Salvatore
Carbone presenta una serie di volti che
"ritraggono", senza intonazioni ironiche,
una condizione esistenziale inquietante. E’ come se,
scostato l’elemento variabile della maschera umana,
noi vi scorgessimo, a suo fondo, quella appena
variegata e ripetuta dell’attonito stupore. Eseguiti
con una tecnica vagamente espressionista,
con richiami ai fauves, questi volti ci mostrano ciò
che nasconde il flusso della vita: una "fissità
straniata" riconducibile all’arte vascolare o
all’antica pittura pompeiana (Elio Franzini), e
forse anche ai volti del poeta austriaco Georg Trakl.
Essi richiamano la nostalgia di una remota e
indeterminata età dell’oro, ma solo nella presenza
del puer, dove la colpa, l’esclusione dall’Eden,
non apre al divenire, bensì a quell’eterna e
indeterminata giovinezza che, esclusa da ogni elemento
vitale, è melanconia, o meglio, cupa voluttà di
melanconia. Il volto del puer non
mostra però il dimenticato che si riattualizza, data
la sua fissità, e nemmeno la
sterile"rivisitazione" dei ricordi, bensì
una remota e irraggiungibile distanza. Egli, lo
straniero, colui che ci guarda senza vederci, è la
pura evocazione di uno sguardo senza mondo, senza
l’offerta di un panorama su cui indirizzare gli
strumenti della nostra volontà, ed è per questo che
il suo invito è tanto puro quanto insostenibile.
Milano 1998
Silvio Aman
|