Le leggende

E' probabilmente vero che non esiste cultura in cui non sia presente una ricca tradizione di leggende e favole e la sardegna non sfugge certo alla regola.
Molti i temi ricorrenti nlle favole sarde, da quelli magico-religiosi, alle microleggende che spiegano, ad esempio, l'origine di certi luoghi o di certe rocce dalle forme particolari, dagli stranissimi folletti che abitano le cavità delle montagne, agli sciocchi del villaggio, come Basuccu, alle prese in giro infine fatte ai danni degli abitanti di certe zone, come per i Maureddus.
In tutta questa tradizione vogliamo ricordare, in particolar modo, le leggende sulle domus de janas (le case delle fate), le antiche tombe preistoriche, e sulle loro abitanti, il popolo delle colline. Questo esempio serve per mettere in evidenza come i tipi di fiabe e i relativi personaggi rispecchino spesso le tipoloie fiabesche del resto dell'Europa. Nel caso specifico delle abitanti delle domus de janasb, ad esempio, molte sono le analogie con le fate o gli elfi di una certa tradizione nord-europea e soprattutto irlandese. Le due fiabe che seguono sono tra le più diffuse e conosciute della sardegna.

La scomparsa delle janas

In quel tempo lontano, in certe colline, vivevano le janas. Erano fatine piccoline piccoline, alte come il pollice di un bambino di nove anni compiuti.
Vestivano di rosso e avevanosul capo minuscoli fazzoletti fioriti, e attorno al collo diademi d'oro e di bacche di rosa.
Cucivano e filavano le proprie vesti e lavoravano la terra. Nelle piccole case scavate nella parete dei monti, avevano tutto quanto era loro neccessario: il forno per fare il pane, mobili di foglie e di ghiande per ripporre ogni cosa, telai per tessere e noccioli di ciliegia per giocare a palla. Il sufficiente, insomma, per essere felici.
Più il tempo passava è più le janas diventavano belle è delicate, e, assai me, iraconde e pigre. Perchè il sole non anerisse le loro pelli presero anche ad uscire solo di notte e pre non sciupare la loro bellezza rinunciarono a lavorare la terra.
Quei pochi chicchi di grano che bastavano per fare le focaccine che eran loro neccessarie comiciarono a comprarli dai contadini del vicinato, offrendo in cambio fazzoletti ricamati sui loro telai.
Le loro dita, non più abituate ai lavori pesanti, divennero tanto fragili e delicate che se le tagliavano persino tirando il prezzemolo.
Sapevano ormai soltanto tessere e giocare.
I fazzoletti, le cuffie e le piccole tovaglie ricamati dalle janas avevano bisogno di essere stesi al chiarore della luna perchè abbelissero di riflessi notturni. Solo così diventavano unici, bellissimi e fantastici, e spingevano gli uomini a spendere cifre folli per comprarli.
Le janas stendevano i loro ricami nei pressi del nuraghe di Tramalitzu, che era il posto più vicino alla luna.
Tutto andò bene fino a che gli uomini ignorarono l'esistenza di questo nascondiglio.
Ma una notte, un bandito a cavallo vide i ricami e li rubò. Le janas erano troppo picccole per impedirglielo e troppo deboli per inseguirlo.
Il bamdito non si accontentò e ogni notte successiva tornò a raccgliere il ricco bottino. le piccole fate, private dell'unica ricchezza, non poterono nè comprarsi ne grano ne nient'altro.
Qualche tempo dopo sparirono e nessuno sa dove siano andate.

La potenza della felce maschio

Il giovane più fiero della Gallura era un bandito, che nemmeno la giustizia era riuscita mai a pigliare . Una notte dopo una festa, che le campagna erano silenziose, senza un segno di vita, il bandito, col fucile a tracolla, attraversava un campo dov'era posta una chiesa solitaria, quando d'improvviso da un cespuglio scappa un cinghiale e si dà a correre intorno alla chiesa . L'uomo sta pronto, gli spara, l'ammazza.
Il sentiero continuava proprio innanzi la chiesa. Il bandito, giunto a poca distanza dalla porta, sentì venire dalla chiesa canti e risa. Si fermò ad ascoltare, e pensò: "Con questo cinghiale, con tanta gente allegra, si potrebbe combinare una bella festicciola, e io potrei continuare il mio cammino domattina presto". Così entrò nella chiesa, trascinando il cinghiale morto. "Un cinghiale per questa bella compagnia!" gridò, e tutta la gente radunata, uomini e donne, diedero una gran risata e si misero a ballare in tondo tenendosi per mano. Il bandito stava per tender loro le mani quando vide che erano tutti senza occhi, e capì che non era un ballo dei vivi, ma di morti. I morti, ballando sempre con grande allegria, cercavano di metterlo in mezzo al circolo, e un fantasma di donna, passandogli vicino, gli disse: " Se vieni con me ti dirò dove crescono i tre fiori della felce maschio! "
Il giovane voleva raggiungerla, perché sapeva cosa si dice dei tre fiori della felce maschio: che quando li si troveranno, nessuno più morirà quando sarà colpito dal piombo. Ma uno dei morti in quel momento si staccò dalla schiena e gli venne vicino.
Il bandito lo riconobbe: era un suo compare di battesimo. " Attento, compare mio," disse il compare morto, " chi entra nella schiena dei morti non potrà uscirne più, e se non fate di tutto per uscirne, domani sarete anche voi coi morti. Entrate pure a ballare con noi, ma sul più bello cantare questi versi: Cantate e ballate voi Che ora la festa è la vostra. Quando verrà la nostra Cantiamo e balliamo noi. Il bandito andò subito a raggiungere la donna che gli aveva promesso di svelargli il luogo della felce maschio, ed essa gli disse: " Chi vuole avere i tre fiori, deve andare il primo giorno d'agosto su fino alla svolta del fiume dove non si sente mai canto di gallo, e a mezzanotte i tre fiori sbocceranno, e qualunque cosa si presenti, non bisogna avere mai paura, e coglierli."
"Li coglierò," disse il bandito, " e nessuno morirà più di piombo."
La donna morta rise: "No che non li coglierai! Perché ora sei nella schiena dei morti e starai sempre con noi," e lo teneva per mano ballando.
Allora il bandito capì che era il momento dei versi che gli aveva insegnato il compare, e cantò: Cantate e ballate Che ora la festa è la vostra. Quando verrà la nostra Cantiamo e balliamo. A udire quel canto tutti i morti si buttarono per terra gridando e dibattendosi. Il bandito fu svelto; corse alla porta, saltò sul cavallo e fuggì via. I morti già gli erano dietro a inseguirlo, ma non riuscirono ad acchiapparlo.
Il primo d'agosto il bandito si mise in cammino per andare al fiume. La notte era bella, ma a mezzanotte, tutt'a un tratto, si scatena una tempesta. Grandine, lampi, tuoni, fulmini, lingue di fuoco; e lui, fermo, ad aspettare che sboccino i fiori. Ed ecco che alla luce d'un lampo, vede un fiore di felce maschio che sboccia, e lo coglie.
Allora si sentì un pesante galoppo e arrivarono a torme cinghiali e cervi e tori e vacche e animali di tutte le sorte, impazziti per la tempesta, e correvano contro l'uomo, e pareva ogni momento l' investissero.
Ma lui stava a piè fermo senza spaventarsi e sempre aspettando che sbocci il fiore.
Quand'ecco che dietro gli altri animali viene un serpente e gli s'avvinghia alla caviglia e poi sale su su alla coscia, e a poco a poco lo stringe al collo e l'uomo si sente strangolare, ed è già all'estremo ma non si muove.
Allora il serpente lo guarda negli occhi, manda un fischio stridente, e scompare.
E il bandito vede che il secondo fiore è sbocciato e lo coglie. Ora il bandito è contento, e pensa già d'aver liberato l'uomo dalla morte del piombo, e attende sicuro di sé lo sbocciare del terzo fiore ed ecco che, nel silenzio, sente rumori di cavalli, e frastuono di spari.
Il bandito da principio sta fermo, poi vede apparire sul dorso del monte un drappello di carabinieri, che punta su di lui e dice : "Proprio ora m'hanno scoperto i carabinieri, e non è ancora sbocciato il terzo fiore, e ancora di piombo si può morire !" Così si spaventa, mira sui carabinieri e spara una fucilata.
Subito, carabinieri e cavalli sparirono, e sparirono anche i fiori di felce maschio, e il terzo fiore non è mai sbocciato, peggio per l'anima dell'uomo che non ha resistito, e il piombo per conto suo continua il suo cammino.

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Simone Porcedda

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