta!"

   Cari amici,
     sfogliando le pagine di questo numero della nostra rivista troverete l'eco del seminario di studio sul tema dell'obbedienza; è una riflessione che ci accompagnerà per tutto il 2005 e troverà ampio risalto in "Ut unum sint", ma dovrà avere la sua ricaduta nel vissuto di ognuno, nei gruppi e, conseguentemente, nella realtà della Chiesa locale e del territorio. Mi piacerebbe leggere testimonianze concrete di fratelli che hanno maturato convinzioni forti e ne hanno anche sperimentato l'incoraggiante praticabilità. Con la mia lettera vorrei dare lo spunto per intervenire con apertura per la reciproca edificazione.
   Un primo punto delle riflessioni fatte riguarda il ruolo insostituibile dell'ascolto della Parola di Dio. È ad essa che dobbiamo la nostra obbedienza, secondo l'ammonimento di Gesù: "Chiunque ascolta queste mie parole e le mette in pratica è simile ad uomo saggio che ha costruito la sua casa sulla roccia" (Mt 7,24).
   I sacerdote missionario della regalità apre la sua giornata sostando, nei tempi e nei modi adeguati alla sua situazione pastorale, sui testi biblici proposti per la liturgia del giorno; mette a fuoco, magari con l'aiuto di un commentario, l'insegnamento fondamentale per la sua vita e quello della comunità e si prepara a consegnarlo ai fedeli con una breve omelia; ne sostanzia i colloqui che avrà, soprattutto quelli sacramentali, e non perderà occasione per sottolinearne la forza rinnovatrice anche nei risvolti più secolari delle sue relazioni. Dovendo prendere delle decisioni o assumere delle responsabilità per sé e per altri il sacerdote missionario della regalità non si lascerà guidare dalle logiche mondane dell'interesse ma farà spazio alla luce dello Spirito che si manifesta prima di tutto nella parola della Scrittura. È con questa che si presenta al Vescovo per essere aiutato a cogliere la volontà di Dio mediante il servizio dell'autorità; è con questa che interagisce con i fratelli presbiteri per orientare secondo il progetto del Signore le scelte pastorali; è con questa che dialoga costantemente con la sua comunità alla ricerca di una testimonianza coerente e credibile da offrire al mondo.
   Proprio per questa convinzione e stile di vita il sacerdote missionario della regalità promuove la conoscenza dei testi sacri e tutte quelle lodevoli iniziative che mettono l'ascolto della Parola di Dio al centro della vita della comunità. Anche la celebrazione dell'Eucaristia domenicale diventa in questo modo attualizzazione di quella Parola che guida il cammino gettando luce negli angoli più nascosti del quotidiano.
   È ormai assodato che i piani pastorali, i documenti magisteriali, i progetti di evangelizzazione o quelli di promozione umana prendono le mosse dalla Parola di Dio, da un testo di riferimento che si usa chiamare "icona biblica". L'icona è oggetto di venerazione, di contemplazione; essa media una presenza e assorbe le molteplici espressioni del coinvolgimento personale, da quelle intellettuali a quelle più emozionali. I testi biblici di riferimento diventano quindi per noi non solo dei pretesti per dare autorevolezza a un discorso puramente soggettivo, ma sorgenti inesauribili di intuizioni nuove, fedeli alla tradizione e nello stesso tempo feconde di cultura cristiana fondata sul vangelo di Cristo Gesù.
   Non dimentichiamo mai quanto scrive San Francesco: "La regola e vita dei frati minori è questa, cioè osservare il santo Vangelo del Signore nostro Gesù Cristo, vivendo in obbedienza…" (FF 75); gli fa eco il testo delle nostre Costituzioni al n. 1/b: "L'Istituto (…) si propone di formare i suoi membri ad essere vigilanti e generosi nel seguire Cristo Gesù con radicalità evangelica, (…) al fine di obbedire alla loro speciale vocazione e missione nella Chiesa locale e nel mondo."
     Vi abbraccio tutti in semplicità e letizia,

Don Francesco           

     Gennaio-Aprile 2005



Eucaristia fa rima con simpatia

   Cari amici,
     abbiamo tra le mani un magistero ricchissimo sul tema dell'Eucaristia; attorno a questa esperienza centrale della vita delle nostre comunità abbiamo costruito il programma pastorale del nuovo anno.
     Che dire ancora? Quale apporto al cammino formativo che ci vede impegnati sul tema dell'apostolato secolare?
     Vi propongo alcuni passaggi della lettera che il mio vescovo ha scritto alla diocesi su "Missione parrocchia – Comunità che celebra": «Gli elementi che compongono la celebrazione e i ritmi con cui si svolge, mentre introducono a fare esperienza reale della presenza di Cristo, educano la vita. Sono di grande pregnanza quelli più noti della celebrazione eucaristica: l'accoglienza, il perdono, l'ascolto, l'offerta, la lode, la comunione, l'impegno. Con queste caratteristiche si sviluppa la vita interna e la missione della comunità cristiana.»
     Vita e missione della comunità, ma anche vita e missione del presbitero.
     «Una comunità che celebra è una comunità aperta a tutti, anche al diverso, a chi si trova in una situazione di non piena comunione con l'insegnamento della Chiesa; è una comunità senza steccati, dalle porte aperte verso l'interno per accogliere e verso l'esterno per andare in missione, una comunità di persone libere perché redente dall'accoglienza che il Signore Gesù riserva a tutti. Rimane suggestivo quel passaggio del documento della Conferenza Episcopale Italiana "Comunione e Comunità" del 1981, dove si legge: "La comunità parrocchiale riunisce i credenti senza chiedere nessun'altra condivisione che quella della fede e dell'unità cattolica. La sua ambizione pastorale è quella di raccogliere nell'unità persone le più diverse tra loro per età, estrazione sociale, mentalità ed esperienza spirituale" (n. 43)». In una comunità che sa accogliere, il presbitero è l'uomo del sorriso: chi lo avvicina, chi lo guarda dai banchi della chiesa o lo incrocia sulle strade, chi gli apre la porta di casa per la benedizione o la catechesi desidera vedere nel suo volto la serenità, la gioia della fede e della speranza.
     «La parrocchia si costruisce sull'accoglienza e sul perdono reciproco; la comunione al suo interno non si basa sui meriti dei suoi membri, su presunte rivendicazioni di appartenenza, ma sulla consapevolezza di camminare insieme di fronte alla grande misericordia del Padre, partecipi dell'unico pane spezzato». Il presbitero è l'uomo dell'abbraccio: per il peccatore che ricerca la grazia, per i fidanzati che tornano a chiedere il sacramento del matrimonio dopo anni di assenza, per gli anziani che domandano, magari inconsapevolmente, il recupero di una vita disordinata, anche per chi non se n'è mai andato da casa ma vive nell'amarezza e nel contrasto.
     «La celebrazione educa la comunità all'ascolto umile e fiducioso; essa accoglie dal Signore Gesù la promessa del Regno, e tende l'orecchio al grido dell'umanità con la quale è chiamata pazientemente a costruirlo». In questa comunità il presbitero è chiamato ad essere l'uomo della confidenza. Mi piace pensare al Signore Gesù che, nell'intimità della preghiera e dell'ascolto della Parola, confida al ministro della Chiesa la sua segreta passione per la salvezza dell'umanità, tanto da infiammargli il cuore e renderlo coraggioso e creativo nell'azione pastorale; e ugualmente, nel concreto della vita, mi figuro il prete desiderato e cercato dalla gente come un porto tranquillo dove far riposare la barca, tanto spesso squassata, del proprio vissuto.
     «Una comunità che celebra è una comunità che interpreta la vita come offerta, sacrificio spirituale, inno di lode, strumento di redenzione; una vita che si è lasciata trasformare come il pane e il vino in un segno visibile e incontrabile della reale presenza di Cristo nella storia». Una comunità che celebra educa il presbitero ad essere l'uomo del martirio. C'è un martirio che attraversa la vita del prete, in casi eccezionali anche del sangue, ma soprattutto dei progetti personali, dei propri anche legittimi desideri, delle cose, degli affetti, per rispondere all'invito di Gesù: "Date loro voi stessi da mangiare".
     Una comunità che celebra l'Eucaristia «non si chiude egoisticamente negli spazi rassicuranti delle proprie strutture, né indugia a contemplare i doni di grazia ricevuti dal Signore. Nel documento citato sul volto missionario delle parrocchie (al n. 4) i Vescovi italiani mettono in guardia da queste due "derive": "la spinta a fare della parrocchia una comunità autoreferenziale, in cui ci si accontenta di trovarsi bene insieme, coltivando rapporti ravvicinati e rassicuranti"; "la percezione della parrocchia come centro di servizi per l'amministrazione dei sacramenti". La proposta che essi fanno suona stimolante per il nostro cammino pastorale: "restituire alla parrocchia quella figura di Chiesa eucaristica che ne svela la natura di mistero di comunione e di missione"». Il presbitero, all'interno di questa comunità e a nome di questa comunità, è l'uomo della relazione. Per troppo tempo la figura del prete è stata posta sopra il piedestallo e, nella sua funzione di "gestore" delle cose sacre, guardato con "riverenza" (da cui deriva il termine "reverendo"), ma proprio per questo anche con distacco. Nessuna riduzione o peggio banalizzazione del suo ineffabile compito; egli tuttavia non è separato dal contesto umano in cui opera, anzi l'efficacia del ministero risulta sempre legata alla sua capacità di entrare in relazione, di sviluppare dialogo e ricerca.
     "La ricchezza della sua vita interiore" – recitano le nostre Costituzioni – dev'essere "animata da quelle virtù (…) e attenzioni, che servono a creare quell'atmosfera di simpatia, che è tanto utile per l'accettazione del messaggio evangelico" (art. 26/a).
     Vi abbraccio tutti, in semplicità e letizia

Don Francesco           

     Novembre-Dicembre 2004





Dal “raccoglimento” alla “distrazione”

   Cari amici,
     è terminato anche questo tempo estivo; molti di noi sono stati impegnati pastoralmente nelle località turistiche, altri hanno animato campiscuola o analoghe esperienze formative e di servizio, anche chi ha potuto concedersi del tempo per il riposo non ha mancato di aggiornarsi, di approfondire, di studiare percorsi nuovi per l'esercizio sempre più qualificato del proprio ministero. Tutti noi abbiamo senz'altro letto con attenzione e spirito di rinnovamento la nota pastorale della Conferenza Episcopale Italiana “Il volto missionario delle parrocchie in un mondo che cambia”. È il punto di arrivo di un serio confronto con i forti cambiamenti sociali e culturali di questi ultimi decenni, con le esperienze profetiche maturate nelle comunità cristiane maggiormente radicate nel territorio, con le nuove domande che vengono dalle coscienze dei singoli e dei gruppi. Per noi è un punto qualificante del carisma che, con il voto di apostolato, si configura come attento ai segni dei tempi, capace di parlare il linguaggio dell'uomo d'oggi, intessuto di relazioni significative nella chiesa e nel territorio, radicato nel cuore dell'annuncio che è Gesù Cristo e il suo vangelo. Continuiamo a farne elemento di verifica in questo anno dedicato proprio a individuare in quali termini viene rinnovata anche l'identità del presbitero.
     La sottolineatura che merita maggior attenzione è quella della connotazione missionaria da far assumere a tutta la pastorale per la comunicazione del vangelo: va dal primo annuncio della fede, essenziale in una società sempre più scristianizzata, all'assunzione di quegli atteggiamenti di fondo che fanno della parrocchia il luogo del possibile incontro degli uomini con Dio. È su questi atteggiamenti che vorrei attirare l'attenzione; vengono descritti al n. 13 della nota pastorale sotto il titolo “Una casa aperta alla speranza”.
     Il primo è l'ospitalità. Abbiamo sentito raccontare dai confratelli della diocesi di Molfetta, o abbiamo letto da qualche parte, quale spessore aveva questo atteggiamento nella vita del Vescovo Tonino Bello. La seconda settimana di luglio sono stato con don Pierangelo e i seminaristi a fare un'esperienza di servizio presso le Suore della Carità di Milano. Sull'esempio e lo stile di Madre Teresa esse ospitano un certo numero di ragazze madri e offrono un pasto completo a più di cento persone ogni giorno; sono di diversa nazionalità, di diversa età, provengono da esperienze disparate… sanno di trovare un tetto, un tavolo, una sedia e un sorriso. Prima della distribuzione si recitava con tutti un Padre nostro. Mai preghiera fu più vera, più concreta, più condivisa, pur tra comprensibili ed eloquenti silenzi. La struttura è semplicissima, povera, giustamente povera; lì vicino sorge anche un edificio di culto con il suo bel campanile, ma credo che per tutti la chiesa era lì in quel cortile, sotto quelle tettoie dove si preparava la verdura, la cucina e lo stanzino dei grembiuli per i volontari, lo stanzone con i piatti di diverse fogge e le posate di plastica per gli altri, le “sisters” e il loro “sari” per tutti. Deve provocarci la constatazione che a fronte di numerosi luoghi adibiti al culto e alla formazione catechistica, assai utili e necessari, non ci sono altrettanti edifici disseminati nel territorio che testimoniano la carità della chiesa.
     Il secondo è la ricerca. Sull'esempio della parabola evangelica del “Buon pastore” che lascia le novantanove e si preoccupa della pecora che si era allontanata. È una delle parabole della misericordia. Forse oggi il suo messaggio è ampliabile e può diventare anche una parabola della sollecitudine. Leggevo in un articolo della Rivista “Testimoni” l'invito inderogabile a che i consacrati escano da una sorta di ripiegamento su se stessi, l'eccessivo “raccoglimento”. È ora che la vita consacrata si “distragga” per guardare fuori di sé, attorno a sé, e si ricordi che essa è voluta per l'umanità. L'autore dell'articolo richiama l'attualità della prima enciclica di Paolo VI, l'“Ecclesiam suam”. «Nessuno è estraneo al suo cuore - spiegava il papa parlando della chiesa - nessuno è indifferente per il suo ministero. Nessuno le è nemico, che non voglia egli stesso esserlo. Non indarno si dice cattolica; non indarno è incaricata di promuovere nel mondo l'unità, l'amore e la pace». E indicava i quattro fronti del dialogo: verso l'umanità, con i credenti delle varie confessioni religiose non cristiane, con il «mondo che a Cristo s'intitola», e infine all'interno della chiesa cattolica. Quello che poteva sembrare un problema della chiesa universale, è oggi la sfida delle nostre parrocchie.
     Un terzo è la testimonianza di una chiara identità di fede. Certamente l'eventuale «”successo” sociale della parrocchia non deve illuderci», ricordano i vescovi, perché l'annuncio del vangelo non è riducibile ad un'azione psico-sociale, ma porta all'incontro con Cristo, senza glosse e adattamenti, ci ammonirebbe San Francesco. Anche l'autenticità della missione si misura «sul coerente legame tra fede detta, celebrata e testimoniata, sull'unità profonda con cui è vissuto l'unico comandamento dell'amore di Dio e del prossimo, sulla traduzione nella vita dell'Eucaristia celebrata».
     Ritornando all'identità del presbitero, in questo contesto vengono massimamente esaltate l'interiorità da una parte e la capacità di tessere autentiche relazioni umane dall'altra, la comunione e la formazione, la creatività e l'adattabilità. «Al pastore – scrivono i vescovi – sono richieste la custodia e la ricerca», la consapevolezza di amministrare un tesoro irrinunciabile e nello stesso tempo la tensione a renderlo disponibile a tutti, a coloro che stanno sulla «soglia» o sono ancora lungo la via.
     In semplicità e letizia,

Don Francesco           

     Luglio-Ottobre 2004



Ministri nella “liturgia della vita”

   Cari amici,
        sto ancora ricevendo le domande di rinnovo e di passaggio stilate in occasione del Giovedì Santo, che ci ha visti riuniti nelle nostre Cattedrali attorno ai rispettivi vescovi per rinnovare le promesse sacerdotali. Assieme alle lettere, spedite in posta prioritaria, arriva la percezione che la scelta è stata riformulata con l'entusiasmo del primo giorno, la maturità degli anni di esperienza, la consapevolezza della sua perenne novità.
   L'ho intuito leggendo la lettera che ci ha scritto il Papa per l'occasione. Egli lega la nostra identità al sacramento dell'Eucaristia: “Siamo nati dall'Eucaristia. Quanto affermiamo della Chiesa intera (…) possiamo ben dirlo del Sacerdozio ministeriale: esso trae origine, vive, opera e porta frutto «de Eucaristia»”.
   L'entusiasmo del primo giorno è dato dallo stupore per essere stati scelti ad “agire «in persona Christi» nel momento in cui consacriamo il pane e il vino, ripetendo i gesti e le parole di Gesù nell'Ultima Cena”. Ricordo ancora il suono delle campane che mi ha risvegliato all'indomani dell'Ordinazione sacerdotale annunciandomi che dovevo salire da festeggiato i gradini dell'altare al canto del “Tu es sacerdos”. Avevo sognato quel momento. In quel sogno c'era forse un pizzico di amor proprio, ma ciò che lo caratterizzava era soprattutto la coscienza di aver ricevuto una chiamata grande, superiore ad ogni umana conquista. “Dinanzi a questa straordinaria realtà rimaniamo attoniti e sbalorditi: tanta è l'umiltà condiscendente con cui Dio ha voluto così legarsi all'uomo!”
   Gli anni d'esperienza sono richiamati dall'affermazione che “il ministero ordinato si pone sul piano dell'«essere» e “non può mai ridursi al solo aspetto funzionale”. Svanì presto l'eventuale illusione che si potesse trattare di un ruolo prestigioso all'interno della chiesa e della società. Mi ritrovai nel cortile dell'oratorio, ai campi estivi, accanto alla freschezza ma anche ai drammi esistenziali dei giovani, coinvolto nelle vicende tante volte conflittuali delle famiglie, della scuola, del tempo libero. Le responsabilità sempre più dirette a livello di rapporti umani e negli stessi aspetti organizzativi hanno fatto maturare ben presto la consapevolezza che il sacrificio celebrato sull'altare doveva essere incarnato nel quotidiano e tradursi in dono incondizionato di sé. Alla festa, infatti, fanno seguito tante volte la critica, l'incomprensione, lo stesso rifiuto.
   La perenne novità è iscritta nell'espressione di Gesù «Fate questo in memoria di me»; mentre la pronunciava - scrive il Papa - “il suo pensiero si estendeva ai successori degli apostoli, a coloro che avrebbero dovuto prolungarne la missione, distribuendo il cibo della vita fino agli estremi confini della terra”. I confini non sono soltanto geografici. Il contesto sociale e l'impianto culturale, all'interno dei quali viviamo oggi il nostro ministero, domandano atteggiamenti coraggiosi, creatività profetica, assieme ad umile pazienza e silenziosa coerenza. L'«Ite Missa est» rilancia l'Eucaristia e la sua «logica» interna nel mondo della politica, dell'economia, delle comunicazioni sociali, degli equilibri internazionali. Dopo trent'anni di ministero sacerdotale mi rendo conto di doverne «inventare» continuamente le forme per un suo efficace sviluppo.
   C'è un importante necessario equilibrio, che mi piace richiamare, tra emozione e impegno, gratuità e progetto, fatica e fiduciosa speranza. Esso legge il nostro vissuto e argina i rischi dell'incanto superficiale da una parte e del depressivo scoraggiamento dall'altra.
   Prendiamo ad esempio il tema sollecitato dal Papa stesso nella sua lettera, quello delle vocazioni. Esse “sono un dono di Dio da implorare incessantemente”, ma derivano anche da un impegno diretto, da iniziative concrete, come “la cura dei ministranti, che costituiscono come un «vivaio» di vocazioni sacerdotali”, e ancor più dalla testimonianza di vita che “conta di più di qualunque altro mezzo e sussidio”. Fiducia nel Signore, quindi, ma anche progettualità e coerenza. “Nella regolarità delle celebrazioni domenicali e feriali - scrive il Papa - i ministranti incontrano voi, nelle vostre mani vedono «farsi» l'Eucaristia, sul vostro volto leggono il riflesso del Mistero, nel vostro cuore intuiscono la chiamata di un amore più grande. Siate per loro padri, maestri e testimoni di pietà eucaristica e di santità di vita!”
   È quanto basta per farci comprendere la via da seguire nell'incarnazione del nostro carisma, che ci chiama a presiedere, all'interno del presbiterio e del mondo, la intramontabile liturgia eucaristica della vita.
     In semplicità e letizia,

Don Francesco           

     Marzo-Giugno 2004



Memoria viva dell'Emmanuele

   Cari amici,
     continuando la riflessione sulla figura del presbitero, desidero agganciarmi a quanto i Vescovi italiani hanno scritto ai parroci, ai battezzati e a tutti gli uomini di buona volontà a conclusione della loro assemblea generale del novembre scorso. Si tratta di un messaggio che ci deve stare particolarmente a cuore, sia perché è partito da Assisi, sia perché riguarda la parrocchia, definita “chiesa presente tra le case degli uomini”. Sono i nostri due amori: il francescanesimo e la secolarità.
     Il fascino di Francesco e Chiara viene attribuito alla loro “straordinaria esperienza”, quella che li ha condotti a “trovare in Cristo la fonte della felicità, la liberazione da ogni schiavitù”.
     La secolarità viene descritta attraverso quella modalità di presenza dentro la storia che è realizzata dalla parrocchia: è una questione di metodo e di contenuto. Circa il metodo i vescovi invitano la parrocchia a “ripensarsi, a trovare occasioni, stile, linguaggio idonei ad esprimere il suo sforzo di andare incontro alle attese dell'ora presente”, ribadiscono l'esigenza di arrivare a “capire” le istanze, “soprattutto dei giovani e delle famiglie”, in ordine al “bisogno del sacro” e al superamento della frammentarietà per mezzo di “sentiti legami affettivi”, focalizzano un “tratto che la parrocchia non deve assolutamente perdere; essa è chiamata a rendere visibile la chiesa radicata in un luogo, non soltanto in senso geografico ma anche (e più) come rapporto con la gente, le famiglie e il tessuto della società che vive e opera sul territorio (ad esempio nelle scuole, nei luoghi di lavoro e della sofferenza)”. Circa il contenuto i vescovi usano un'immagine molto suggestiva. La parrocchia, affermano, “farà bene a tener conto che, in questo modo, fa diventare realtà un sogno che, prima di essere nostro, è di Dio: è lui che ha pensato di prendere dimora tra gli uomini. E non solo l'ha desiderato: l'ha fatto. Gesù Cristo non è altro che questo: Dio che ha posto la sua tenda fra noi”.
   Alla luce di questo messaggio si possono fare alcune considerazioni.
     Innanzitutto sull'attualità dello spirito francescano e dello stile con cui Francesco e Chiara hanno incarnato il vangelo nella chiesa e nel mondo. Tra le innumerevoli sfaccettature amo sottolineare quella della libertà da qualsiasi tipo di condizionamento per dedicarsi alla causa del regno con radicalità; la povertà ne è stata volto ed energia. Anche oggi le nostre comunità cristiane potranno testimoniare il primato della fede e la signoria di Dio vincendo la tentazione del potere materiale, remando contro la corrente della omologazione ai sistemi socio-economici ingiusti, promovendo la cultura della solidarietà e della pace, anche a scapito dell'immediato successo e dell'efficienza.
     Una considerazione va fatta ancora sull'ineludibile compito di scrutare i segni dei tempi, nei loro risvolti negativi e positivi, con la sola preoccupazione di servire la persona, promovendone i diritti umani e la dignità cristiana di figli di Dio. Qualsiasi esperienza di chiesa sarà autentica se rifugge dalla condanna, dal puntare il dito, e si distinguerà per la passione con cui incarna la misericordia sanante del padre che corre incontro al figlio prodigo, gli si getta al collo e lo bacia.
     Anche l'istanza missionaria esige una riscoperta: il mondo, inteso come l'insieme delle esperienze di vita con cui ogni persona si misura quotidianamente, domanda un supplemento di senso. È necessario passare dall'attesa passiva alla presenza creativa, dalla pretesa di costituire punto di riferimento all'umile gratuità di offrirsi come strumento, dalla sicurezza delle verità assodate allo spirito del dialogo e della ricerca. Lo stesso termine “senso”, che usiamo nei nostri discorsi, assumerà così lo spessore dell'orientamento più che della risposta già confezionata, del cammino prima che della mèta.
     Non è mai sufficientemente approfondito il tema della comunione, tra presbiteri, con i laici, nella comunità cristiana, tra generazioni, nelle e tra le aggregazioni; una comunione che affonda le radici nel cuore e si motiva nel comune fascino esercitato dal vangelo e dall'adesione a Cristo, prima che da strategie pastorali. La comunione diventa una prima risposta ai dubbi della storia se è tra credenti prima che tra praticanti, se parte da Cristo e porta a lui, se la chiesa ne è il risultato più che l'istanza.
     Da ultimo, ma solo per concludere la nostra conversazione, abbozzo lo spunto per una teologia della missione del prete. Affermano i vescovi: “Non casualmente Gesù Cristo viene chiamato anche «l'Emmanuele», che vuol dire «Dio con noi». Che cosa poteva chiedere Gesù Cristo ai suoi discepoli, se non di essere «memoria viva», segno di questa sua presenza che continua oggi e sempre?” L'incontro con Cristo, che sarà con noi fino alla fine dei tempi, potrà avvenire se ci saranno persone disponibili a riproporre le relazioni che hanno caratterizzato la sua presenza storica: la familiarità coi peccatori, la cura degli infermi, la solidarietà coi poveri, il coraggio dell'annuncio, la coerenza nelle scelte, l'amicizia con i «suoi», la compassione per le folle, la predilezione per i piccoli… e questa è la missione del prete, la nostra missione.
     In semplicità e letizia,

Don Francesco           

     Gennaio-Febbraio 2004



La dedicazione del presbitero alla chiesa locale

   Cari amici,
     desidero continuare con voi la riflessione sulla figura del presbitero. Tento di mettere a fuoco un altro elemento caratteristico della sua spiritualità, che ho elencato tra le prospettive di sviluppo nella relazione dell'ultima assemblea di medio corso: la diocesanità. Dicevo: «La diocesanità ci chiede di restare in comunione con i confratelli, dentro una chiesa popolo di Dio, tutta ministeriale. Non sono conformi al carisma le fughe ambiziose verso posizioni di comodo o di potere: il servizio alla chiesa è reale se non perde le radici con il proprio presbiterio, con il territorio della propria diocesi, anche se si sviluppa nella missione “ad gentes”. La diocesanità sarà espressione di secolarità se ci porta a vivere la fede con una comunità ben precisa, condividendone i frutti e le fatiche, con un forte senso dell'appartenenza, della partecipazione, della sinodalità.»      Ho tra le mani il dossier della rivista “Orientamenti pastorali” 9/2003, scritto da Erio Castellucci (docente di teologia dogmatica allo Studio teologico accademico di Bologna), che parla del prete nella chiesa italiana oggi. In una prima parte descrive la crisi che ha interessato l'identità e la missione del presbitero, distinguendo i due versanti in cui si è sviluppata, quello teologico e quello pastorale. Subito dopo l'autore propone “la dedicazione alla Chiesa locale”, quale “forma essenziale del ministero presbiterale”. Questa dedizione si pone come “elemento di mediazione” tra il riferimento alla natura teologica del sacerdozio, che è immutabile, e il recupero avvenuto in questi ultimi decenni della dimensione psicologica individuale, che postula l'accoglienza dei carismi personali e il loro sviluppo. In altre parole egli tenta di dare una risposta alla seguente domanda: la figura e il ministero del prete devono corrispondere ad un cliché precostituito o possono assumere forme diverse a seconda della persona che li incarna? La risposta sembra stare nel mezzo: la vocazione del presbitero si chiarisce e si sviluppa all'interno di una storia concreta, attraverso le relazioni che vi si stabiliscono, perché queste mettono in gioco la libertà personale e il progetto che si è chiamati a servire. Questa storia e queste relazioni hanno un nome: la diocesi e, al suo interno, il popolo di Dio, i confratelli, il vescovo.
     «Il Vaticano II ha rituffato la teologia del presbiterato nella corrente dell'ecclesiologia e l'ha liberata da un abbraccio troppo stretto e quasi esclusivo con la cristologia.» Non è possibile costruire una personalità sacerdotale in astratto, neppure con l'esclusivo riferimento alla persona di Cristo che non sia incarnata in un'esperienza di Chiesa. È questa che ne garantisce la presenza e ne media l'azione, che ne esplicita, attraverso il discernimento, la volontà. Certe forme di vita spirituale slegate da concreti contesti di vita potrebbero costituire, più che decantata profondità interiore, un ingannevole soggettivismo. Questa questione deve diventare una sfida anche per gli educatori nei nostri seminari.
     «Relazioni paterne con le persone a cui è inviato, fraterne con il presbiterio a cui appartiene, filiali con il vescovo che gli è padre.» Non si tratta di istituire dei doveri, ma di individuare un ambito fondamentale che permetta al prete di sentirsi vivo, accolto e valorizzato, che contribuisca alla sua formazione globale, al di là delle idee astratte, delle proiezioni teoriche. Chi prescinde da queste relazioni non esplica adeguatamente la sua vocazione, e nessuno può giustificarsi, né in nome di eventuali difficoltà personali né a motivo di particolari situazioni di vita e di ministero. Se la Chiesa particolare resta un optional non si dà presbitero; essa non può ridursi soltanto alla funzione di garantire l'incardinazione e lo stipendio. È importante che i vescovi per primi prendano coscienza di questa verità e non solo per la sua ricaduta funzionale, così come ogni membro del presbiterio.
     «Il presbitero porta incise nella sua natura le caratteristiche della Chiesa particolare da cui proviene e alla quale si dedica.» è la stessa logica della famiglia di appartenenza, da cui si assorbono i valori, le convinzioni, le dinamiche affettive e comportamentali, e a cui si restituisce il frutto del proprio cammino di crescita, si consegnano le esperienze, i progetti, in cui si condividono i timori e le speranze, aperti all'imprevedibile azione dello Spirito del Signore.
     «La diocesanità - conclude Castellucci - costituisce quin­di la “spina dorsale” della vita spi­rituale del prete; non è una specie di “vuoto contenitore” da riempi­re a piacere con altre spiritualità (desunte da ordini e congregazioni religiose o da associazioni e movi­menti), quasi una realtà puramen­te istituzionale da vitalizzare con una spiritualità “carismatica” di al­tra provenienza: è invece una vera e propria spiritualità insieme e ac­canto alle altre, cioè una via scel­ta e sostenuta dallo Spirito per la realizzazione compiuta della vita cristiana secondo un'ottica parti­colare; quella del presbitero dioce­sano è una via di santificazione im­perniata sulla carità pastorale, cioè sulla dedicazione alla Chiesa a par­tire dalla sua forma concreta, la Chiesa particolare.»
     Sarebbe davvero importante che noi approfondissimo questa riflessione attraverso testimonianze, racconti, condivisioni da far rimbalzare sulle pagine della nostra circolare. Essa può essere scelta anche come tematica di un incontro di gruppo, verifica di coerenza e autenticità del nostro carisma di secolarità consacrata.
     In semplicità e letizia,

Don Francesco           

     Novembre-Dicembre 2003



Preti “cittadini del mondo”

Cari amici,
     desidero condividere con voi alcune riflessioni che ho fatto leggendo un interessante articolo apparso su Civiltà Cattolica (quaderno 3669 del 3 maggio 2003) dal titolo Essere preti nel nostro tempo.
     L'autore presenta il risultato di un'indagine realizzata in Centro Europa nel 2000 da cui si evince quale immagine di prete si va consolidando, non solo nella mentalità del popolo di Dio, ma anche nella coscienza degli stessi interessati. È un'immagine variegata, non più univoca. Alcuni sono debitori alla concezione tridentina dell'alter Christus, che vuole il sacerdote in relazione primaria con Cristo per poterlo poi rendere presente di fronte alla comunità. Altri si costruiscono a partire da una concezione più moderna di guida della comunità, di cui si sentono parte, fratelli tra fratelli, in atteggiamento di servizio; la loro spiritualità si realizza fondamentalmente nell'eserci­zio quotidiano dell'attività pastorale. Un terzo volto di prete emerge dalla concezione «pontificale» dell'ufficio sacerdotale, caratterizzata dalla mediazione tra il mistero celebrato e la storia entro cui esso si incarna, che lo fa uomo di Dio aperto allo spirito dei tempi. Da ultimo sarà una concezione teologico professionale a definire il presbitero uomo di chiesa aggiornato, perché a costituire il fondamento del suo essere sacerdote è la sua vocazione personale, esercitata in maniera competente nella chiesa attraverso la funzione che gli viene affidata.
     Nessuna di queste visioni va preferita sulle altre, e forse neppure la sintesi di tutte dà ragione della indicibile missione che il Signore affida ai suoi ministri. Il gesuita P. Johannes Günter Gerhartz, autore dell'articolo, tira una conclusione molto stimolante: “Quello che contraddistingue le quattro categorie di sacerdoti, con le rispettive preferenze teologi­che e pastorali, è il loro atteggiamento nei confronti del mondo mo­derno, del mondo di oggi.” Non solo “atteggiamento nei confronti del mondo”, aggiungerei io, ma modo di starci dentro, di viverne l'appartenenza pur con la propria identità di ministri del sacro.
     Né di fronte al mondo, né assorbiti dal mondo, né al di sopra del mondo, né a protezione del mondo… ma cittadini del mondo. Sta di fronte al mondo chi ritiene di possedere già in sé la pienezza della verità e della vita, senza doversi misurare con gli altri e con la storia. Viene assorbito dal mondo chi perde la sua identità e annacqua la sua missione per porsi allo stesso livello di tutti, assumendone mentalità e costumi. Si pone al di sopra del mondo chi lo giudica a partire dalle norme e lo interpella unicamente per chiederne il cambiamento. Pensa di proteggere il mondo da ulteriore abbrutimento chi sviluppa il suo ruolo in modo staccato e funzionale, negli spazi e per le possibilità che gli sono consentite.
     Anche il prete è cittadino del mondo. L'ambiente familiare in cui è nato e cresciuto connota il suo carattere e le sue attitudini; le esperienze che ha vissuto e le persone che ha incontrato nell'adolescenza stanno alla base della sua formazione affettiva e relazionale; il contesto sociale e culturale che ha provocato le sue prime scelte di vita è anche la sorgente prima dei suoi ideali e dei valori di riferimento; il presente con le sue spinte profetiche e gli allarmanti contesti è il luogo della verifica e del discernimento. Pensare di potersi estraniare da tutto questo per un'identità ideale e una missione più incisiva è presunzione vuota di risultati. Tante volte costituisce motivo di crisi per i preti e di sterile tensione per chi esercita l'autorità.
     La consacrazione secolare vorrebbe essere proprio una forma di riconoscimento che la vocazione, anche la vocazione al sacerdozio, non porta fuori dal mondo ma si sostanzia, nel suo sviluppo, degli elementi propri del mondo. Riconoscerlo e viverlo dà pace, senso del limite, misura del reale e garantisce la possibilità di una sua riuscita.
     Magari mi cimento con l'indicazione sintetica di alcuni suggerimenti di carattere spirituale, tutti da approfondire. Al prete, cittadino del mondo, viene richiesto un “cuore docile”, quello stesso che Salomone invocava da Dio per “saper distinguere il bene dal male” (cfr 2Re 3,9); viene chiesta una nuova “fantasia della carità” che faccia eco alla preghiera di Paolo per la comunità di Filippi: “Che la vostra carità si arricchisca sempre più in ogni genere di discernimento” (cfr NMI, 50 e Fil. 1,9); viene chiesto di “lasciarsi educare dal vissuto”, come Giobbe che arriva ad affermare dopo il discernimento operato nella prova: “Io ti conoscevo per sentito dire, ma ora i miei occhi ti vedono” (cfr Gb 42,5).
     In semplicità e letizia,

Don Francesco           

     Maggio-Giugno 2003



“Fate questo in memoria di me”

Cari amici,
     vi scrivo in questo giovedì santo, idealmente unito a tutti voi nel pronunciare ancora una volta quel “sì” che ha dato inizio alla meravigliosa avventura del sacerdozio e a quella più coraggiosa e radicale della consacrazione.
   Nell'enciclica “Ecclesia de Eucaristia”, che il Santo Padre ci dona proprio oggi, c'è un passaggio molto bello che desidero riprendere con voi. Si trova al capitolo sesto, dove viene presentata la figura di Maria, donna “eucaristica”: “Maria ha esercitato la sua fede eucaristica prima ancora che l'Eucaristia fosse istituita, per il fatto stesso di aver offerto il suo grembo verginale per l'incarnazione del Verbo di Dio. L'Eucaristia, mentre rinvia alla passione e alla risurrezione, si pone al tempo stesso in continuità con l'Incarnazione. Maria concepì nell'Annunciazione il Figlio divino nella verità anche fisica del corpo e del sangue, anticipando in sé ciò che in qualche misura si realizza sacramentalmente in ogni credente che riceve, nel segno del pane e del vino, il corpo e il sangue del Signore. C'è pertanto un'analogia profonda tra il «fiat» pronunciato da Maria alle parole dell'Angelo, e l'«amen» che ogni fedele pronuncia quando riceve il corpo del Signore.”
   E c'è un'analogia ancor più profonda tra il “sì” di Maria e quello che abbiamo pronunciato noi davanti all'altare. Nel sacramento dell'Ordine, infatti, agisce la grazia divina così come ha agito in Maria per opera dello Spirito Santo; ma il mistero si attua grazie a quella adesione personale più volte espressa anche nel rito con quel “Sì, lo voglio”, “Sì, con la grazia di Dio, lo voglio”.
   Abbiamo detto il nostro “sì” a “collaborare con il vescovo nel servizio del popolo di Dio” diventando così luogo della presenza reale di Gesù Cristo, servo per amore. Cristo Gesù “è presente nella persona del ministro, «egli che, offertosi una volta sulla croce, offre ancora se stesso per il ministero dei sacerdoti»” afferma chiaramente la Sacrosanctum Concilium. Ma la presenza di Gesù nel sacerdote è incontrabile anche attraverso i tratti sella sua specifica umanità, dove il mistero celebrato si anticipa e si attualizza. La capacità di perdono, d'ascolto, di partecipazione, d'accompagnamento, di comunione del presbitero sono la modalità concreta con cui il Figlio di Dio continua a piegarsi sulla storia degli uomini.
   Abbiamo detto il nostro “sì” a “celebrare piamente e fedelmente i misteri di Cristo a lode di Dio e per la santificazione del popolo cristiano”. Cristo Gesù, afferma il Concilio, “è presente quando la chiesa prega e loda, lui che ha promesso: «Dove sono due o tre riuniti nel mio nome, là sono io, in mezzo a loro».” Ma la dimensione della lode, del ringraziamento, della gioia rendono evidente la presenza di Gesù nel sacerdote quando accompagnano quella carità pastorale che costituisce la sua identità e la sua missione. È la modalità concreta con cui il Figlio di Dio, “in quest'opera così grande, associa a sé la Chiesa, sua sposa amatissima”.
   Abbiamo detto il nostro “sì” a “compiere in maniera degna e saggia il ministero della parola” per tradurla nel linguaggio di questo nostro tempo, perché l'invito alla sequela risuoni nuovo ed esigente anche oggi, soprattutto alle giovani generazioni. “E' presente nella sua parola, giacché è lui che parla quando nella chiesa si legge la sacra scrittura”, afferma ancora la Costituzione conciliare sulla sacra Liturgia. Ma la Parola si sostanzia di presenza quando incrocia il vissuto del prete e della sua comunità, lo interpreta e lo rilancia rinnovato. È la modalità concreta con cui il Figlio di Dio continua a dialogare con gli uomini d'oggi.
   Abbiamo detto il nostro “sì”, ad “essere uniti sempre più strettamente a Cristo sommo sacerdote, che come vittima pura si è offerto al Padre”, a farci sacrificio con il dono della povertà, della castità e dell'obbedienza, per orientare decisamente al Regno il cammino della nostra società. Proprio parlando della dimensione escatologica dell'Eucaristia il Papa richiama “l'impegno di trasformare la vita, perché essa diventi in qualche modo tutta eucaristica. Proprio questo frutto di trasfigurazione dell'esistenza e l'impegno a trasformare il mondo secondo il vangelo fanno risplendere la tensione escatologica della celebrazione eucaristica e dell'intera vita cristiana.”
   Alla luce di queste riflessioni, opportunamente approfondite nella meditazione personale, emerge con chiarezza l'importanza della rinnovazione delle nostre promesse sacerdotali e dei voti. Questa rinnovazione ci rende uomini “eucaristici”. Il mistero dell'Incarnazione continua nella vita del prete quando egli obbedisce nella liturgia e nella vita al comando del Signore, posto a fondamento del sacerdozio stesso: "Fate questo in memoria di me!"
     In semplicità e letizia,

Don Francesco           

     Marzo-Aprile 2003





Eco del Seminario di studio sulla secolarità

Carissimi,
    questo numero di "Ut unum sint" porta l'eco del Seminario di studio sulla secolarità del presbitero, vissuto dai responsabili dell'Istituto alla fine di gennaio. Oltre che un'intensa esperienza di fede, di fraternità e di condivisione, esso ha costituito un passo avanti nella riflessione teologica e spirituale della nostra famiglia. Desidero soffermarmi con voi su un aspetto di questa crescita, perché merita particolare attenzione e ulteriore sviluppo: la secolarità del prete risalta dalla modalità storica con cui egli ha interpretato e continua a interpretare il suo peculiare ministero in rapporto al mondo.
   Dal punto di vista teologico questa acquisizione sollecita una lettura più attenta dei carismi, un'attenzione più puntuale all'azione imprevedibile dello Spirito, un ascolto più obbediente di quel "magistero" che viene espresso dalla presenza del Verbo tra le pieghe della storia.
   Dal punto di vista spirituale questa acquisizione attribuisce all'esperienza, a quella pastorale in particolare, il carattere non solo di mezzo e strumento per la nostra santificazione ma anche di fine cui orientare le energie umane e le grazie divine legate al nostro ministero.
   A partire da questa riflessione vi invito a rileggere gli articoli. 26-28 delle nostre Costituzioni, che approfondiscono il voto di apostolato. Questi articoli mettono in evidenza un "quid" di radicalità nell'esercizio del ministero che ha uno squisito sapore secolare. Si potrebbe sintetizzare in cinque esigenze.
La prima è quella della pratica delle virtù umane (art. 26/a). Essere nel mondo e dialogare con la storia diventa concreto attraverso quei gesti e quelle parole che danno della Chiesa il volto di un' "attenta esperta di umanità", come recita il nostro Atto di consacrazione al Sacro Cuore di Gesù, e ci fanno "solidali e amici della gente, apostoli di simpatia e di verità".
La seconda esigenza è quella della fedeltà alla "missione ricevuta dal vescovo, anche se umile e povera" (art. 26/b). Non è solo questione di obbedienza ma di minorità, di abnegazione, di radicamento "senza sconti" nella realtà della propria chiesa locale. Lì è il nostro "secolo", fatto di luoghi, persone, esperienze, avvenimenti, ricchezze e povertà. In esso e con esso camminiamo verso la manifestazione del regno.
In terzo luogo l'esigenza della fraternità nel presbiterio e la comunione ecclesiale (art. 26/c-e). Se viene richiesto in ragione dell' "intima fraternità sacramentale e per l'identica missione", l' "aiuto vicendevole, spirituale e materiale, pastorale e personale" si sviluppa in una storia di concrete relazioni secolari. La realtà dei nostri presbitèri testimonia di noi, dei gesti compiuti, delle occasioni perdute, delle sofferenze e delle gioie condivise, delle parole inutili e dei complici silenzi.
Peculiare è anche l'esigenza dell'apertura nei confronti di "ciascun uomo" (art. 27). L'apostolato sacerdotale può essere rivolto a particolari categorie di persone, sulla base della missione ricevuta dal vescovo o delle predisposizioni personali; la consacrazione secolare però domanda anche un cuore costantemente aperto e in ricerca, perché l'ansia missionaria arrivi sempre là dove c'è un fratello che interpella il nostro amore e la nostra "compassione".
Infine la "collaborazione con i laici per un impegno ecclesiale" (art. 28). Il Concilio ci ha ridonato una visione di chiesa tutta ministeriale, dove anche l'indole secolare, peculiare, anche se non esclusiva, dei laici, va assunta e integrata come elemento interpretativo della storia e del farsi del regno. Dopo aver letto il documento conclusivo del Seminario, una sorella laica consacrata mi ha scritto: "Ho notato che per evidenziare la secolarità del sacerdote diocesano si è scelto il confronto con il monaco. E mi sta bene. Mi piacerebbe, però, saperne di più sull'analogia con la secolarità del cristiano laico." Sarà il nostro modo di rapportarci a loro, di dialogare con loro, di ascoltare la loro esperienza, condividendo l'esigenza della formazione e dell'apostolato, che daremo una risposta credibile a questa legittima richiesta. Ancora una volta la questione è di "dire con la vita" l'identica passione per il regno, di "indicare con la vita" i percorsi secolari per coglierne la presenza e riconoscerne i frutti.
   Sempre a partire da questa riflessione vi invito anche a portare avanti con serietà la verifica proposta per gli incontri di gruppo di questi mesi, fino all'assemblea generale di luglio. Ne dovranno scaturire veri e propri racconti di secolarità vissuta, non solo a mo' di fioretti edificanti, ma anche con lo spessore di punti fermi di non ritorno per l'attualizzazione di un carisma cui siamo debitori al fondatore e alla chiesa.
   Auguro un efficace cammino quaresimale e una Pasqua gioiosa, abbracciando tutti in semplicità e letizia

Don Francesco           

     Gennaio-Febbraio 2003





Immersi nel mistero dell'Incarnazione


Carissimi,
     amo pensare che questa lettera vi raggiunga durante le festività natalizie, che auguro feconde di benefici spirituali e pastorali.
     Il mistero dell'Incarnazione costituisce per noi, sacerdoti missionari della regalità di Cristo, sorgente di generosa donazione, modello di impegno apostolico, cuore dell'annuncio cui abbiamo votato la nostra esistenza.
     Andiamo a rileggere l'articolo 5/a delle nostre Costituzioni.
     Sulla scorta di quanto scrive Paolo ai Romani (1,1), l'articolo definisce i presbiteri come uomini "segregati e consacrati per il Vangelo del Regno". Forse oggi useremmo un linguaggio diverso, ma per sottolineare comunque che l'identità del presbitero ha a che fare con il dono di sé, con la spoliazione delle proprie esigenze personali, con il gioioso e libero sacrificio di una propria pur legittima progettualità umana.
Ispirandosi a Pietro (1Pt 5,3), lo stesso articolo li definisce inoltre "pastori esemplari del gregge", proponendo nell'immagine quello stile apostolico che è costituito da un inserimento totale nelle vicende dei fratelli e dal coinvolgimento disponibile in quella storia che sono chiamati a condividere nel tempo.
     Ma il passaggio più importante sta proprio nel delineare il compito dei presbiteri, quello cioè di "rendere presente nel cuore della Chiesa l'amore di Dio per gli uomini". L'Incarnazione, in altre parole, non è solo una verità da insegnare, né solo un mistero da contemplare, bensì un evento cui dare perenne attualità, rendere presente appunto, con la testimonianza della vita. Il presbitero è chiamato a dare questa testimonianza nel cuore della Chiesa, cioè "mediante la parola e il sacramento". Egli è ministro di questi doni di grazia, perché li media dall'alto attraverso l'azione liturgica, e li offre attualizzati attraverso le relazioni umane. L'obiettivo, infatti, di questa testimonianza è "la comunione degli uomini con Dio e tra loro".
     Trovo queste riflessioni assai stimolanti per la ricerca che desideriamo compiere sullo specifico della secolarità del presbitero diocesano. Questa ricerca ci vedrà impegnati nel Seminario di studio di fine gennaio e ci condurrà, attraverso la verifica nei gruppi, ad una celebrazione significativa del cinquantesimo di vita del nostro Istituto nel prossimo mese di luglio.
     La secolarità del presbitero è espressione della secolarità della Chiesa. Pur trattando le "cose sacre", anzi proprio attraverso di esse, il presbitero rende presente nel mondo il Figlio di Dio, ne annuncia la Parola, ne trasmette la Grazia. Dipende anche da lui che Parola e Grazia raggiungano gli uomini d'oggi, la loro storia e i loro progetti.
Lo interpellano una cultura con cui anch'egli fa i conti tutti i giorni, una comunità umana precisa che vive in quel territorio dove anch'egli ha la sua casa, una serie di avvenimenti legati al tempo e all'ambiente di cui anch'egli fa parte integrante.
Lo interpellano una chiesa particolare del cui presbiterio è membro a tutti gli effetti, quei luoghi di frontiera in cui questa sua chiesa è chiamata ad essere sempre più missionaria, il cuore di ogni uomo, scrigno di molteplici talenti, ma reso tante volte sterile dalla disperazione, ferito dal peccato, povero d'amore.
     Ancora un passaggio dell'articolo 5/a delle nostre Costituzioni. L'amore di Dio per gli uomini - esso recita - è reso possibile "in Cristo, del quale" i presbiteri "sono segno". La secolarità risulta autentica nella misura in cui il presbitero si configura a Cristo, che "non considerò un tesoro geloso la sua uguaglianza con Dio, ma spogliò se stesso, assumendo la condizione di servo e divenendo simile agli uomini" (Fil ,6-7).
     La consacrazione con voti, allora, non separa; nella logica del dono essa radicalizza quella spoliazione di sé che immette più profondamente nella storia degli uomini. Già il presbitero è secolare, non solo per situazione sociologica ma per vocazione; il presbitero nell'Istituto consacra questa secolarità per entrare in quel dinamismo redentivo di cui l'Incarnazione è già piena realizzazione e misterioso annuncio.
     Buon Natale e fruttuoso cammino, in semplicità e letizia.

Don Francesco           

     Novembre-Dicembre 2002