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Corsica, la pace tradita 
Sardigna Natzione: politica, non sangue 11 agosto 2000

dal nostro inviato     Celestino Tabasso

Corte Una pace appena nata e già sporca di sangue. Tornati dal cuore della Corsica, dove si erano abbracciati in nome della distensione, gli indipendentisti del Vecchio Continente si ritrovano protagonisti di una terribile guerra, dalle mitragliate dell’Ile Rousse al tritolo dell’Eta. Uno shock, ma lo slogan rimane: «La parola alla politica»: dicono i separatisti di casa nostra, reduci dagli incontri coi delegati delle altre piccole patrie.
Domenica, ultima delle tre giornate internazionali di Corte: la tregua tra le organizzazioni corse non è mai sembrata così solida, la Francia non è mai parsa così bendisposta, l’Europa unita apre nuove prospettive ai popoli senza Stato.
Poche ore dopo l’ex dirigente di Cuncolta Jean-Michel Rossi morirà insieme alla sua guardia del corpo sotto le raffiche di un mitra. Altre ventiquattr’ore e i baschi dell’Eta scateneranno un’offensiva a suon di bombe contro Madrid, con due stragi in due giorni. Una doccia fredda sul processo di distensione.
Eppure a Corte, un attimo prima che la ventata di violenza riporti drammaticamente d’attualità il nazionalismo europeo, tutto sembra andare per il meglio. Sotto il grande tendone bianco le tribù del nazionalismo corso approvano due documenti fondamentali per la pacificazione dell’isola: il protocollo di Fiumorbu, col patto di non belligeranza fra le tante sigle politiche e militari, e la bozza di Matignon, primo passo verso la contrattazione dei poteri fra Parigi e Ajaccio. Nell’antica capitale corsa c’è un clima nuovo, un ottimismo eccitato che alle Tre Giornate non si vedeva da tempo. Al lungo bancone della mescita spuntano facce scomparse dal giro molti anni prima, militanti che per disaccordi politici o per istinto di conservazione si erano ritirati a vita privata.
Una pattuglia di leghisti si aggira con aria un po’ spaesata, poi piega il fazzolettone verde col sole padano e se ne torna a casa: nessuno di loro sarà invitato sul palchetto delle rappresentanze nazionali. Le troupe francesi setacciano il campo a caccia di Jean-Guy Talamoni. Capogruppo degli otto consiglieri regionali di Corsica Nazione e leader carismatico di Cuncolta, è stato fra i tessitori della pace di Fiumorbu e del cartello Unità, che ha raccolto otto decimi delle sigle indipendentiste.
Mercoledì gli obiettivi lo cercheranno mentre segue pallido il feretro di Rossi e distribuisce parole di conciliazione. Ma domenica è ancora il timoniere di una navigazione serena verso la tregua. Ai giornalisti francesi annuncia la condizione essenziale del processo di pace con la Francia. Un concetto facile, scritto a spray sui muri lungo i 130 chilometri tortuosi che da Bonifacio portano a Corte: «Libertà pa i patriotti», fuori dalle celle tutti i prigionieri politici, anche quelli che hanno sparato. Nello spiazzo assolato intanto i discorsi, le speranze e le preoccupazioni si sovrappongono. Sotto il tendone bianco dei dibattiti si parla francese, per comodità. Ma al bancone del pastis, nella mensa e sulle rive ombrose del Tavignano fiorisce l’indipendentese, l’esperanto etnico coniato dai nazionalisti per meglio intendersi. Per i sardi è facile: coi corsi si parla in gallurese, con i catalani basta un logudorese piano ed elementare. Con gli uomini di Euskadi è un po’ più complicato, ma alla fine anche tra baschi e berritte si comunica. E alla fine i militanti di casa nostra vanno via con un risultato politico concreto nella bisaccia, frutto anche del clima di distensione sul quale precipiterà poi l’omicidio di Rossi. «Abbiamo istituito - spiega il coordinatore di Sardigna Natzione Bustianu Cumpostu al ritorno dalla Corsica - un gruppo di coordinamento permanente fra corsi, baschi, sardi e catalani, una nazione delle nazioni che conta venti milioni di europei e si pone come interlocutore dell’Ue». Ma vale la pena di stringere un patto con chi insanguina l’Europa? «Sono le organizzazioni militari a compiere le azioni di guerra, noi dialoghiamo con quelle politiche. Non è una distinzione capziosa: al contrario, costruendo un soggetto politico forte si taglia l’erba sotto i piedi alle organizzazioni militari. Pregiudiziali contro la lotta armata comunque non ne ha posto nessuno, per un motivo abbastanza semplice: è l’oppressore che sceglie il tipo di lotta, non l’oppresso. Noi comunque abbiamo sollecitato i corsi a guardare con favore gli accordi proposti da Jospin. Ma al tempo stesso li abbiamo messi in guardia: noi sappiamo cos’è l’autonomia, la conosciamo da cinquant’anni ed è chiaro che da sola non basta, soprattutto finché a gestirla saranno i partiti italianisti». Iniziate bene e chiuse da una mitragliata, le Tre Giornate del 2000 finiscono su un bivio. Potrà essere un nuovo ’96, quando gli indipendentisti sardi dovettero spedire tredici telegrammi di condoglianze fra Ajaccio e Bastia, oppure il laboratorio della nuova, pacifica devolution all’europea.