MACCHIAVELLI

 

 

IL TEORICO DEL CINISMO ERA UN INGUARIBILE OTTIMISTA 

di LIONELLO BIANCHI 

Dalla Firenze del 1500 insegnò al mondo la real politik, l'arte della politica spregiudicata, con le pagine de "Il Principe". 
Ma chi era in realtà... 

Dell'aggettivo "machiavellico" il nuovo Zingarelli fornisce le seguenti definizioni: 
1. Relativo, conforme alle dottrine politiche elaborate dal Machiavelli; 
2. (in senso figurato) Astuto e privo di scrupoli: trama, doppiezza machiavellica. Sinonimi: scaltro, subdolo. 

Dunque dell'autore del Principe e della Mandragola la tradizione popolare ha tramandato queste caratteristiche che trapelano dai
suoi scritti. Ma in realtà Niccolò Machiavelli ( 1469-1527) non é quel cinico che appare dalle sue opere. Sul "Corriere della Sera" il 6
febbraio 1969, in occasione del quinto centenario della sua nascita, Indro Montanelli inquadrava cosi fa personalità di Machiavelli:
"...quanto poco machiavellico fosse potrebbero dirlo, molto meglio di me, i suoi due grandi biografi e Prezzolini (autore per
I'appunto di una Vita di Niccolò Machiavelli fiorentino, pubblicato da Longanesi; ndr). Ma meglio di tutti lo dice la sua stessa vicenda
politica. 

Questo grande maestro della manovra, di manovre non ne azzeccò una. E' vero che I'Italia dei suoi tempi era piena di trabocchetti,
quasi più di quella attuale (ed é tutto dire). Ma c'é chi, pur sapendone infinitamente meno di Machiavelli, riusciva a saltarli in tempo,
mentre lui ci cascava regolarmente dentro. Rimase con la Repubblica anche quando era abbastanza chiaro che i Medici la
avrebbero rovesciata, e a loro si riaccostò proprio nel momento in cui stavano per essere nuovamente scacciati. Non sono molti gli
uomini che riescono a farsi epurare sia dal totalitarismo che dalla democrazia. Egli fu di questi". "...II fatto é - osservava sempre
Montanelli - che, da buon toscano Machiavelli era solo un teorico del machiavellismo. 
Quando, infilati "panni reali e curiali", si sedeva a tavolino nella sua casa di San Casciano e si tuffava nella Storia, il filo della
matassa lo trovava subito, e non c'era chi lo dipanasse meglio di lui, pur nei limiti del suo 'naturalismo'. Anche se gli sfuggivano
molte causali dei fatti, non gli sfuggivano i protagonisti. Fra questi era di casa, e non c'era nessuno che riuscisse a nascondergli le
sue birbonate. Anzi c'é il caso che a qualcuno ne abbia imprestate più di quante ne avesse fatte... Ma quando tornava a indossare
'questa veste cotidiana piena di fango e di loto', l'inventore della Real politik credo che se la lasciasse fare anche dal mezzadro...
Quando lo nominano segretario comunale, crede di aver scalato la 'stanza dei bottoni' e di essere al centro degli affari nazionali, se
non mondiali.... Quest'uomo che non crede negli uomini, crede di poterli trasformare in soldati, capitani, in generali... II fatto é che il
grande pessimista era nella vita un candido ottimista. E questo lato patetico soggiunge una nota di affetto alla nostra ammirazione
per lui. Ci auguriamo che tale sentimento sia stato condiviso dal macellaio, dal fornaio e dal farmacista di San Casciano, con cui
ogni sera si trovava all'osteria per bere un gotto di vino e far quattro chiacchiere. Certamente erano chiacchiere politiche che
avranno offerto al Machiavelli il destro di rinverdire, magari un po' gonfiandole, le sue gesta di uomo di Stato e diplomatico. I suoi
ascoltatori ne avranno forse sorriso ma senza veleno, visto che non avevano nessun motivo d'invidiarlo: era come loro." "Vero o non
vero, questo é I'uomo Machiavelli che mi piace immaginare". II ritratto che Montanelli riesce a trarre é sicuramente molto umano. 

Ma ser Machiavelli era proprio così nella vita di ogni giorno? Come lo giudicavano i suoi contemporanei? "L'universale per conto
del Principe I'odiava: ai ricchi pareva che quel suo Principe fosse stato un documento da insegnare al duca tor loro tutta la roba, a'
poveri tutta la libertà. Ai Piagnoni pareva che fosse eretico, ai buoni disonesto, ai tristi più tristo o più valente di loro; talché ognuno
I'odiava...": é il parere espresso da G. B. Busini a proposito dell'isolamento del Machiavelli in Firenze, parere che troviamo nelle
"Lettere di G. B. Busini a Benedetto Varchi sopra I'assedio di Firenze." edite a cura di Gaetano Milanesi, Firenze, 1860.

In effetti, non si stenta a credere che, dopo aver ricoperto incarichi ufficiali e aver svolto per Firenze diverse missioni, Machiavelli si
sia esposto a invidie da parte dei suoi avversari, che avrebbero fatto in modo di isolarlo sempre più. Le ultime lettere di ser Niccolò
stanno a testimoniare di un uomo preoccupato soprattutto per i figli e la moglie. Smessi i panni curiali, ritiratosi in campagna, aveva
preso a scrivere e nel suo stile traspare il personaggio cinico, ironico, amaro nei confronti degli altri, personaggio tal quale é stato
tramandato fino ai giorni nostri. Ma, in realtà, non era questo l'uomo Machiavelli, quando usciva di casa, la sera, e incontrava gli
amici semplici di quella campagna, attorno a Firenze. 

L'UOMO - Dunque, del Machiavelli si possono intravvedere attraverso i suoi. atteggiamenti due personalità, da qui I'avvicinamento
all'aggettivo ambiguo che - secondo i dizionari moderni - é uno dei sinonimi ricorrenti di machiavellico. La prima, quella ufficiale, di
quando era impegnato nel suo incarico pubblico; la seconda, quella di scrittore politico, severo con i governanti e con la sua città.
Tutto questo, senza trascurare la particolare tesi non solo di Montanelli, ma di altri storici, del suo carattere buontempone nella vita
privata, quando si spogliava delle vesti ufficiali o di scrittore. Insomma, c'è sicuramente molto della sua personalità nelle opere
satiriche o addirittura comiche, quali la Mandragola e il Belfagor, ad esempio. In effetti, scorrendo le fonti dell'epoca, accanto a
giudizi negativi su di lui si riscontrano giudizi positivi, in un alternarsi e in un susseguirsi, che ripercorrono la sua carriere di politico e
diplomatico, di storico, di saggista, di autore satirico e ironico. 

Da buon italiano, e in specie da bravo fiorentino, ser Niccolò imparò molto dalla strada più che nelle aule scolastiche. Cominciò da
piccolo, fin da quando ragazzino giocava con gli altri coetanei. Proprio frequentando le contrade, i mercati e le taverne egli imparò
le sagaci impertinenze popolaresche, i modi di dire, anche sgrammaticati, gli aggettivi sintetici di certo vernacolo fiorentino che
hanno contribuito non poco a renderlo celebre. Machiavelli si compiaceva di termini e frasi dialettali, un dialetto quello fiorentino che
egli riteneva al di sopra di quelli di altre città italiane. 
Appunto questi termini e questo periodare rendono originale e caratteristica la sua prosa. Cresciuto per le vie di Firenze, la sua
città, assistette a diversi spettacoli, di vita e di morte. Non a caso a nove anni fu spettatore del furor di popolo per l'uccisione dei
Pazzi, che attentarono alla vita di Lorenzo de'Medici, a venticinque presenziò all'ingresso di Carlo VIII nella città di piazza della
Signoria, e a ventinove vide messo al rogo fra' Savonarola. 

Niccolò Machiavelli se imparò dalla strada modi di vivere e di parlare, di certo frequentò gli studi, in particolare quello del latino.
L'abitudine del latino si avverte nel suo stile anche quando scrive in italiano o piuttosto, per dirla con i suoi amici, in etrusco ovvero
toscano. Gli autori latini erano impressi nella sua memoria, da Tito Livio (suo il libello dai titolo: Discorsi sopra la prima deca di Tito
Livio) a Cesare, da Cicerone a Tacito e a Svetonio. Aveva dimestichezza ovviamente anche con i poeti, Virgilio, Ovidio, Tibullo e
Catullo. 
Ad ogni buon conto Machiavelli ci teneva a non passare per un erudito, faceva il possibile per sembrarlo il meno possibile. Quel che
a lui interessava era di riuscire a agganciare lo spirito di quegli uomini dell'antichità. Forse, proprio per la mancanza di sfoggio da
parte sua, sono stati parecchi i suoi contemporanei e concittadini che non lo consideravano un letterato ma "uomo senza lettere". ln
effetti; la famiglia I'aveva indirizzato all'eloquenza. Si capisce tale desiderio dei genitori di Niccolò i quali intendevano in un certo
senso attraverso il figlio recuperare certi privilegi. Dal buon esito di quegli studi Niccolò pareva possedere i requisiti per affermarsi
come avvocato per la sua capacità di ammansire i potenti, toccare le loro debolezze, individuare la loro vanità e il loro interesse
così da riuscire a ottenere il loro consenso. 

Il Machiavelli non studiò soltanto i latini, ma si interessò anche dei volgari. Per cominciare studiò Dante e Petrarca. Dato il suo
temperamento c'è da ritenere che prediligesse, della Commedia, I'lnferno, perché lì trovava personaggi forti, dotati di passione,
intelligenza ed energia quali Ulisse, Francesca, Capaneo, il Conte Ugolino. Leggeva anche autori greci nelle versioni che
circolavano allora, tradotte in latino. conosceva Aristotele e Plutarco. Prendeva molti appunti, rifletteva. Soprattutto pero la sua
grande passione era per Roma, la città per antonomasia; erano i Romani i suoi veri concittadini per il loro spirito, il loro senso dello
stato, la loro res publica, anche la figura del principe poteva ricavarsi dalla storia romana. 
Era comunque la prima repubblica quella che prediligeva, quella che arrivava sino ai Gracchi per intenderci, fatta di personaggi
duri, al limite della rudezza, ma tanto genuini. I Romani che vennero dopo erano troppo raffinati, anche troppo colti per i suoi gusti.
Non é pertanto un caso che la Firenze che più amava il Machiavelli fosse quella fatta di odi, rancori di parte, di vecchie ruggini tra
famiglie, scontri tra bottegai, ma anche composta di venerabili, di gente di mestiere. Era la città delle congreghe, dove i mercanti ce
I'avevano con gli orefici, chi filava nutriva rancore con quelli che facevano i canapi, e cosi via. Era la città popolana, delle rivalità
accese tra i quartieri e i sestieri, quella che prediligeva. E in mezzo c'è I'Arno che fa da divisorio, che divide i fiorentini dai pisani. E'
la Firenze dei contrasti, la Firenze più amata dal Machiavelli, come del resto sostiene Prezzolini in una delle sue opere, quella
appunto su Niccolò Machiavelli, già citata; nessuno meglio di Prezzolini poteva comprendere lo stato d'animo vero di ser Niccolò
nei confronti della sua città e dei suoi concittadini.

L'ESILIO - Machiavelli non guardava solo ai fatti interni della sua città, che pure considerava moltissimo, ma estendeva le sue
attenzioni e il suo interesse all'Italia, divisa e dilaniata da guerre di quell'epoca, e amava soffermarsi per riflettere sulla situazione
della Penisola. Lo faceva spesso, e durante i suoi incarichi ufficiali, e durante le ambasciate che faceva presso questo o quel
signore. Soprattutto nelle Lettere si trovano i suoi giudizi sulla situazione italiana, oltreché fiorentina, o dell'Italia in rapporto di
Firenze, e in relazione al Papato. 

Con le sue prese di posizione, i suoi scritti politici, Machiavelli ebbe modo di attirarsi le ire soprattutto dei Medici, i signori della città
che tornati al potere dopo il Savonarola, messo al rogo, lo bandirono nel 1522 costringendolo a un esilio forzato, fuori dalla Toscana
per un certo periodo e poi nella sua casa di campagna. D'altronde, i suoi rapporti con i governanti di Firenze non furono mai troppo
facili, anche negli anni in cui fu chiamato alla cancelleria della città. Nel 1512 in occasione della congiura che prese il nome di Pier
Paolo Boscoli il nome di Machiavelli compare tra i congiurati e figura agli atti dei processo. Tanto che in quell'anno egli conobbe sia
pure per breve tempo il carcere e la tortura. 

II periodo che va dal 1512 al 1516 é quello in cui sono cadute tutte le speranze. Per Machiavelli un periodo amaro. Non poté più
abitare in Firenze dovrà stare lontano da Firenze e dal Palazzo della Signoria. Niente più cenacoli e allegre conversazioni con i
compagni e gli amici del cancellierato. E' il periodo in cui egli punterà a ricercare un po' di fama nelle lettere. Effettivamente, la
Mandragola avrà una discreta fortuna appena sarà rappresentata. Però, Machiavelli ha modo di adombrarsi quando leggendo
I'Orlando Furioso rileva che I'Ariosto "havendo ricordato tanti poeti" ha lasciato fuori proprio lui. C'è nella Mandragola tutto il gusto di
ironia e di gioco verbale: adopera i moduli e le convenzioni che trova via via sottomano, dal Boccaccio ai latini. Mescola motti e
idiotismi fiorentini con quelli di altri dialetti, ma tipicamente suo é il gusto sardonico. La sua ironia distruttiva consiste in questa
possibilità di equivoco tra il calcolo politico, serio rivolto al bene pubblico, e il meschino computare di vantaggi particolari. Ciò é
reso efficacemente soprattutto in un passo della Mandragola (Atto III, scena 9):

"...lo non so chi I'abbi giuntato I'un I'altro. Questo tristo di Ligurio ne venne a me con quella prima novella per tentarmi, acció se io
non gliene consentivo non mi arebbe detta questa, per non palesare e' disegni loro sanza utile e di quella che era falsa non si
curavono. Egli é vero che io ci sono stato giuntato; nondimeno questo giunto é con mio utile. Messer Nicia e Callimaco son ricchi, e
da ciascuno per diversi rispetti sono per trarre assai; la cosa conviene che stia secreta, perché I'importa così a loro a dirla come a
me. Sia come si voglia, io non me ne pento. E' ben vero che io dubito non ci avere difficoltà, perché madonna Lucrezia é savia e
buona; ma io la giugneró in sulla bontá. E tutte le donne hanno poco cervello". 

E' proprio in quest'opera che esce il Machiavelli che voleva essere comico e far ridere e nel contempo far pensare: gli piaceva
usare I'ironia anche su alcuni argomenti d'ordine politico. La sua é I'ironia dell'uomo buono, conscio della propria rettitudine come
servitore della patria e della propria intelligenza che conosce di non essere senza vizi e bizzarrie di carattere. Lo attesta il fatto che
quest'uomo - tanto devoto alla patria quando viene allontanato dal suo ufficio si tormenta: intanto scrive (e quel che scrive é il suo
capolavoro politico, il Principe) e vorrebbe tanto fosse letto, se ciò accadesse "...si vedrebbe che quindici anni che io sono stato a
studio dell'arte dello stato, non gli ho né dormiti né giuocati... Et della fede mia non si doverebbe dubitare, perché, havendo sempre
observato la fede io non debbo imparare hora a romperla; et chi é stato fedele et buono quarantatré hanni, che io ho, non debbe
poter mutare natura, et della fede et bontà mia ne é testimonio la povertà mia" (Lettere, n. 140, 10 dicembre 1515; pag. 305). 

Sono proprio i temi della sua energia civile, politica e militare e della religione quelli che restano sempre presenti e collegati nelle
sue riflessioni che si trovano nei suoi scritti. L'uomo Machiavelli è compreso nelle sue opere, é uomo che invita all'azione. AI centro
di tutto il suo mondo più che I'Italia c'è Firenze. Ser Niccolò esce quasi sempre dal coro, é contro le interpretazioni e applicazioni
devozionali che in quel periodo cominciarono a diffondersi, ma é pure contrario a quelle interpretazione di tipo profetico. Bene
esprime tale atteggiamento in un canto carnascialesco De' Romiti. 
AI Machiavelli per spiegare le vicende umane non basta la fortuna. Ma ovviamente non manca di stigmatizzare quanti si adoperano
per rompere la pace, per questo se la prende tanto con Lorenzo il Magnifico laddove scrive "nel mezzo di tanta pace..., Lorenzo
posate le armi d'Italia." E ancora nel finale delle Istorie: " ..cominciorono a nascere quegli cattivi semi i quali..., non sendo vivo chi gli
sapesse spegnere, rovinorono e ancora rovinono la Italia". Insomma non c'è solo la fortuna, che per i principi non può essere un
alibi: c'è spesso la loro ignavia, scrive sovente Machiavelli nelle sue opere, oltreché in quella più celebre, se non la sua principale (II
Principe): 

"...per tanto questi nostri principi, che erano stati molti anni nel principato loro, per averlo di poi perso non accusino la fortuna, ma la
ignavia loro: perché, non avendo mai ne' tempi quieti pensato che possono mutarsi (il che è comune defetto degli uomini, non fare
conto nella bonaccia della tempesta), quando poi vennono tempi avversi, pensorono a fuggirsi e non a defendersi; e sperarono
ch'e'populi, infastiditi dalla insolenzia de' vincitori, li richiamassino. II quale partito, quando mancono li altri, é buono; ma é bene male
avere lasciati li altri remedii per quello; perché non si vorrebbe mai cadere, per credere di trovare chi ti ricolga. II che, o non avviene,
o s'elli avviene, non é con tua sicurtá, per essere quella difesa vile e non dependere da te. E quelle difese solamente sono buone,
sono certe, sono durabili, che dependano da te proprio e dalla virtù tua" (Principe, XXIV, p. 98). 

LE OPERE - II Principe é stato scritto in sei mesi, dal luglio al dicembre del 1513, nel bel mezzo dei Discorsi sulla prima deca di
Tito Livio, lasciati difatti in sospeso. L'opera più importante di Machiavelli consta di venticinque capitoli, più una dedica e un
capitolo, il XXVI, che si conclude con un invito "ad capessendam Italiam in libertatemque a barbaris vindicandam" (a conquistare
I'Italia e a riscattarla liberandola dai barbari). Dei Discorsi sopra la prima deca di Tito Livio si é accennato. Tra le opere di
carattere politico-militare e storico, vanno citate L'Arte della guerra, le Istorie fiorentine, La vita di Castruccio Castracani da Lucca,
Legazioni e commissarie, le Lettere. C'è poi l'attività letteraria che comprende le commedie Clizia, la Mandragola, le novelle come il
Belfagor, gli scritti di critica quale il Discorso o dialogo intorno alla nostra lingua, i Decennali, i Capitoli, il poema satirico I'Asino
d'oro, i Canti carnascialeschi, infine, ma non ultime per importanza, le Rime. 
Come si vede, un'attività molto intensa, si potrebbe dire universale, di un personaggio oltreché dotato di cultura capace di
osservare attentamente la vita che gli ruotava attorno, distribuendo elogi (pochi) e critiche (molte) a destra e a manca, sovente con
quel tono satirico e ironico, che é poi il suo stile (machiavellico, appunto, entrato nella terminologia corrente). LA VITA - Niccolò
Machiavelli é nato a Firenze il 3 maggio 1469, figlio di Bernardo e di Bartolomea di Stefano Nelli. Ha abbracciato la carriera
politica, rivestendo I'incarico di segretario della Commissione dei Dieci di Guerra, quindi di diverse altre Commissioni della
Repubblica fiorentina dall9 giugno 1498 al 7 novembre 1512. E' morto a San Casciano nel 1527. E' sepolto nella chiesa di Santa
Croce a Firenze.

 

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