Il Convivio

Una lettura della Poesia contemporanea attraverso le parole di

Giorgio Barberi Squarotti e Walter Pedullà

Interviste di Amalia Maria Amendola, Angelo Manitta e Giuseppe Manitta


Idea, ispirazione, emozione nella letteratura. Intervista a Walter Pedullà di Amalia Maria Amendola

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“Il Convivio”
Walter Pedullà
Il XX secolo è stato forse il secolo dei Manifesti letterari. Ma oggi, nel XXI secolo, ha ancora un senso farne di nuovi? E soprattutto potranno aprire ad una nuova letteratura? È possibile un taglio con il passato come è avvenuto tra romanticismo e classicismo, tra illuminismo e manierismo? L’obiettivo che il Convivio si propone è quello di avviare un ampio dibattito su un eventuale manifesto letterario che possa coinvolgere e rispecchiare la volontà degli artisti del XXI secolo. Per capire ciò è bene coinvolgere esperti critici da una parte e giovani scrittori dall’altra. Tra i critici, che abbiamo contattato per questo numero del Convivio, oltre a Giorgio Barberi Squarotti, è Walter Pedullà.
Professor Pedullà[1], ci dica, com’è nata la sua rivista il Caffè illustrato e a quale pubblico si rivolge?
È una rivista metà e metà, testo ed immagini. Le immagini possono essere delle foto, ma la maggior parte sono delle illustrazioni a colori di disegnatori o illustratori pure di professione, bravissimi, come Cicarè, che sono chiamati a rappresentare i classici, l’Iliade, l’Odissea, poi La chanson de Roland, ci sarà l’Eneide nel prossimo numero, poi c’è stato il Don Quichotte e Il Codice di Perelà di Palazzeschi che è un trasferimento rapido nel Novecento. Il titolo della rivista nasce dal Caffè, perché io sono stato collaboratore, condirettore del Caffè di Vicari. All’inizio ero partito insieme con Celati e Cavazzoni con l’intenzione di rifare il Caffè, ma ci è stato impossibile riproporre il titolo come fosse una nuova serie perché gli eredi non davano il diritto di usarlo. E allora è nato il Caffè Illustrato, con più illustra-zioni, il che ci obbliga a fare dei pezzi più brevi, fino a diventare didascalie delle foto. La gente ama scorrere i giornali tante volte senza soffermarsi a leggerli, e allora questa rivista è nata con questa formula, che risulta essere vincente specialmente in un punto: i dossier, che sono delle fotobiografie degli autori, di cui i familiari ci raccontano la vita attraverso le foto, evidenziando i momenti più significativi. E, con l’aria di registrare dei fatti, raccontano invece delle storie, da cui vengono fuori il carattere dell’uomo, a sostegno della parte critica. Nei dossier ci sono dei saggi, e poi degli inediti o scritti dispersi degli autori. È una rivista che si rivolge a tutti. La si trova nella Feltrinelli, nel circuito Arion e cerchiamo di diffonderla. Deve essere come succede tante volte per i giornali, che sono fatti per tutti, eppure alcuni non leggono le pagine sportive, alcuni non leggono le pagine mediche, alcuni non leggono le pagine culturali, ma tutto può essere comprensibile per tutti. L’operazione ha un’evidente ambizione: con la semplicità fare delle cose molto complicate, con la superficialità fare delle cose anche un po’ profonde, e con il gioco fare delle cose serie.
Si potrebbe definire il riso, il comico, la chiave di lettura non solo della sua rivista e dei suoi scritti ma della realtà stessa e del mondo negli anni a cavallo tra il XX e XXI secolo?
La propensione originaria era per il comico perché siamo partiti da un dato di fatto. Io sono uno che ha dedicato studi al comico a partire da un lungo capitolo nella Storia generale della letteratura italiana, di cui sono direttore con Nino Borsellino, edita da Motta e Rizzoli, fino ad un libro che si chiama Le armi del comico che è uscito l’anno scorso per Mondadori. In più ho una mia propensione verso gli scrittori della comicità o almeno per scrittori che non sono sempre comici ma che io analizzo nella fase in cui lo sono, il primo Palazzeschi, il primo Bontempelli, l’ultimo Svevo, il primo Zavattini, certo Landolfi o una fase intermedia di Calvino, Campanile. Gli scrittori, diciamo, da Zavattini a Malerba, da Arbasino a Manganelli, da Celati a Benni... osservati nei vari gradi della comicità, che sia l’ironia o l’umorismo, la parodia o la farsa, la caricatura, o il gioco, quello più disinvolto e quello più leggero, autoreferenziale fino all’assurdo. Non dimenticando che il comico è l’altra faccia del tragico. Del resto, Max Checov diceva: «I grandi comici non ridono mai».
Quanta influenza hanno avuto su di lei i manifesti delle Avanguardie storiche del ‘900 e il manifesto di Palazzeschi Il Controdolore?
Diceva Palazzeschi: «Bisogna abituarsi a ridere di tutto quello di cui abitualmente si piange». Ridere anche ai funerali... Nella teoria del comico due linee partono dal Futurismo, quella del Controdolore di Palazzeschi, e quella del Teatro di varietà di Marinetti. Da quest’ultima faccio partire una comicità che va fino all’assurdo, dalla prima quella dell’umorismo, di altro spessore. Il comico, il gioco, il fantastico, il plurilinguismo, prima o poi anche queste eccezioni rientreranno nella norma e faranno pace con il sistema culturale. La comicità è un atto difforme e di deformazione, modificazione del sistema, però è un’operazione che si compie sul tempo lungo della tradizione e che poi, invece di essere un elemento contro la tradizione, si va ad inserire dentro una tradizione modificata di cui è stato corretto un connotato. Come succede alla cultura: non è che cambia tutto radicalmente, ma si aggiunge qualcosa che prima non poteva essere, e che la storia ha fatto maturare, o la scoperta di un linguaggio ha fatto capire. Alla fine noi siamo sempre dentro un’istituzione che è lo scrivere in italiano, il raccontare in italiano, o il raccontare di tutta l’Europa o il mondo, quindi dentro s’inserisce l’elemento dissonante, che viene assorbito, non rigettato, perché la cultura è in grado di assorbirlo arricchendosi. Quindi la frattura viene ricucita, ma il fatto che resti anche la cicatrice è già un segno che si è prodotto nei confronti della tradizione qualcosa, una ferita che ha messo nelle condizioni la tradizione di farsi bella, un’azione cosmetica, che è appunto capacità anche di assorbire il brutto, che può essere il fantastico, la comicità, la maschera comica.
Ci dia una definizione di manifesto o delle indicazioni per un manifesto artistico-letterario che possa rispecchiare le idee di molti...
Un manifesto è un testo che concentra in alcune frasi, nel caso dei futuristi rinvia persino alle conclusioni in grassetto, una teoria della letteratura in forma molto sintetica, indica delle proiezioni d’ordine politico-morale, cioè riassume, nei vari punti in cui si articola, una teoria generale, fatta attraverso delle espressioni essenziali. Nel caso dei futuristi, il grassetto finale diventa imperativo, il manifesto diventa l’ordine di fare una determinata cosa. Possono essere anche i più liberali, quelli che fanno il manifesto, ma se fanno degli interdetti (questo non lo puoi fare, questo lo devi fare), allora il manifesto è pericoloso. È un elemento attivo culturalmente perché fa nascere una spinta in una determinata direzione, ma in altri termini può essere anche pericoloso, sia perché dice sì troppo nettamente sia perché dice no troppo nettamente.
Giulio Ferroni, nel capitolo Ideologie e forme culturali nel tempo del postmoderno sulla sua Storia della letteratura italiana, Einaudi, scrive: «I nuovi scrittori non presentano quasi mai programmi dichiarati orientati e definiti, si affidano per lo più alla scrittura in modo quasi spontaneo, spesso sottraendosi deliberatamente a ogni coscienza critica». Secondo lei, è possibile oggi un’aggregazione di artisti e letterati?
Secondo me è difficile. Se ne fanno, ogni tanto, ma non funzionano quasi più. Perché ci sono delle stagioni forti con un pensiero forte, e da lì nasce il manifesto (perché il manifesto nasce sempre dall’idea di una grande rivolta), che dice di andare in una determinata direzione. In questo momento, siamo tutti a operare come la rosa dei venti, in tutte le direzioni possibili, seguendo le strategie di fondo del post-moderno. Un manifesto quando nasce, se funziona, aggrega in un doppio modo: funziona perché alcuni aderiscono, e perché altri si oppongono, allora l’attrito è un fatto positivo. Se mi chiedono se è bene che ci sia un manifesto, io direi di sì, perché crea conflitto e anche si approfondisce l’indagine. Quelli che sono contrari alle poetiche, ai movimenti, ai manifesti, dicono invece: perché vi state a domandare per forza dove stavamo andando? Lo capiremo più tardi... Può darsi che la direzione di questi scrittori che non riusciamo ad individuare, la capiremo poi, dalla frequenza, per cui una determinata cosa che tanti scrittori stavano facendo, diventa un connotato di un’epoca, non più soltanto personale.
Cosa ne pensa di un possibile superamento del postmoderno? E della ripresa della forma del poema-romanzo?
Francamente mi sento così disponibile, voglio vedere come funziona. Se uno scrive un poema-romanzo come La camera da letto di Bertolucci, mi sta bene, o se scrive un poema in versi che è un romanzo in sé come la Ragazza Carla di Pagliarani, mi sta pure bene. Ci sono tanti che l’hanno pure fatto (come i racconti in versi, di Guido Goz-zano), e quindi c’è una tradizione, e poi non è forse un romanzo in versi l’Orlando Furioso? Ho l’impressione che uno dei modi possibili della poesia, è vero, possa anche essere il poema-romanzo. Non ci sono degli inconvenienti, perché gli scrittori che operano in questo momento sono costretti a saggiare tutti i modi possibili, più un’altra cosa che possono inventare. Per cui, uno s’interroga persino sulle strutture chiuse, oppure su quelle aperte, o sul verso libero, o trova la rima in funzione ironica (perché alcuni la recuperano e ci giocano per riderne). Ci sono degli scrittori che, secondo me, hanno questo elemento lirico forte, ma sono dei narratori, per esempio il caso più forte è quello di Volponi, un poeta, un lirico, che scrive dei romanzi.
La letteratura e l’arte possono incidere sulla realtà?
Non di proposito, ma per equivoco. La prova è nel fatto stesso che mentre uno legge si emoziona, e crede che nell’emozione ci sia anche un’idea, un’ispirazione, una spinta. Ecco, altro che se la letteratura può incidere... ma non deve tanto proporselo. È la forza delle emozioni. Un artista ci ha fatto capire una cosa che non sapevamo di essere o di avere. Ci sono di quelli che quando leggono dopo un po’ si trovano ad aver acquisito due cose: un po’ di concetti e soprattutto una serie di comportamenti, modi di esprimersi, e quando un modo di esprimersi diventa egemone, altroché se diventa realtà! L’atto culturale è quello che indaga continuamente sul modo di esprimersi, e allora a quel punto non è l’arte, a quel punto è la comunicazione, e tra la comunicazione e l’arte ce ne passa. I grandi libri sono quelli per cui eri in un modo, e, a un certo punto, li leggi e ti accorgi che sei diverso perché ti è stata fatta capire una cosa che prima non avevi capito.
L’arte contemporanea può avvalersi della tecno-logia, ma la letteratura quale strada dovrebbe seguire per innovarsi e creare nuovi linguaggi?
Se serve, pure la tecnologia, non è male. Poliprospettivismo, o procedimento onirico, la trascrizione di un sogno. Il disordine è già una forma. Se composta, diventa un linguaggio. Nell’ipotesi con cui hanno lavorato le prime avanguardie, l’informe non è il contrario della forma ma è una forma particolare, perché parla dalla parte dell’arbitrio, di una parte di un altro che non può essere irreggimentata nella sintassi. E poi la tecnologia, certo, il montaggio o tecniche del montaggio che non sono di origine letteraria, eppure gli scrittori fanno montaggi, oppure la tecnica del racconto che si riscrive come se fosse con un replay, per esempio nel caso di Malerba che prendeva una scena e la rifaceva all’indietro.
Ha mai scritto poesie, racconti…?
Niente, neppure quando mi innamoravo, non mi venivano versi, sempre in prosa... e non ho raccontato mai. L’unica cosa che posso pensare è che ogni tanto mentre faccio la critica, racconto, perché è un modo di partire da un punto ed arrivare ad un altro. E poi sono propenso, mentre racconto, a variazioni, digressioni. È un raccontare, la critica: io, invece di parlare di persone, parlo di personaggi. Scrivere deve essere vissuto come un grande vizio, un’esperienza radicale. Io ricordo ogni tanto una frase bellissima di Baudelaire: «Oggi tutti scrivono bene, e ciò è detestabile» cioè non basta scrivere bene come fa una grande civiltà, il punto è oltre, se no si dicono delle cose che sono nell’ordine del sistema linguistico egemone.

[1] Docente di Letteratura italiana moderna e contemporanea dell’Università “la Sapienza” di Roma. Critico letterario dell’Avanti! Direttore della rivista di cultura L’Illuminista e con A. Cavazzoni e G. Celati de il Caffè Illustrato.