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OH, VECCHIO FASCINO DELLA CLANDESTINITA’!

Monologo di

Salvino Lorefice

(SIAE – Sezione DOR – Posizione n. 52246)

 

 

SCENA: In una soffitta, dimora di uno studente universitario fuori corso. È giorno. Una sedia, con una spalliera verso il pubblico. Sulla spalliera è disposto un vecchio giubbetto di jeans che copre alla vista del pubblico alcuni oggetti che il giovane prenderà durante il monologo.

 

STUDENTE: Pazzo, pazzo, pazzo. È perché sono pazzo che mi viene in mente mia madre? È perché sono pazzo che rivedo il suo viso piangente? È perché sono pazzo che la rivedo soffrire?

La ricordo tempo fa, quando le dissi: "non interessarti a me. Se muoio, qualcuno ti avvertirà. Non ti darò più notizie di me. Solo ogni tanto telefonerò."

Poveretta! Deve aver creduto di aver già perso il figlio.

"Non so quando mi laureerò. Non so se mi laureerò. E non mi sposerò."

Sono stato cattivo a parlarle così? Sono stato brutale? Sono stato animale? E lei ascoltava e non sapeva che dire. Ma sapeva che quel che avrebbe detto sarebbe stato come non detto. E gli occhi le si arrossarono. E la voce le tremò. E il respiro le mancò. E cominciò a singhiozzare. Non credeva di avere un figlio del genere, un figlio degenere.

Tutte le sue illusioni crollarono. Lei si aspettava che suo figlio si laureasse, lavorasse, si sposasse e le desse dei bei nipotini. Sarebbe stato giusto, secondo il suo concetto, un concetto di antica donna del Sud. E invece i suoi sogni svanirono. Deve aver visto un mondo crollarle addosso.

E singhiozzava, piangeva. E invocava sua madre: "Mamma – Mamma!" ed io a sorreggerla. Ed io ad incoraggiarla. Ed io a parlarle, a sussurrare un freddo conforto. Le feci bere un sorso d’acqua. E lei continuò a lacrimare, a sentir freddo, ad avere brividi pungenti…

La condussi a letto. Ancora un po’ e si calmò. Si addormentò. E stette male per tre giorni interi.

Con le mie parole forse l’ho ferita, le ho fatto del male. Ma l’ho fatto per non farle avere dell’affetto per me, ma dimenticavo che una madre non perde l’affetto per il proprio figlio, pazzo o animale che sia.

Ma sono stato pazzo ad agire così? Sono stato brutale? Sono stato animale?

Ed io l’ho colpita, quel giorno. L’ho colpita nel cuore, nell’anima. E lei, invece, non l’ho meritava. È buona, mia madre. È gentile. Perché farle del male? Nella sua dolce ignoranza pretende ciò che le sembra sia giusto pretendere: quei valori morali che ha sempre ritenuto normali. Che colpa ne ha? Spero soltanto che abbia capito che solo la sua vita è sua. E che la mia è mia. E spero che abbia capito che non può bramare di essere felice a spese della mia felicità.

Forse sono pazzo a pensarla così?

Poi volevo fare lo stesso discorso a mio padre, ma mia madre si batté perché non lo facessi. "Non dar dispiaceri anche a lui", mi disse. Ed io non parlai. E quando mio padre tornò, ci salutammo e ci parlammo dicendo soltanto parole già dette, frasi già fatte, di convenienza. E seguirono, poi, lunghi silenzi.

Poi dovevo ripartire, a Torino, a studiare. Ingegneria . Sì ingegneria!

Pensavo che non l’avrei rivista per almeno sei mesi, mia madre. E lo pensavo mentre preparavo le valigie. Lei, minuta, mi aiutava come mi aveva aiutato tante altre volte, tutte le volte che sono dovuto partire, dopo ogni estate, dopo ogni Natale… mi aiutava a modo suo: "Pensa a ciò che dimentichi", mi diceva. Ed io replicavo: " Va bene". E poi, seccato: "Va bene".

"Il pigiama, l’hai preso? Questo l’hai messo? Quello, te lo porti?" – Si informava con timidezza, quasi soggezione, inibita al massimo da un figlio senza cuore ma, per lei, il suo bambino. Quello di sempre.

"Allora, l’hai preso?", insisteva prendendo il coraggio a due mani. Ed io a sbuffare: " Sì! Sì! …Sì!."

(Il giovane prende dalla sedia una boccia di vetro, quella per le conserve, la fissa e sorride amaramente, inseguendo i ricordi.)

STUDENTE: Poi mi diede qualcosa da mangiare sul treno. Aprì la boccia di vetro, dove conserva la marmellata, quella a pezzi duri, a forma di animali, fatta con mele cotogne, quella che a lei piace tanto, quella che mangia col pane, ogni tanto: dieci pezzi li mangia nel giro di un anno… (Sorride.)

Aprì la boccia – dicevo – e prese due pezzi di marmellata. "Questi li mangi sul treno", anelò. Poi ne prese un altro pezzo e mi guardò. E poi guardò quei tre pezzi come fosse oro, come fosse tesoro. Stava per avvolgerli nella carta stagnola, ma ne aggiunse un pezzo ancora. "Ti bastano?", supplicò. "Sì, sì!", le risposi sgarbato. Ma lei ne aggiunse ancora uno. Poi, finalmente, li avvolse. E sembrava avvolgesse cinque pezzi d’amore. E credette d’imporsi: "Questi pezzi li mangi col pane, sono buoni", ordinò. "Sono buoni davvero, ne hai per almeno tre mesi". (Lo studente fa cadere la boccia ai suoi piedi.)

STUDENTE: Era per questo che ogni volta che mangiavo un pezzo di marmellata pensavo a mia madre. E fu per non pensarci più che una sera - anzi una notte - decisi di mangiarla tutta quanta in una botta: così avrei pensato a mia madre solo una volta. E m’ingozzai, con quei cinque pezzi. M’affogai pur di sbrigarmi. Per sbrigarmi e farla finita. Io non volevo pensare a mia madre. Io non voglio pensare a mia madre.

Poi, al solito, mi misi a scrivere: un comunicato, il numero sette, mi pare, e mentre scrivevo mi venne un nodo alla gola. Poi il nodo si sciolse e spuntarono le lacrime. Volevo oppormi al pianto, ma poi mi ci abbandonai. Piansi per dieci minuti buoni. Ero solo, qui dentro, proprio in questa soffitta: erano le tre del mattino e piangere non poteva farmi che bene.

(Il giovane prende una borsa, simile a un tascapane, e la mette a tracolla.)

STUDENTE: "Capiranno col tempo" mi aveva detto un amico, "ed ai tuoi genitori sembrerà tutto normale. E si arrenderanno all’evidenza. E si rassegneranno. E tu non avrai fatto loro alcun male."

Sì, questo, un amico mi disse. E mi convinse. E mi educò. Mi parlò di soldi: Capitalismo, ImperialismoServi del Potere.

Poi volantini e comunicati: ai Lavoratori… ai Proletari… a Chi Non Ha. Mi insegnò Nuovi Valori: uccidere, anzi no: giu-sti-zia-re.

(Annuisce amaramente per qualche secondo. Poi elenca i vocaboli in un crescendo angoscioso.)

Gam-biz-za-re, rapire. E poi: Azioni Militari. Guerriglia Metropolitana. Entrare in clandestinità. Al Cuore dello Stato: Colpire. COLPIRE. Centrare.

(Si quieta.) Colpire!… Al-Cuore-dello-Stato.

(Con gesti lenti, Il giovane prende uno striscione rosso e mentre, con calma, lo avvolge, fa casualmente vedere al pubblico ciò che vi è stampato: la scritta "BRIGATE ROSSE" e una stella a cinque punte dentro ad un cerchio. Avvolge lo striscione e lo mette nel tascapane. Poi prende la pistola-mitraglietta e la scruta per lunghi secondi.)

STUDENTE: Ora non ho più marmellata. Niente più mi ricorda lei. Solo ogni tanto le telefonerò e le dirò che sto bene. (Mette la mitraglietta nella borsa.)

E intanto il tempo scorrerà.

(Prende il giubbotto ed esce velocemente).

(BUIO.)

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