Il Convivio

Una lettura della Poesia contemporanea attraverso le parole di

Giorgio Bárberi Squarotti e Walter Pedullà

Interviste di Amalia Maria Amendola, Angelo Manitta e Giuseppe Manitta


Letteratura: verso dove? Intervista a Giorgio Bàrberi Squarotti

di Angelo e Giuseppe Manitta

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“Il Convivio”
Giorgio Bárberi Squarotti

 Dopo l’incontro-intervista con Gavino Ledda, l’au-tore di “Padre padrone”, pubblicata sul numero precedente del “Convivio”, abbiamo contattato uno dei maggiori critici italiani contemporanei, Giorgio Bàrberi Squarotti. Il motivo? Molto semplice. Dopo aver sentito come un autore costrui-sce la propria lingua e la propria opera, diamo la parola allo specialista, quasi in un tentativo di confrontare creatività e critica: due forme espressive che partono dallo stesso punto per raggiungere obiettivi opposti: razionalità ed emotività. E forse nessuno meglio di Squarotti potrebbe venirci in aiuto, dal momento in cui, oltre ad essere critico, è pure poeta. Al suo attivo conta, infatti, numerosi volumi di versi, il più recente è dell’anno scorso.

Giorgio Bàrberi Squarotti insegna all’università di Torino. Ha collaborato e collabora con note case editrici ed è condirettore delle riviste “Lettere italiane” e “Astolfo”. Dal 1960, quando venne pubblicato il testo “Astrazione e realtà”, numerosi sono stati i suoi testi critici che riguardano figure e tempi della letteratura italiana, da Dante al Manzoni, dal Petrarca al Marino, dall’Ariosto al Tasso, dal Boccaccio al D’Annunzio, dal Pascoli a Sbarbaro, a Campana, a Pavese, a Gozzano e molti altri autori contemporanei. Un moto pendolare contraddistingue la sua struttura critico-letteraria. L’oscillazione costante e dettagliata si risolve in una sintesi incisiva, in uno scandaglio esauriente dell’opera e dell’autore.

Ogni autore spesso si chiede quale sia la funzione e la valenza della letteratura oggi. Nel Novecento, più che nei secoli precedenti, si assiste ad un pullulare di poeti, artisti e scrittori, ma sembra che i movimenti artistico-letterari innovatori siano ormai diventati sterili e si viva un periodo di ristagnazione creativa. Nel corso dei secoli ogni epoca ha enunciato dei principi artistico-letterari, sono nati dei movi-menti, si sono create delle correnti fino alle Avanguardie. Queste ultime danno libertà di scelta contenutistica, espressiva, metrica, stilistica. Ma è davvero così? La letteratura è certo un fenomeno in continua evoluzione. Comunque, interpellando un “addetto ai lavori”, chiediamo al Prof. Squarotti:

Visto che i suoi interessi critici vertono, tra l’altro, sulla poesia del Novecento, Lei pensa che il poco interesse dei lettori di oggi verso la poesia sia dovuto allo strapotere del romanzo o è la poesia che andrebbe rinnovata nella forma strutturale e contenutistica?

Non credo affatto che scarso oggi sia l’interesse nei confronti della poesia: direi, anzi, è l’opposto, tanto è vero che molto numerosi sono i poeti e, correlativamente, coloro che li leggono. Se si dà uno sguardo generale sul nostro Novecento, si può verificare quanti siano la durata e l’esemplare valore dei nostri poeti, di quelli altissimi, fondamentali, a confronto delle altre lingue, là dove più limitata è la quantità dei narratori che possono ambire alla stessa proclamazione. Non bisogna lasciarsi sviare dalle mode e dalla pubblicità: i romanzieri, a parte i pochi strenuamente duraturi, non reggono più di una stagione; in fretta appaiono, sono recensiti, sono premiati, e molto più in fretta sono dimenticati. Il destino dei romanzi d’oggi è uguale a quello degli autori mediocri e vani che l’Ariosto e il Marino vedono nei loro poemi mentre il vento oppure le acque di un rivo si portano via le opere e nessuno più ne ricorda il nome. Ecco: la maggior parte dei narratori d’ora ha nomi subito dimenticati, e nessuno più ricorda che cosa abbiano scritto. La narrativa è un genere che è arrivato al limite delle peggiori ripetizioni: non che avere uno strapotere, è così fragile da non reggere al minimo tempo.

La letteratura, si tratti della poesia come della narrativa o della critica e di ogni altro genere, non è da tutti: è una vocazione, che è, come diceva Fortini, non necessaria ma fondamentale, perché, senza, comporta la perdita di conoscenza, comprensione, arricchimento della mente e, in genere, della vita. È vero che la narrativa, comportando un riscontro economico (ma non è poi cosa tanto significativa), è sostenuta dalla pubblicità, ma non mi sembra che sia una faccenda molto importante. Se mai, la pubblicità finisce a renderla simile ai detersivi e ai profumi, e mi pare proprio che non ha da rallegrarsene (e, infatti, i narratori autentici non se ne rallegrano affatto). Quanto a pensare che si debba discorre della necessità del rinnovamento “strutturale e contenutistico” della poesia, mi sembra un discorso senza senso. La poesia è quel che è, e nessuno può correggerla e modificarla. Dice il Berni, nel capitolo dedicato al Gradasso, buffone del cardinale Ippolito de’ Medici, che «la poesia è come quella cosa / bizzarra, che bisogna star con lei, / che si rizza a sua posta, e leva, e posa». Le forme della poesia hanno un’evoluzione che si può giudicare soltanto dopo che il poeta ha scritto: se ci troviamo di fronte a imitatori e a inetti, oppure a innovatori, non nel senso dell’assoluta originalità, che non esiste, ma della gara con i poeti del passato oppure contemporanei in forza delle reinvezioni, delle citazioni, delle ulteriori creazioni a faccia a faccia con gli altri autori di esemplare o sublime invenzioni.

Eugenio Montale diceva che «la poesia si vende come e meglio degli altri generi letterari», ma oggi i tempi sono cambiati. Perché, secondo lei, la poesia degli autori emergenti (per non dire in genere di qualunque libro) non si vende?

Non ha nessuna importanza che la poesia si venda oppure no: è un discorso che mi dà fastidio, mi sembra (posso dirlo?) un poco volgare, non perché il valore economico non abbia un significato autentico, ma perché la misura dell’arte, di tutte le arti di conseguenza non può essere e non è mai stata il guadagno, la vendita. La poesia non ha mai, in sé, comportato i vantaggi economici: tanto per fare un esempio mitico, Omero era povero, cieco, mendico, eppure i suoi poemi rimangono letti e imparati, e lo stesso si può dire di Dante o dell’Ariosto. Se ci sono, oggi, “poeti emergenti” o no, se valgono o no, si può sapere soltanto dopo le adeguate letture e i giudizi critici, ma anche in base alla tenacia, al sacrificio, all’impegno dello scrivere. Non basta aver scritto qualche verso o qualche libro, come troppi credono (i giovani, soprattutto). Montale, quando pubblicò il primo volume di versi, ebbe come editore un critico e un teorico della politica, e nessuno o quasi se ne accorse allora, ed esiguo era il numero delle copie stampate.

La poesia italiana sembra essersi fossilizzata all’ermetismo e alle avanguardie. Se questi movimenti avevano intrinseci obiettivi di rinnovamento o di protesta, oggi non sarebbe meglio mettere da parte le proteste e dare una struttura più comunicativa alla poesia?

Non mi sembra affatto che la nostra poesia sia “fos-silizzata”. L’ermetismo, tanto per parlare del termine quanto mai generico, è da molto tempo fissato nella sua storicità, sia come periodo, sia come autori, tuttavia tutti riferibili ad un momento soltanto della loro vicenda (parlo, per esempio, di Luzi, di Parronchi, di Bigongiari, ecc.). Il che non vuole dire che, dopo, non si possano (anzi, si debbano, necessariamente) avere citazioni e forme ermetiche, ma in quanto ogni scrittura poetica è anche citazione e ricreazione di modi e autori del passato. Si pensi, per esempio, alle tante riscritture petrarchesche del Tasso, dell’Alfieri, del Leopardi, di Ungaretti. Quanto alle avanguardie, anch’esse appartengono ad un periodo preciso della nostra storia poetica: gli anni fra il 1960 e il 1970-80, e, in seguito, anche il maggiore poeta d’avanguardia, Sanguineti, che è uno dei sommi del Nove-cento, ha ben mutato modi e discorso, fino a diventare quasi crepuscolare. Oggi la “protesta” come poesia non esiste, se non in qualche provinciale ritardo. La poesia, infine, non può essere, per propria scelta e progetto, “comunicativa” come programma. Tocca al lettore capire e impegnarsi a sapere. Sono forse “comunicativi” nel senso della “facilità” Catullo o Dante, Petrarca e Leopardi o i massimi del Nove-cento, come Pascoli, D’Annunzio, Ungaretti, Montale? È necessario che ci siano adeguati commentatori ed esplicatori, perché il lettore possa comprendere adeguatamente le intenzioni e le forme della poesia. In sé, il discorso della comunicatività come opportunità o dovere è senza senso.

La letteratura del passato è stata in gran parte predominata dal poema. Quasi, per dirla con Ovidio, ogni uomo tutto ciò che tentava di dire era verso. Si potrebbe dare una maggiore valenza a tale forma espressiva fondendo il poema classico e il romanzo in un genere nuovo, che sia tra la “poesia pura”, la poesia epica, la narrazione romanzesca? Questo renderebbe la poesia più comunicativa? Se Proust avesse scritto il suo romanzo “Alla ricerca del tempo perduto” in un misto tra prosa e poesia, avrebbe ottenuto maggiori effetti?

In realtà, anche in passato ci sono stati molti generi di prosa in alternativa rispetto alle forme della poesia: i poemi (assolutamente non esclusivi, nelle lingue greca e latina, come genere), la lirica, la didascalica, la tragedia, la commedia, ecc. penso al dialogo (con Platone al culmine), all’orazione, al trattato, allo stesso romanzo, tuttavia molto meno significativo rispetto agli altri generi di prosa, ecc. Ciascun genere ha le sue norme e le sue forme: inventarne di nuovi mi pare alquanto bizzarro e anche inutile o peggio, cioè un guaio e un gravissimo errore di prospettiva e di concreta conoscenza della letteratura com’è. Non capisco che senso abbia fondere la poesia pura, l’epica, il romanzo: tanto più, poi, che esempi del genere già esistono, come i due “Orlandi” in Italia oppure il “Roman de la Rose” in Francia oppure il “Faust” di Goethe. Rabbrividisco, infine, sentendo parlare della recherche scrivibile fra prosa e verso. Ma è già una perfetta congiunzione di verso e prosa! Non bisogna lasciarsi sviare dalla diversità di verso e prosa come se fosse un problema di generi! Ciascun opera letteraria ha un’assoluta identità e verità ed è del tutto vano immaginare come si sarebbe potuto scrivere in altre forme e strutture.

La poesia italiana contemporanea, se confrontata a quella europea, sotto certi aspetti si può considerare di tono minore, pur non mancando poeti di altissima levatura. Si ha l’impressione che la poesia italiana si sia fossilizzata. La lettura di poeti e scrittori stranieri po-trebbe dare un forte input alla nostra letteratura? E quali autori sarebbero da consigliare?

La nostra poesia del novecento non è assolutamente “minore” rispetto a quella delle altre letterature, anzi, come già ho accennato, presenta culmini altissimi; anche molto significativa è quella di una misura minore. È ovvio che sia i poeti d’ora sia la critica debbano leggere i poeti d’altre lingue; ma è quello che fanno poeti e critici degni di questo nome. Gli altri non contano. La nostra poesia (ripeto) non è affatto “fossilizzata”; anzi è vero il contrario. Quanto ai poe-ti “stranieri” (è un’altra espressione che mi dispiace molto: non c’é diversità se si parla di lezione e valore di poesia), posso soltanto dire che amo più intensamente Eliot, Pound, Stevens, Garcìa Lorca, Rilke, Antonio Machado, Valèry, Yats, Benn, Celan, Kavafis, Dickinson, Auden, Attila, Holan (e altri ancora: la smetto per rendere l’elenco troppo folto).

Letteratura e politica, che spesso sono andate a braccetto, pur apparentemente mantenendo una propria autonomia, possono ancora oggi convivere? Cioè si può fare letteratura, esprimendo una concezione politica?

Letteratura e politica non sono mai andate “a braccetto”, se non nei casi peggiori della propaganda, fosse stato il caso di Tirteo oppure degli autori invitati a celebrare le magnifiche sorti dei vari regimi dittatoriali o, comunque, dei partiti che alle dittature si ispirano. È naturale che la letteratura esprime specifiche idee e posizioni politiche, ma soltanto nell’ambito della sua autonomia assoluta. Penso, per esempio, ad Attila o a Gatto o Péguy o Sanguineti o George.

Data la Sua esperienza di critico e poeta, cosa consiglierebbe ad un giovane autore che vorrebbe affermarsi nell’ambito letterario?

Sembrerebbe una battuta banale, ma la sola cosa da fare è, prima di scrivere, leggere e rileggere e non stancarsi mai di comprendere e spiegare a se stessi i testi poetici e prosastici del passato. Ma in ogni caso il problema non è di volersi affermare nell’ambito letterario, ma di esserne effettivamente capaci. Scrivere a dispetto del vero e del valore delle parole e dei testi che si compongono è inutile. La letteratura è un’attività difficilissima e rara, e non tutti davvero possono riuscirci. È bene non farsi illusioni: così come io non ne faccio a me stesso, ben conoscendo (con serenità, anzi con letizia) i miei limiti.