Walter Pedullà |
- Il XX secolo è stato forse il secolo
dei Manifesti letterari. Ma oggi, nel XXI secolo, ha ancora un senso
farne di nuovi? E soprattutto potranno aprire ad una nuova letteratura?
È possibile un taglio con il passato come è avvenuto tra romanticismo e
classicismo, tra illuminismo e manierismo? L’obiettivo che il
Convivio si propone è quello di avviare un ampio dibattito su un
eventuale manifesto letterario che possa coinvolgere e rispecchiare la
volontà degli artisti del XXI secolo. Per capire ciò è bene coinvolgere
esperti critici da una parte e giovani scrittori dall’altra. Tra i
critici, che abbiamo contattato per questo numero del Convivio,
oltre a Giorgio Barberi Squarotti, è Walter Pedullà.
- Professor
Pedullà,
ci dica, com’è nata la sua rivista il Caffè illustrato e a quale
pubblico si rivolge?
- È una
rivista metà e metà, testo ed immagini. Le immagini possono essere delle
foto, ma la maggior parte sono delle illustrazioni a colori di disegnatori
o illustratori pure di professione, bravissimi, come Cicarè, che sono
chiamati a rappresentare i classici, l’Iliade, l’Odissea,
poi La chanson de Roland, ci sarà l’Eneide nel prossimo
numero, poi c’è stato il Don Quichotte e Il Codice di Perelà
di Palazzeschi che è un trasferimento rapido nel Novecento. Il titolo
della rivista nasce dal Caffè, perché io sono stato collaboratore,
condirettore del Caffè di Vicari. All’inizio ero partito insieme
con Celati e Cavazzoni con l’intenzione di rifare il Caffè, ma ci è
stato impossibile riproporre il titolo come fosse una nuova serie perché
gli eredi non davano il diritto di usarlo. E allora è nato il Caffè
Illustrato, con più illustra-zioni, il che ci obbliga a fare dei pezzi
più brevi, fino a diventare didascalie delle foto. La gente ama scorrere i
giornali tante volte senza soffermarsi a leggerli, e allora questa rivista
è nata con questa formula, che risulta essere vincente specialmente in un
punto: i dossier, che sono delle fotobiografie degli autori, di cui i
familiari ci raccontano la vita attraverso le foto, evidenziando i momenti
più significativi. E, con l’aria di registrare dei fatti, raccontano
invece delle storie, da cui vengono fuori il carattere dell’uomo, a
sostegno della parte critica. Nei dossier ci sono dei saggi, e poi degli
inediti o scritti dispersi degli autori. È una rivista che si rivolge a
tutti. La si trova nella Feltrinelli, nel circuito Arion e cerchiamo di
diffonderla. Deve essere come succede tante volte per i giornali, che sono
fatti per tutti, eppure alcuni non leggono le pagine sportive, alcuni non
leggono le pagine mediche, alcuni non leggono le pagine culturali, ma
tutto può essere comprensibile per tutti. L’operazione ha un’evidente
ambizione: con la semplicità fare delle cose molto complicate, con la
superficialità fare delle cose anche un po’ profonde, e con il gioco fare
delle cose serie.
- Si
potrebbe definire il riso, il comico, la chiave di lettura non solo della
sua rivista e dei suoi scritti ma della realtà stessa e del mondo negli
anni a cavallo tra il XX e XXI secolo?
- La
propensione originaria era per il comico perché siamo partiti da un dato
di fatto. Io sono uno che ha dedicato studi al comico a partire da un
lungo capitolo nella Storia generale della letteratura italiana, di
cui sono direttore con Nino Borsellino, edita da Motta e Rizzoli, fino ad
un libro che si chiama Le armi del comico che è uscito l’anno
scorso per Mondadori. In più ho una mia propensione verso gli scrittori
della comicità o almeno per scrittori che non sono sempre comici ma che io
analizzo nella fase in cui lo sono, il primo Palazzeschi, il primo
Bontempelli, l’ultimo Svevo, il primo Zavattini, certo Landolfi o una fase
intermedia di Calvino, Campanile. Gli scrittori, diciamo, da Zavattini a
Malerba, da Arbasino a Manganelli, da Celati a Benni... osservati nei vari
gradi della comicità, che sia l’ironia o l’umorismo, la parodia o la
farsa, la caricatura, o il gioco, quello più disinvolto e quello più
leggero, autoreferenziale fino all’assurdo. Non dimenticando che il comico
è l’altra faccia del tragico. Del resto, Max Checov diceva: «I grandi
comici non ridono mai».
- Quanta
influenza hanno avuto su di lei i manifesti delle Avanguardie storiche del
‘900 e il manifesto di Palazzeschi Il Controdolore?
- Diceva
Palazzeschi: «Bisogna abituarsi a ridere di tutto quello di cui
abitualmente si piange». Ridere anche ai funerali... Nella teoria del
comico due linee partono dal Futurismo, quella del Controdolore di
Palazzeschi, e quella del Teatro di varietà di Marinetti. Da quest’ultima
faccio partire una comicità che va fino all’assurdo, dalla prima quella
dell’umorismo, di altro spessore. Il comico, il gioco, il fantastico, il
plurilinguismo, prima o poi anche queste eccezioni rientreranno nella
norma e faranno pace con il sistema culturale. La comicità è un atto
difforme e di deformazione, modificazione del sistema, però è
un’operazione che si compie sul tempo lungo della tradizione e che poi,
invece di essere un elemento contro la tradizione, si va ad inserire
dentro una tradizione modificata di cui è stato corretto un connotato.
Come succede alla cultura: non è che cambia tutto radicalmente, ma si
aggiunge qualcosa che prima non poteva essere, e che la storia ha fatto
maturare, o la scoperta di un linguaggio ha fatto capire. Alla fine noi
siamo sempre dentro un’istituzione che è lo scrivere in italiano, il
raccontare in italiano, o il raccontare di tutta l’Europa o il mondo,
quindi dentro s’inserisce l’elemento dissonante, che viene assorbito, non
rigettato, perché la cultura è in grado di assorbirlo arricchendosi.
Quindi la frattura viene ricucita, ma il fatto che resti anche la
cicatrice è già un segno che si è prodotto nei confronti della tradizione
qualcosa, una ferita che ha messo nelle condizioni la tradizione di farsi
bella, un’azione cosmetica, che è appunto capacità anche di assorbire il
brutto, che può essere il fantastico, la comicità, la maschera comica.
- Ci dia
una definizione di manifesto o delle indicazioni per un manifesto
artistico-letterario che possa rispecchiare le idee di molti...
- Un manifesto
è un testo che concentra in alcune frasi, nel caso dei futuristi rinvia
persino alle conclusioni in grassetto, una teoria della letteratura in
forma molto sintetica, indica delle proiezioni d’ordine politico-morale,
cioè riassume, nei vari punti in cui si articola, una teoria generale,
fatta attraverso delle espressioni essenziali. Nel caso dei futuristi, il
grassetto finale diventa imperativo, il manifesto diventa l’ordine di fare
una determinata cosa. Possono essere anche i più liberali, quelli che
fanno il manifesto, ma se fanno degli interdetti (questo non lo puoi fare,
questo lo devi fare), allora il manifesto è pericoloso. È un elemento
attivo culturalmente perché fa nascere una spinta in una determinata
direzione, ma in altri termini può essere anche pericoloso, sia perché
dice sì troppo nettamente sia perché dice no troppo nettamente.
- Giulio
Ferroni, nel capitolo Ideologie e forme culturali nel tempo del
postmoderno sulla sua Storia della letteratura italiana,
Einaudi, scrive: «I nuovi scrittori non presentano quasi mai programmi
dichiarati orientati e definiti, si affidano per lo più alla scrittura in
modo quasi spontaneo, spesso sottraendosi deliberatamente a ogni coscienza
critica». Secondo lei, è possibile oggi un’aggregazione di artisti e
letterati?
- Secondo me è
difficile. Se ne fanno, ogni tanto, ma non funzionano quasi più. Perché ci
sono delle stagioni forti con un pensiero forte, e da lì nasce il
manifesto (perché il manifesto nasce sempre dall’idea di una grande
rivolta), che dice di andare in una determinata direzione. In questo
momento, siamo tutti a operare come la rosa dei venti, in tutte le
direzioni possibili, seguendo le strategie di fondo del post-moderno. Un
manifesto quando nasce, se funziona, aggrega in un doppio modo: funziona
perché alcuni aderiscono, e perché altri si oppongono, allora l’attrito è
un fatto positivo. Se mi chiedono se è bene che ci sia un manifesto, io
direi di sì, perché crea conflitto e anche si approfondisce l’indagine.
Quelli che sono contrari alle poetiche, ai movimenti, ai manifesti, dicono
invece: perché vi state a domandare per forza dove stavamo andando? Lo
capiremo più tardi... Può darsi che la direzione di questi scrittori che
non riusciamo ad individuare, la capiremo poi, dalla frequenza, per cui
una determinata cosa che tanti scrittori stavano facendo, diventa un
connotato di un’epoca, non più soltanto personale.
- Cosa ne
pensa di un possibile superamento del postmoderno? E della ripresa della
forma del poema-romanzo?
- Francamente
mi sento così disponibile, voglio vedere come funziona. Se uno scrive un
poema-romanzo come La camera da letto di Bertolucci, mi sta bene, o
se scrive un poema in versi che è un romanzo in sé come la Ragazza
Carla di Pagliarani, mi sta pure bene. Ci sono tanti che l’hanno pure
fatto (come i racconti in versi, di Guido Goz-zano), e quindi c’è una
tradizione, e poi non è forse un romanzo in versi l’Orlando Furioso?
Ho l’impressione che uno dei modi possibili della poesia, è vero, possa
anche essere il poema-romanzo. Non ci sono degli inconvenienti, perché gli
scrittori che operano in questo momento sono costretti a saggiare tutti i
modi possibili, più un’altra cosa che possono inventare. Per cui, uno
s’interroga persino sulle strutture chiuse, oppure su quelle aperte, o sul
verso libero, o trova la rima in funzione ironica (perché alcuni la
recuperano e ci giocano per riderne). Ci sono degli scrittori che, secondo
me, hanno questo elemento lirico forte, ma sono dei narratori, per esempio
il caso più forte è quello di Volponi, un poeta, un lirico, che scrive dei
romanzi.
- La
letteratura e l’arte possono incidere sulla realtà?
- Non di
proposito, ma per equivoco. La prova è nel fatto stesso che mentre uno
legge si emoziona, e crede che nell’emozione ci sia anche un’idea,
un’ispirazione, una spinta. Ecco, altro che se la letteratura può
incidere... ma non deve tanto proporselo. È la forza delle emozioni. Un
artista ci ha fatto capire una cosa che non sapevamo di essere o di avere.
Ci sono di quelli che quando leggono dopo un po’ si trovano ad aver
acquisito due cose: un po’ di concetti e soprattutto una serie di
comportamenti, modi di esprimersi, e quando un modo di esprimersi diventa
egemone, altroché se diventa realtà! L’atto culturale è quello che indaga
continuamente sul modo di esprimersi, e allora a quel punto non è l’arte,
a quel punto è la comunicazione, e tra la comunicazione e l’arte ce ne
passa. I grandi libri sono quelli per cui eri in un modo, e, a un certo
punto, li leggi e ti accorgi che sei diverso perché ti è stata fatta
capire una cosa che prima non avevi capito.
- L’arte
contemporanea può avvalersi della tecno-logia, ma la letteratura quale
strada dovrebbe seguire per innovarsi e creare nuovi linguaggi?
- Se serve,
pure la tecnologia, non è male. Poliprospettivismo, o procedimento
onirico, la trascrizione di un sogno. Il disordine è già una forma. Se
composta, diventa un linguaggio. Nell’ipotesi con cui hanno lavorato le
prime avanguardie, l’informe non è il contrario della forma ma è una forma
particolare, perché parla dalla parte dell’arbitrio, di una parte di un
altro che non può essere irreggimentata nella sintassi. E poi la
tecnologia, certo, il montaggio o tecniche del montaggio che non sono di
origine letteraria, eppure gli scrittori fanno montaggi, oppure la tecnica
del racconto che si riscrive come se fosse con un replay, per esempio nel
caso di Malerba che prendeva una scena e la rifaceva all’indietro.
- Ha mai
scritto poesie, racconti…?
- Niente,
neppure quando mi innamoravo, non mi venivano versi, sempre in prosa...
e non ho raccontato mai. L’unica cosa che posso pensare è che ogni tanto
mentre faccio la critica, racconto, perché è un modo di partire da un
punto ed arrivare ad un altro. E poi sono propenso, mentre racconto, a
variazioni, digressioni. È un raccontare, la critica: io, invece di
parlare di persone, parlo di personaggi. Scrivere deve essere vissuto
come un grande vizio, un’esperienza radicale. Io ricordo ogni tanto una
frase bellissima di Baudelaire: «Oggi tutti scrivono bene, e ciò è
detestabile» cioè non basta scrivere bene come fa una grande civiltà, il
punto è oltre, se no si dicono delle cose che sono nell’ordine del
sistema linguistico egemone.
Docente di Letteratura italiana
moderna e contemporanea dell’Università “la Sapienza” di Roma. Critico
letterario dell’Avanti! Direttore della rivista di cultura
L’Illuminista e con A. Cavazzoni e G. Celati de il
Caffè Illustrato.
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