UN SECOLO DI
STORIA GONNESE
LA PAROLA AGLI ANZIANI
- di Giuliana
Zurru -
2°
CAPITOLO
La
mortalità infantile e i riti della sepoltura
Come già detto nel numero precedente, le
famiglie dei nostri predecessori erano molto più numerose di quelle attuali.
Molte donne smettavano di allattare l’ultimo nato perché scopriva di essere
nuovamente incinta, magari per la decima o undicesima volta.
Nascevano dunque molti
bambini, ma non tutti sopravvivevano, in parte per le cattive condizioni
ambientali, per la scarsa e inadeguata alimentazione, ma soprattutto per quella
che era considerata la più temuta delle malattie infettive: la “polmonite”, che fino agli anni
quaranta aveva imperato seminando lutti in tantissime famiglie.Il tasso di mortalità
diminuì con l’evento della “penicillina” che segnò una svolta decisiva fino a
debellarla quasi completamente.
Prima di questa grande
scoperta farmacologia, si tentava di curare la malattia
ponendo sul corpo della persona che ne era affetta i “sanguineras” insetti invertebrati che
succhiavano il sangue dell’ammalato allo scopo di purificarlo. Quando diventavano gonfie, si staccavano spontaneamente
dall’arteria, allora si spremevano nella cenere poi s’immergevano nell’acqua
per una decina di giorni al fine di depurarle per essere quindi riutilizzate.
Era consuetudine ripetere quest’operazione agli ammalati per diversi giorni
consecutivi.
Si racconta che alcune
persone se prese in tempo potevano guarire. Le sanguisughe si trovano nei fiumi
o negli stagni ed erano molto richieste. Qualcuno le
cercava per poi rivenderle e guadagnare così qualche soldo. Di fatto, però i bambini continuavano a
morire. Vorrei descrivere a questo proposito un episodio che mi ha molto
colpito e forse può dare un’idea di come si viveva in famiglia e fuori, una
storia di morte infantile all’epoca molto diffusa.
Una sera mia madre sedeva accanto al caminetto nella cucina della sua casa, teneva
in braccio l’ultima delle sue sorelline, ammalata presumibilmente di “polmonite
doppia” (così chiamata perché entrambi i polmoni erano affetti dall’infezione).
La bambina aveva sette mesi e da circa una settimana non stava bene.
Mia nonna nel lungo tavolo
della cucina riempiva la salsiccia, tre dei quattro figli maschi erano a letto,
gli altri più piccoli sedevano anch’essi vicino al fuoco. L’atmosfera quella
sera era piuttosto triste, le condizioni della piccolina si erano aggravate
durante la giornata ed ora era particolarmente abbattuta. Mia madre la teneva
stretta mentre la cullava, improvvisamente notò che la bambina non reagiva più
a nessuno dei suoi stimoli. Spaventata chiamò la mamma che accorse
immediatamente. Quando essa la vide, capì che stava
morendo e lo disse senza indugio agli altri figli, essa, non fece però in tempo
a prenderla fra le sue braccia; la bambina morì in grembo a mia madre appena
undicenne. Rimase traumatizzata! ( Ancora oggi piange mentre racconta.) Per lei
era la prima esperienza di morte.
I sensi di colpa
l’assalirono, si sentiva responsabile della scomparsa della sorellina, in quanto a lei era stato affidato il compito di prendersene
cura, dentro di sé pensava di non essere stata all’altezza di quel gravoso
compito e se ne rammaricava. Forse avrebbe dovuto riservarla meglio dal freddo,
forse se non l’avesse portata fuori…, tanti “forse
tanti “se…., troppi per una bambina che doveva fare i conti una realtà crudele
fatta di grandi responsabilità.
Per mia nonna era la morte del terzo figlio. Grande fu il suo dolore e quello dei fratellini e
sorelline, che piansero e si disperarono per la perdita della piccola bambina.
Mia nonna dopo averli consolati, ordinò a mia madre di portare una bagneruola e
riempirla d’acqua, vi immerse il corpicino e lo lavò,
poi in presenza di tutti gli altri figli, lo vestì con un abitino bianco e lo
compose su di un tavolino di legno poi con un lenzuolino bianco lo ricoprì.
Per tutta la notte sedette
vicina alla piccola salma e con gli altri suoi bambini la vegliò
fino al mattino seguente. Mio nonno che lavorava ad Ingurtosu, apprese
dell’accaduto solo il giorno dopo.
La notizia si diffuse in
tutto il vicinato e molte furono le persone che accorsero per esprimere la loro
solidarietà. Fu avvisato il sacerdote che fece provvedere a
far suonare “is arreppiccus” perché
quando moriva un bambino, usanza voleva che si suonassero le campane a festa,
affinché tutti i cittadini capissero che quel giorno un angelo era salito in
cielo Prima della deposizione nella bara la madrina della bambina poneva sul
suo capo una coroncina di fiori di carta bianchi. Dovevano trascorrere ventiquattro
ore prima del seppellimento che poteva avvenire per volere del sacerdote al mattino o al pomeriggio. Esso si recava a casa del
bambino partendo dalla chiesa, accompagnato da un corteo di bambini di età compresa fra i sei e i dieci anni. I maschietti (i crociatini) indossavano
una fascia rossa con una croce bianca sul davanti, le femminucce (le verginelle) indossavano la
vestina della prima comunione.
Apriva la processione un
chierichetto che portava una piccola croce argentata, dietro lui
due bambini parenti del morto sostenevano la piccola bara bianca, ottenuta da
una cassa di sapone verniciata, con due manici fissati ai lati. Né i genitori né i parenti partecipavano al
rito della sepoltura.
Una parte del cimitero
(quella a sinistra) era riservata ai bambini. È lì che interrarono la bara.
Raramente si mettevano croci
o lapidi, solo le famiglie più facoltose provvedevano a
farlo.Non si celebrava nessuna messa di suffragio e non era fatta preghiera
alcuna. “I bambini che morivano in
tenera età sono anime Sante, sono loro che reggono il mondo. Non si deve
piangere un bambino che muore perché è nella gloria.