San Fili - Tradizioni locali





La Fiera
Le Castagne
L'allevamento del Baco da Seta a San Fili
I panieri
Il Mandolino di San Fili : Giorgino Curatolo
I soprannomi
'e magare
Le zampogne
L'artigianato
Il Natale di una volta a Bucita
La Pasqua







Le castagne


[...] Le castagne una volta erano fonte di ricchezza per il nostro paese... Ebbene si, i sanfilesi, in questo periodo, grazie alla racolta delle castagne potevano vedere nelle loro tasche qualche lira in più, e nelle loro dispense farina, marmellata e altri derivati.
Venivano da Campania, Puglia, Toscana e Sardegna per acquistarle. Diversi erano i modi di sfruttare la castagna: ricordiamo i famosi 'pistiddrii' che si ottenevano mettendo le castagne su un ripiano di fili di ferro intrecciati e accendendovi al di sotto un fuoco. Dopo averle seccate venivano messe in un sacco e sbattute su un tronco; in questo modo, la buccia si sgretolava e rimaneva il frutto. Dai 'pistiddri' bolliti se macinati si ricavava un'ottima farina che era usata per fare il pane 'castagnizzu' e le frittelle. Un metodo per conservare le castagne più a lungo era quello di metterle in una grande vasca piena d'acqua, fino a quando essa non diventava rossa per la liberazione dell'acido tannico . A questo punto si potevano conservare nella sabbia. Questi prodotti venivano esportati nelle zone di Bari , Napoli e in varie zone della Sardegna. Anche le castagne infornate , ottime, venivano esportate. Per il consumo giornaliero ricordiamo i 'vaddrani' (castagne bollite) e le ' ruseddre' (caldarroste). Le castagne non adatte al consumo erano ottime per la nutrizione e la crescita dei maiali.
I maggiori proprietari terrieri erano i Gentile, Blasi e il barone Miceli. Durante la raccolta delle castagne i raccoglitori, per proteggersi dalla pioggia, costruivano ' 'u pagliaru' , costruzione somigliante ad una capanna , fatta da rami di castagno e da terra.
Purtroppo si tende a sottovalutare le sia pur ristrette potenzialità economiche di tante piccole ricchezze della nostra cultura e del nostro territorio benchè si affermi quasi unanimemente che solo in queste cose sia possibile individuare occasioni di sviluppo e di lavoro. Adesso il benessere economico fa si che la raccolta delle castagne sia solo un hobby per gli amanti di questo frutto e un ricordo di tempi passati per quelle persone che hanno vissuto il vero periodo della raccolta.

Da "L'occhio" n. 18.96 - articolo di Paolo Cortese.


L'allevamento del baco da seta a San Fili

L'arte della seta era praticata in Calabria già intorno all'anno mille. Lo storico Oreste Dito testimonia che "un certo Stefano da Cosenza, nell'889 portò al Monastero di San Benedetto della Cava seta grezza prodotta in Calabria". La produzione della seta, in passato, rappresentò la ricchezza prevalente per il paese in quanto fonte di commercio. All'incirca un secolo fa, buona parte degli abitanti di San Fili, allevavano il baco da seta. Il baco da seta o filugello nasce da un uovo piccolissimo, si nutre di foglie di gelso, tesse un bozzolo per il letargo durante il quale si trasforma in crisalide e in farfalla, tutto nel giro di pochi giorni.
Durante la sua breve vita il baco da seta necessita di molte cure e gli allevatori devono sostenere un grande lavoro, così racconta mia nonna che in passato lo ha allevato. Anzitutto perché le uova (semi) si dischiudessero era necessario un ambiente adeguatamente riscaldato, molte volte gli allevatori non disponendo di ciò facevano schiudere le uova portandosele addosso chiuse in un fazzoletto e poste sotto i vestiti sul seno. Appena le minuscole uova si schiudevano, venivano posate sui piccoli bruchi delle foglie di gelso (ciuzi) bianco, sulle quali i bruchi salivano e a questo punto venivano passati dal fazzoletto sui cannicci posti in un locale ampio e ben protetto dagli sbalzi di temperatura. Sui bachi venivano poi messe altre foglie di gelso bianco, questa volta, però, sminuzzate ed asciutte. L'attività dei bachi consisteva esclusivamente nel divorare le foglie di gelso dalla mattina alla sera. I bachi adulti erano molto voraci, consumavano enormi quantità di foglie di gelso nero (pampini) che venivano distribuite loro tre volte al giorno.
Le nostre campagne, allora, abbondavano di gelsi neri che nutrivano i bachi adulti, mentre, per nutrire i bachi appena nati occorrevano i gelsi bianchi che si trovavano prevalentemente nella Profico , a Rende e a Quattromiglia, vicino la stazione di Castiglione cosentino, e le massaie, per poterne fare una buona scorta dovevano compiere lunghi percorsi a piedi.
Intanto i bachi crescevano rapidamente e mutavano la pelle quattro volte, ogni muta avveniva dopo otto giorni e corrispondeva alla fine di un'età. Dopo il settimo giorno dell'ultima muta che veniva chiamata 'a croce' i bachi assumevano un colore giallo oro, a questo punto era necessario preparare le 'impalcature' che erano il luogo dove i bachi filavano il loro bozzolo (cucuddru) ed erano fatte di ramoscelli di ginestre di cui sono ricchi i nostri boschi. I bachi, posti nelle impalcature, cominciavano a filare il bozzolo con un filo sottilissimo detto 'bava' che poteva raggiungere anche la lunghezza di 1500 metri.
Ultimato il bozzolo, nel suo interno, il baco cadeva in letargo e si trasformava in crisalide e poi in farfalla pronta ad uscire ad accoppiarsi e a deporre altre uova. A questo punto, dice la nonna, bisognava intervenire per impedire alla farfalla di uscire dal bozzolo, altrimenti ciò avrebbe provocato la rottura del filo in tanti frammenti inutilizzabili. Le massaie sottoponevano le crisalidi alla 'spruddratura' la stufatura per farle morire nel bozzolo che le conteneva. Gli allevatori potevano allevare i bachi con uova di propria produzione, scegliendo un certo numero di bozzoli e lasciandone uscire le farfalle. A San Fili, però, era assai più comune acquistare le uova prodotte negli stabilimenti di stagionatura e portate in paese da ditte commissionatrici.
Appena i bozzoli erano pronti venivano posti in una bacinella contenente acqua bollente, venivano battuti con degli spazzolini di 'ilica' (ramoscelli di cespuglio) per eliminare le fibre esterne finché non si trovava il capo della bava del bozzolo, lo si dipanava e lo si avvolgeva a spirale intorno ad un aspo (strumento di legno per fare le matasse).
Terminato un bozzolo se ne apriva un altro ; più fili venivano uniti insieme per formare il filo di seta che veniva raccolto in matasse con rocchelli a mano. I rocchelli, poi, erano pronti per la vendita.
La vendita fruttava agli allevatori ingenti guadagni, con i quali si risanavano i bilanci familiari. A volte le massaie lavoravano in comune spartendosi il guadagno, esse si dividevano il lavoro, c'era chi puliva i bachi, chi raccoglieva il gelso, chi sminuzzava i pampini, c'erano gli addetti alla battitura e chi raccoglieva il filo di seta in matasse e al momento della paga c'era anche chi si accontentava di un terzo dei proventi. L'allevamento del baco da seta, infatti, era l'unica fonte di ricchezza in un periodo molto difficile per l'economia del paese. Racconta mia nonna che si acquistava a credito e poi si aspettava la battitura (u scrunuocchju) per poter saldare i debiti.
Gli ultimi ad allevare il baco da seta a San Fili furono i miei nonni nel 1955, loro allevarono una grande quantità di bachi per una ditta del nord Italia, la ditta 'Olice' e con il ricavo della vendita riuscirono ad ultimare la dote della figlia.
Per molti anni a San Fili, in Via Cozzo di Iorio fu attivo un laboratorio del bozzolo e in Via Destre, dalla parte che si affaccia sul fiume Emoli (le Coste), esistevano due filande che vennero abbandonate intorno all'anno 1905.
Maria Iantorno


Da "L'Occhio" n. 13.97 - articolo di Maria Iantonro.




I panieri

Nei tempi antichi ed anche nel primo dopoguerra, vi erano a San Fili, oltre ai tanti artigiani, molti contadini che abitavano nel paese oppure nelle campagne circostanti ; oltre a dedicarsi al proprio lavoro nei campi, in alcuni periodi dell'anno, con molta pazienza e creatività, realizzavano molti lavori artigianali, tanto da poter essere considerati veri e propri artisti della Primavera. In Primavera, infatti, i contadini raccoglievano lungo i corsi d'acqua i rami dei salici e in montagna, ai piedi dei castagni facevano scorta di ramoscelli e li disponevano i fasci per la pulitura.
La pulitura consisteva nella shcoccatura, effettuata con un apposito arnese, la shocca , a forma di forcina, che loro stessi ottenevano dal legno e con il quale scortecciavano i salici, cioè levavano la corteccia di colore bruno dai rametti, fino a che questi non rimanevano bianchi e poi venivano lasciati ad asciugare al sole.
Nelle giornate calde, poi, i contadini non potendo fare altri lavori nei campi, si radunavano e, in compagnia, seduti vicino ad un bacino d'acqua o ad un ruscello, svolgevano il loro paziente lavoro. Mettevano i salici nell'acqua e per tenerli ben fermi vi poggiavano sopra delle pietre. I salici messi nell'acqua si ammorbidivano e potevano essere facilmente lavorati dalle mani esperte dei contadini. A questo punto prendevano cinque o sei bastoncini di salice non troppo lunghi e con un coltellino affilato li incidevano nella metà dove, poi infilavano altrettanti bastoncini per ottenere con essi la forma di una croce. Con due salici più sottili iniziavano a girare intorno alla croce alternando i ramoscelli fino al loro esaurimento ; formavano così un cerchio che era la base del paniere. Lungo la circonferenza della base infilavano altri salici che poi venivano raccolti e legati in altro. Agli osservatori poco esperti davano l'idea di una gabbia per gli uccelli  ; invece, proprio intorno a quei salici poi si sviluppava il paniere o la sporta.
I panieri, per lo più erano realizzati con salici e rametti di castagno, (virghe), per essere più resistenti ; per le sporte potevano essere usate anche le canne che nascevano nei pressi dei fiumi e che venivano preparate con lo stesso procedimento dei salici, senza però richiedere la shcocciatura. Sporte e panieri avevano diverse fogge e misure perché diversi erano l'uso a cui erano destinati.
In occasione della Fiera di Santa Maria questi capolavori venivano esposti e venduti dagli stessi contadini che si sistemavano a gruppi in un angolo della Fiera.
Erano in molti ad aspettare la Fiera per poter comperare 'u panaru o 'a sporta ma c'era anche chi rimaneva a bocca aperta di fronte a panieri realizzati con tanta maestria e dalle dimensione talmente ridotte che appena potevano contenere un uovo. Poi c'erano anche i cesti intrecciati che richiedevano più lavoro e perciò costavano qualcosa di più rispetto a quelli più semplici.
I panieri che si vendevano maggiormente erano quelli fatti con salici e castagno perché erano più robusti e resistenti e venivano utilizzai per la raccolta delle olive e delle castagne, ma erano anche molto apprezzati dai cercatori di funghi perché in essi, non solo i funghi non si sciupavano ma lasciavano anche cadere le spore nel bosco durante il cammino. Molto richieste erano pure le sporte che venivano utilizzate durante l'inverno quando si uccideva il maiale. Indipendentemente dell'uso che ne veniva fatto, comunque, il paniere era considerato un simbolo dell'artigianato sanfilese e molti panieri realizzati a San Fili hanno fatto il giro del mondo perché acquistati da turisti o da emigranti come ricordo di un'arte antica che testimonia però ancora oggi, nella sua semplicità, doti di grande laboriosità e creatività artistica.

Da "L'occhio" n. 14.97 - articolo di Maria Iantorno




Il Mandolino di San Fili : Giorgino Curatolo

Giorgino Mi aspetta alle dieci del mattino nella sua casa che da' su piazza San Giovanni. Mi accoglie vicino al caminetto e subito inizia a raccontare, a parlare, a ricordare. E' un fiume in piena Giorgio Curatolo, Giorgino , per molti sanfilesi. Ottantatré anni il prossimo febbraio, si sveglia presto la mattina e di solito passeggia al sole verso il Piano del Mulino...oggi l'ho fatto tornare prima per chiacchierare un poco. Faccio quasi fatica a stargli dietro, ad appuntare le tante cose che mi dice, divagando spesso senza mai perdersi nel filo del discorso. Sottolinea spesso di non avere più tanta fiducia negli uomini e di essere per questo molto addolorato. - L'uomo bisogna rieducarlo ; è un animale pieno di difetti. Certo ha pure tanti pregi...ma ai giovani spesso manca la cultura, l'educazione : questo mi rattrista.
Gli chiedo della sua passione per la musica, di come nacque. Mi racconta di tanti anni fa. Ricorda vivamente le piccole compagnie teatrali, per lo più siciliane , che venivano a San Fili a recitare. Le guerra era finita da poco e all'inizio degli anni venti la vita non era facile. Si campava come si poteva, senza troppe sicurezze. Mi racconta di una bambina , forse di dieci anni. Doveva debuttare cantando per la prima volta in pubblico proprio a San Fili. In programma c'era 'Occhi Blu'. Salita alla ribalta svenne. La portarono proprio a casa Curatolo dove mangiò un po' di pastina : non mangiava da cinque giorni. - Mia sorella suonava il mandolino, un fratello il clarino, un altro la cornetta. Fu una cosa naturale, inevitabile, che anch'io mi appassionassi alla musica. Così iniziai a studiare il mandolino, da autodidatta. Ero molto influenzato da alcuni personaggi. Per esempio Metallo. Suonava il clarinetto (di lui non si ricorda più nessuno, ed io sono molto addolorato ; per lui e per i sanfilesi). Ogni mattina faceva due ore di esercizi. Solo esercizi : niente melodie e canzoni quando studiava. Poi c'era Turillo, Salvatore Aiello : accompagnava Metallo alla chitarra, e pur non sapendo leggere la musica era un grande chitarrista. Mi ricordo anche le voci splendide di Giovanni Gambaro e Mario De Franco. Io ero molto giovane, allora, più di loro. Si facevano bellissime serenate. A San Fili c'era la banda e non mancavano gli strumentisti, anche bravi. C'erano violini, chitarre, mandolini , clarini... e poi si suonavano canzoni , operette...non c'era altra musica, né dischi.
Giorgino partì , militare, nel '36. Venne la guerra e riuscì a tornare solo nel '46.
Giorgino - Come tanti fui anche sbandato, dopo il '43. Ma sono imbottito di idee risorgimentali. Proprio non me la sentii di passare coi tedeschi. Quando oggi sento parlare Bossi mi viene un moto di rabbia da non dire. E' più forte di me ! Proprio non lo sopporto. In quei dieci anni girai molto per l'Italia. Mi ricordo di Parma : ero alla sala radio. Fu li' che per la prima volta potei assistere ad un'Opera in teatro. Era l'Andrea Chénier, di Verdi. Rimasi completamente imbambolato da quella musica meravigliosa. Non potevo certo avere il libretto, per cui non capii tanto della storia. Poi un ufficiale, me lo ricordo ancora, era gentilissimo e mi voleva bene, mi raccontò tutto.
E fra una frase e l'altra mi canticchia , estasiato, qualche brano dell'Opera, mi racconta la vicenda, poi riprende : - La guerra mi lasciò molto scosso. Poi per altri 30 anni restai in giro per l'Italia ; facevo l'elettricista, avevo poco tempo per suonare...praticamente abbandonai il mandolino. Tornai a San Fili solo nel '74. Mi addolorava la brutta situazione in cui trovai il paese. Così ripresi il mandolino. Un uomo deve sempre essere attivo. Qualcosa di interessante, di vitale, bisogna farla sempre. Avevo intenzione di fare uno studio più approfondito. Andavo al conservatorio 'Giacomantonio' di Cosenza e assistevo a molte lezioni. Leggevo molti libri sulla musica, e non solo. Mi ispiro molto a Paganini...ma col carattere che si ritrovava è morto in miseria. Intanto suonavamo molto, in paese.
Io mi ricordo nitidamente, da bambino, Giorgino ed altri suoi amici alla chitarra, fermarsi negli angoli del centro storico ,sui muretti, nelle sere più calde d'estate. Si raccoglieva sempre una piccola folla di amici, passanti, villeggianti. Di solito chi abitava nei pressi, onorato della serenata, non mancava di scendere in strada o di affacciarsi alle finestre per ascoltare. Intanto ci alziamo per entrare nel Sancta Santorum ...la stanza della musica. Sul tavolo decine di audio-cassette, l'amplificatore, il mandolino elettrico, quello acustico, metodi di teoria musicale, corsi di chitarra ; egli scaffali diecine di raccoglitori; leggo a caso : Canzoni, Lentamente, Ballabili, Strauss, Tanghi, Musica dolce e Melodiosa, Lirica : sono centinaia di spartiti ordinati e catalogati, annotati puntigliosamente, vissuti. Tira fuori un raccoglitore più grosso. Porta scritto con un pennarello nero 'Zibaldone Musicale'. - Lo Zibaldone di Leopardi l'ho letto tutto. Contiene tanti insegnamenti utili. Questa raccolta ho voluto chiamarla così.
Giorgino Curatolo e Vittorio Rossiello Anche qui troviamo tanti spartiti e foglietti con annotazioni, citazioni sulla musica, filastrocche per insegnare i primi rudimenti ai bambini. Su uno leggo :'Scioglilingua per il bambino prodigio'. Mi spiega : - I bambini hanno bisogno di sensibilità e attenzione. Già leggendo questo si sentono importanti e imparano prima. Mi ricordo quando...
Troviamo una frase di Aurelio Fierro :"Scellerato è chi fa la musica moderna". Su questo apriamo una accesa discussione. Parla di Pino Daniele...con rispetto,certo, ma ... - I temi musicali hanno bisogno di una loro coerenza. Certo , i generi musicali si modificano, ma non si può perdere la dolcezza della musica. In quella di oggi manca troppo. Io, per rispetto, mi fermo a Modugno. Oltre il '60 non vado.
Ma poi , spulciando lo Zibaldone trovo 'La canzone di Marinella' di De Andrè ; glielo faccio notare... - Qualche eccezione c'è sempre...ma sono poche. Il mio motto è "Musica, mia dolce musica". E la dolcezza nella musica è fondamentale.
Intanto parliamo di molte altre cose. Mi racconta di una Traviata, Rendano, anni '80, e di un signore che si ostinava a leggere il libretto al buio blaterando sulle parole che non corrispondevano. Lo costrinse a una viva protesta ; la musica ha bisogno di silenzio. - Nel locale dove suoniamo adesso ho appeso un bel cartello. C'è scritto :Silenzio ! Ho intenzione di aggiungervi le definizioni della musica date dai più grandi filosofi. Ma i ragazzini entrano e parlano lo stesso . Bisognerebbe educarli meglio alla sensibilità musicale. In casa, per poter suonare tranquillo , ho dovuto aggiungere doppi infissi, in piazza c'è sempre un tale confusione...
Mi parla di musicisti antichi. Poi di Manzoni e di Dante, di Campanella e Bruno, facendo trapelare timidamente un certo anticlericalismo. - Il più grande resta Leopardi !
E intanto prende il mandolino e mi fa sentire una cantata di Bach, naturalmente rivisitata per il suo strumento. Ancora oggi, nonostante la venerabile età, vissuta con invidiabile Mi da appuntamento al pomeriggio. Suonano in un locale del vecchio Municipio, con Vittorio Rossiello e Fiore Cortese. - Hanno una grande sensibilità musicale. Ci troviamo molto bene !
Si è fatto tardi. Ci salutiamo con la promessa di incontrarci ancora, per mostrarmi altri spartiti, per spiegarmi altre cose della sua musica. Sono certo che sarà di nuovo molto interessante.

Da "L'occhio" n. 2.97 - articolo di Giovanni Gambaro.




I soprannomi

" Caratteristica di buona parte dei Sanfilesi è stata quella di avere un "soprannome" aggiunto al proprio nome e cognome.(...) Esso traeva origine dai mestieri, caratteri, posizioni personali e dalle più varie e impensabili circostanze. Ora vanno sparendo. Un esempio tipico è quello dato dai 18 soprannomi coi quali, nel corso dei secoli, si è ramificata e contraddistinta una stessa famiglia:
Carletta,Cartoccia,Catalano,Chelenne,Fazzeca,Frammicu,Guerra (da Sante Cesario , patriota risorgimentale), Madonna, Mbrughjaveru, 'Ndonapa, Picciune, Prigghjuvanne, Ramagliu, Santuruocciulu, Spuntune, Tinaglia, Voe. "

cfr. San Fili nel tempo (cit.)


'e magare

'e "magare", (fattucchiere), sono sempre state uno degli elementi caratterizzanti di San Fili, noto nel circondario come " 'u paise de' magare".
Il primo venerdi di ogni mese e, spesso , in quelli intermedi, confluivano in San Fili i clienti provenienti dai paesi vicini (pochissimi i paesani che usufruivano dei servigi della 'magare' ) , in cerca di queste donne intelligentissime che riuscivano col loro carisma ad assicurarsi la fiducia dei clienti, accettando in cambio solo doni in natura e mai soldi.


Le zampogne

Zampognaro Non capita quasi più di poter rivivere l'atmosfera magica ed emozionante che un tempo gli zampognari creavano per le strade e nelle case dei nostri paesi. Eppure fino a qualche decennio fa la zampogna era lo strumento principe della musica, del folklore locale. Abbiamo rintracciato Franchino Bartella, "'U Verre", ultimo zampognaro Sanfilese, e Mario Storino , figlio di " Tuture 'e Cancarena", i quali ci hanno raccontato i loro ricordi davanti ad un buon bicchiere di vino rosso.
San Fili era un paese povero, privo di grosse risorse produttive. Numerose erano le greggi ed i pastori che quotidianamente le guidavano verso i pascoli prima dell'alba. I nostri amici calcolano che forse il 70% dei pastori sapesse suonare la zampogna. Infatti nelle lunghe giornate al seguito degli armenti era abbastanza usuale ingannare il tempo cantando cantilene tramandate di generazione in generazione accompagnati dalla fida zampogna e da qualche piffero.
Non erano tempi floridi; anche per questo i gruppi di pastori si riunivano nelle fredde sere d'inverno decidendo di far visita alle poche famiglie che potevano godere di qualche agio, nella speranza di poter assaggiare un po' di frutta o di salame, o qualche dolce, e sempre un bicchiere di vino.
Questa attività si intensificava indubbiamente nel periodo natalizio, ma non era del tutto assente nel resto dell'anno. Per esempio gli zampognari si riunivano per la Fiera di Santa Maria, in agosto, e in ogni occasione di festa sia pubblica che privata.
I testi si arricchivano di anno in anno di nuove trovate poetiche, a volte spassose, altre struggenti e malinconiche.

" Tu Passi e spassi, e cientu vote passi
Sientu lu jiatu de lu tuo durmire..."


Spesso erano proprio gli intellettuali del paese a comporre vere e proprie poesie d'amore, o satire esilaranti: versi che di bocca in bocca si diffondevano fino ad entrare nel repertorio consolidato degli zampognari.
Per suonare la zampogna occorreva molta forza fisica e capacità polmonare,oltre, ovviamente, ad un pronto orecchio musicale, tanta passione, e , come ci viene più volte ribadito, qualche buon bicchiere di vino per sciogliere il fiato dei musicanti e la voce dei cantanti.
La 'vuossula' , cioè il pezzo di legno che collega l'otre alle canne, veniva realizzato spesso in legno di ciliegio, duro e compatto.
Per le canne (il destro per la voce solista, la manca per l'accompagnamento, il fischietto e il 'furmu', ciechi, cioè senza fori), andavano bene anche il mandorlo, il gelso e l'albicocco.
Si tratta della cosiddetta zampogna 'Curcia', il tipo diffuso nei nostri paesi, che consentiva di avere anche la melodia ma che era ovviamente assai più difficile da suonare. Ne abbiamo vista una magnifica, probabilmente di fine ottocento, con 'vuozzula' e canne di ciliegio finemente intarsiate con delicati motivi floreali.
E' stato sinceramente emozionante ritrovare l'antica zampogna di Franchino Bartella; veder gonfiarsi l'ampio otre di pelle di capra sotto il fiato possente dello zampognaro; sentirne finalmente diffondersi nella nebbia, in una angusta 'vineddra' , il suono penetrante ed avvolgente; ascoltare la voce squillante di Mario Storino che intonava antiche cantilene.
Altrettanto sinceramente ci è dispiaciuto scoprire che ormai nessun ragazzo di San Fili sa più suonare la Zampogna. Se qualcuno di forti polmoni volesse farsi avanti...

Da "L'occhio" n. 1.95 - articolo di Giovanni Gambaro.


L'artigianato

Luigi Ferraro : l'impagliatore

Molte attività artigianali, un tempo diffusissime nei nostri paesi, vanno scomparendo. E' sempre più raro incontrare qualcuno che, se non per lavoro, almeno per hobby si dedichi a coltivare e tramandare tecniche ormai uscite dall'uso comune. Tanti sono i motivi e non è di questo che mi voglio occupare ; ma fa piacere incontrare qualcuno che con grande passione, nel tempo che ora, in pensione, ha più libero, riprenda le tecniche apprese in gioventù.
Ho incontrato Luigi Ferraro. Passa spesso le sue giornate in campagna dove, oltre a seguire l'andamento delle colture, ha attrezzato un piccolo laboratorio dove impaglia sedie, costruisce oggetti di legno, restaura antichi untensili. Da ragazzo il padre e il nonno gli insegnarono i rudimenti che ha affinato negli anni.
Oggetti d'artigianato Egli stesso raccoglie in zone paludose dei dintorni la vuda che fa essiccare e stagionare. Se ne ricavano sottili e piatte striscioline flessibili che dopo essere state inumidite vengono intrecciate abilmente sugli scheletri delle sedie in legno. Occorrono quasi 4 ore di lavoro per impagliare una sedia di medie dimensioni.
Per rivestire fiaschi e bottiglie usa il salice e la canna ed anche il legno di castagno. Alternando fascette più chiare e più brune si ricavano decori che rendono ancora più graziosi gli oggetti che realizza. E' un lavoro in cui occorre perizia e pazienza: anche in questo caso occorrono ore per ottenere il rivestimento di una bottiglia o per realizzare un cestino.
A questi si aggiungono mobiletti di varia foggia e piccoli oggetti in legno : un lampadario ricavato da un antico giogo per i buoi, a Modena, è stato valutato un milione e mezzo di lire.
Come si vede attività del genere, se ben realizzate e adeguatamente organizzate, potrebbero avere anche un certo mercato, magari limitato ma sicuramente da esplorare. Sarebbe auspicabile da parte dei giovani una maggiore attenzione a queste opportunità , tanto più che la crisi che viviamo non mostra di potersi risolvere con una semplice inversione di tendenza, e cioè riattingendo a modelli, quelli degli ultimi anni, che proponevano un benessere tutto sommato apparente e sicuramente non costruito su solide basi.
Il futuro potrebbe essere migliore; difficilmente lo sarà se non sapremo dare contenuti profondi e ben radicati ai modelli di sviluppo che ci sapremo dare. Ogni popolo, ogni regione, ogni comunità ha potenzialità peculiari che le grandi possibilità di interscambio ed integrazione che la modernità ci offre non possono mortificare. Integrazione non può essere appiattimento né omologazione. Tanto più quando i modelli che ci vengono propinati non sono né autentici né sostanzialmente sostenibili.
Forse basterebbe (so bene che non è facile) avere il coraggio di riconoscere e valorizzare quanto di buono c'è fra la nostra gente, nella nostra Cultura, nella nostra Civiltà per gettare le basi di uno sviluppo rispettoso dell'uomo, della sua identità sociale ed individuale e dell'ambiente .


Marcello Speziale e le sue cornici

Per tutta l'estate, al n° 10 di Via XX Settembre, San Fili, il sabato e la domenica si potrà ammirare una mostra di pregiate cornici artigianali. Grandi cornici lavorate con la foglia d'oro, cornici antichizzate, moderne; disegni a volte originalissimi, accostamenti di colori e fra i colori e il legno inconsueti e di grande effetto, cofanetti portagioie realizzati sempre sfruttando il legno per cornici, opportunamente lavorato...
Marcello Speziale è un signore amabilissimo e ci ha intrattenuto nel suo laboratorio per raccontarci del suo lavoro.
Emigrato in America, lavorò per oltre 30 anni in una fabbrica di cornici e nel commercio d'arte, a New York. All'inizio la factory era piccola e familiare, con pochi dipendenti. Partirono da zero ma in alcuni anni riuscirono allargare il raggio d'azione coniugando la lavorazione artigianale a quella in serie. Spesso era proprio lui a realizzare i campioni su disegno originale da inviare in Svezia per il taglio della cornice grezza: la struttura di legno che pure oggi utilizza come punto di partenza per i suoi lavori. Nei ritagli di tempo, la domenica, presentava spettacoli nei teatri e nei cinema dove spesso arrivavano in trasferta i cantanti italiani all'ora più in voga.
Ora, in pensione, è tornato a San Fili da alcuni anni e , per hobby, ha ripreso la sua vecchia attività. Lo aiuta il giovane Gianluigi Mazzulla , restauratore sanfilese, che sta imparando i segreti di questa delicata e affascinante arte.
Il maestro lo incoraggia: - Certo, in America era tutto più facile. Fai il tuo lavoro, paghi le tasse, e se ci sai fare hai successo. Qui è tutto più complicato. Bisogna iscriversi all'artigianato, avere la partiva IVA...tanta burocrazia! Ma i giovani possono fare qualcosa se vogliono. Luigi è giovane ma sta imparando. Se 2 o 3 giovani sanfilesi si organizzassero potrebbero avere buone opportunità ...il lavoro non manca.
Il campionario è già ricco e su ordinazione possono eseguire praticamente qualsiasi lavoro.
- Ci vuole grande amore per questo lavoro. Pazienza e amore. Non basta conoscere i trucchi del mestiere, applicarli in pratica non è facile...bisogna saper tagliare con grande precisione...e poi l'incastro: ormai quasi tutti lo fanno usando delle spille sparate sulla giuntura...ci tengo molto a sottolineare questo...io uso colla e chiodi. E una cornice inchiodata e tutta un'altra cosa. Se ben fatta è molto più robusta e infinitamente più precisa.
Mi mostrano alcuni esempi molto belli. Mi colpiscono, per esempio , alcune cornici martellate . Si creano sul legno disegni apparentemente casuali che nell'insieme si armonizzano a formare disegni di grande effetto. Altre presentano una finta marmorizzazione...anche lì la grande difficoltà è nel creare una superficie che imita perfettamente il marmo lavorando esclusivamente a mano, punteggiando macchioline di vari colori che nel complesso si debbono presentare uniformi: il risultato è perfetto. Per fare una cornice serve sempre almeno un'ora di lavoro. Solo il foglietto d'oro deve essere fissato con l'olio per almeno 6 ore.

Da "L'occhio" n. 15.96 - articoli di Giovanni Gambaro.



Usi e costumi del Natale di una volta a Bucita

A Bucita il mese di Dicembre porta tante feste, oltre a quella dell'Immacolata e del Natale comuni alle genti di ogni nazione, ricorre in questo mese la festa di Santa Lucia, patrona di Bucita insieme a San Biagio. Oggigiorno questa ricorrenza viene ricordata con una fiera molto grama e piccola, ma una volta mi raccontano che fin dalle prime luci dell'alba si sentivano i carri dei venditori e degli artigiani attraversare il paese con la loro bancarella e i loro carretti. Ad esempio, a Panicò si teneva la fiera dei maiali, da Falconara scendevano con i loro muli i venditori di agrumi, c'era pure 'l'uzzularu' di Rende che vendeva le sue anfore di creta, che lui stesso creava e modellava nella piccola officina del suo paese. Un quadretto molto intimo e caldo a cui si univa il suono dei tamburi degli anziani del paese. La festa della patrona Santa Lucia raccoglie gente da tutti i paesi limitrofi ed oltre, devoti o meno che portano all Santa bottiglie di olio per alimentare i lumini che in segno di devozione le vengono accesi, dal momento che essa è la Santa protettrice degli occhi. A Bucita si soleva andare casa per casa per raccogliere ceste e utensili vecchi e usurati i quali poi servivano per essere appesi ad un alto palo di legno chiamato 'a tenna' e insieme a questo bruciati. A sentire questi racconti è facile farsi trasportare con la mente a quegli anni quando ad esempio il Natale si sentiva e veniva vissuto già dal giorno dell'Immacolata, allorché si cominciavano a preparare i dolci caratteristici del paese:'turdiddri', 'scalette',e 'cassateddre'. Alle vigilie dell'Immacolata e di Natale si usava e si usa preparare grandi quantità di 'cuddrurieddri', i più familiari panzerotti, per capirci ; una volta erano i 'cuddrurieddri', perché la maggior parte della massaie li preparava con sole alici, oppure secchi e vuoti per essere mangiati col miele o con lo zucchero. Per i bambini la preparazione di queste leccornie era di per se una grande festa, essi tutti vicini al vecchio focolare di mattoni di creta, ingiallito dal fumo e nella e nella cui grande bocca veniva adagiato ' u tripidu' su cui si poneva la padella per poter friggere i vari dolci , erano tutti ansiosi e fremevano per provarli ancora caldi e bollenti. Per Natale venivano preparate a Bucita 'e grispeddre' cioè i castagnacci, un altro dolce che veniva preparato con la farina di castagne. Appositamente per esse si ponevano sul focolare ' i cannizzi' (tralicci) su cui le castagne venivano messe a seccare. Una volta indurite si vuotavano nei sacchi e si battevano ; si ottenevano così ' i pistiddri' che a loro volta si portavano a macinare in uno dei mulini che vi erano a Bucita (uno vicino al fiume Franchino e un altro a Panicò) per ottenere così la farina per preparare i castagnacci e il pane. Il presepe era una cosa immancabile ogni anno per Natale. A Bucita veniva preparato in Chiesa sull'altare ; per la sua preparazione veniva coinvolta tutta la gente del paese e chi poco chi di più, comunque ci si adoperava tutti per una buona riuscita. Mi racconta mio zio, che era uno dei partecipanti alla preparazione , che il presepe di Bucita era molto semplice ma caldo ; sullo sfondo venivano fatte le montagne che si ricoprivano di muschio e farina , la valle antistante i monti era un'immensa distesa di deserto e sparse qua e là case dalle quali filtravano barlumi di luce prodotta con lumini ad olio. In primo piano venivano poste una serie di grotte in pietra e una di quelle , la più bella e la più grande era quella del Bambino Gesù, verso la quale venivano posti i pastori con le pecorelle che come tutte le altre figure del presepe erano fatte con la creta e dipinti a mano. A Bucita, per la messa di mezzanotte si riunivano i pastori delle varie contrade del paese e di Gesuiti che , lasciato fuori il loro gregge entravano in chiesa, si inginocchiavano davanti al presepe e con le loro zampogne iniziavano a suonare "Tu scendi dalle stelle" . In quel momento ognuno veniva preso da un'emozione e commozione uniche e si incominciava a cantare. Durante l'omelia funzionava l'organo e c'era anche una piccola orchestra, due violini, un clarinetto e una chitarra che suonava anche il giorno di Natale, nella messa della mattina. Per festeggiare ci si ritrovava tutti al centro del paese intorno al grande falò che si era preparato in quel giorno.(...)

Da "L'occhio" n. 21.96 - articoli di Francesca Peelicori



La Pasqua

Sapatu Santu, vieni curriennu
ca li quatrari stau ciangiennu...
stau battiennu la capu aru muru
ca' vuolu fattu lu santu cuddruru!

Era la filastrocca che tutti i ragazzi ripetevano ad alta voce nei giorni che separavano le Palme dalla Pasqua , cantilenando sui balconi di casa, per i vicoli, durante i primi giochi all'aperto.C'era già stata la grande benedizione delle Palme, dal Carmine alla Chiesa Madre la scenografia, la drammatizzazione era stata perfetta. Per incanto il paese era divenuto teatro, la Chiesa palcoscenico, e lo sarebbe stata per tutta la settimana seguente per i riti pre-pasquali. Dal Frassino e da Cucchjianu erano arrivati i più bei rami di ulivo e d'alloro, teneri, argentei, brillanti nell'aria tersa in braccio ai contadini che ne facevano dono volentieri a chi, del paese, non ne possedeva. La processione allegra, anomala, senza statue di santi, si snodava leggera verso la Chiesa Madre per il rito atteso dall'anno primo. Si ingrossava lungo il percorso; nugoli di bambini si univano e molti di essi portavano la palma addobbata, fatta di canna fresca piegata e intagliata a mo' di trofeo: uno scheletro di sfera a due, a tre piani, rivestito di carta velina coloratissima, a cui erano appesi i ginetti provenienti da Montalto e San Vincenzo e mostaccioli in forma di animali comprati per l'occasione alla fiera di San Giuseppe di Cosenza, e poi piccole uova e animaletti o fiorellini di cioccolato , confetti avvolti nel tulle...La palma si teneva ben diritta in mano e si sollevava più in alto possibile più volte cantilenando come in un rito propiziatorio, invocando abbondanza di bozzoli e dunque molta seta, e un buon raccolto per la stagione estiva.

Jiera jiera, matajera
assai cucuddri 'ncannizzera
tummina tummina migliu e granu!


Era la festa della Primavera che ben si sposava al rito cristiano della benedizione dell'ulivo. In tutte le case , nei giardini, in campagna e nei cimiteri il rametto d'ulivo sarebbe ricomparso l'indomani, simbolo di pace e concordia.
I giorni seguenti erano un frenetico alternarsi di preparativi della festa e partecipazione ai suggestivi riti religiosi. I forni pubblici erano assediati dalle prenotazioni per la cottura dei pani e dei dolci augurali ( " i cuddruri" ) e le attese per il proprio turno erano motivo per le massaie di ritrovarsi e conversare in maniera colorita. La fornaia veniva a casa a prendere i dolci pronti da cuocere, li poneva abilmente su un'asse di legno lunghissima che trasportava reggendola in bilico sul capo poggiando le mani sui fianchi e camminava ondeggiando rapida e leggera fino al forno. Per tutto il giorno era un via vai di assi con i pani crudi e cestoni , poi, con quelli fragranti, appena sfornati, che spandevano per l'aria un profumo morbido di cose buone.
I cuddruri erano di diverso tipo e forma. Pani dolci e salati, guarniti o impastati con uova, con grasso e semi di anice... per tutti i gusti. La "Cuddrura" grande, con cinque uova sopra era per il capofamiglia e i nonni; i "cuddruri" a forma di bamboloccio per i piccoli di casa con tre uova. Ma se i forni erano affollati, gremita era la chiesa dove, puntualmente, con una partecipazione emotiva totale, si seguivano i riti e le prediche della settimana.

Sono stato io l'ingrato
Gesù mio, perdon pietà!

...e si piangeva davvero,insieme. A segnalare l'inizio della funzione i ragazzi giravano per strada con le raganelle e le "troccane" al seguito di Francesco Saverio che gridava:"Nuddru ara casa, tutti ara ghijesa! ". Le campane erano mute, in quei giorni, e anche la radio trasmetteva solo musica sacra.
La notte del Giovedi si vegliava in chiesa dove era stato allestito il Sepolcro (" 'u Subburcu" ),in adorazione del Santissimo Sacramento.Per quaranta giorni ciotole colme di semi di ceci, di lenticchie e di grano erano stati curati amorevolmente nei cassoni al lato dei camini perchè germogliassero in fretta ed ora, decorati con ciuffi di violacciocche lilla e gialle e larghi nastri di seta, facevano bella mostra e degna cornice.
Il pathos aumentava con la partecipazione alla grande Via Crucis del Venerdi Santo. Il culmine era l'incontro delle statue bellissime e imponenti del "Calvario" coperto da una tunica rossa e dell' "Addolorata" , ammantata di nero e piangente su un fazzoletto bianco. La tensione si coglieva nell'aria; le donne piangevano e gli uomini erano pallidi e assorti.
Quando sabato mattina, sul tardi, si scioglievano le campane a "Gloria", il tripudio era generale. Ci si abbracciava e baciava. Ogni attività veniva sospesa per inginocchiarsi a pregare. Subito dopo le madri preparavano la frittata di Pasqua con ricotta e salame e i ragazzi con campanellini di ogni foggia e fattura giravano cantando:

Risorto è il Signore
con noi se ne sta !

Da "L'occhio" n. 8 .95 - articolo di Franca Gambaro.



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