Corrado Calabrò |
Il volume di poesie “Una
vita per il suo verso”, pubblicato di recente dalla Mondadori, raccoglie il
meglio della produzione poetica di Corrado Calabrò, calabrese, tra-piantato
a Roma. Si tratta di una poesia che rispecchia l’animo e la sensibilità di
una meridionalità classica, attraverso la sua antica tradizione lirica e
filosofica. In questo contesto il mare diventa concetto-simbolo essenziale,
così come secondo Talete l’acqua è l’elemento primordiale. Al mare è
colle-gato, quasi in un rapporto biunivoco, l’amore, visto nella va-lenza
semantica più vasta. Se mare e amare potrebbero sem-brare termini
semanticamente inconciliabili, per Calabrò fanno parte di un intero, quali
concetti-oggetti onnicompren-sivi.
Il mare-amare si trasforma così in elemento antropocentrico con
caratteristiche metafisiche e divine, quasi panteistica divinità, elemento
vitale ed indispensabile. Il mare si identifica allora con Poseidone,
lettura mitologica di una realtà fisico-contemplativa. Il mare, quale mezzo
di viaggio, di amore e di morte, è ricerca dell’ignoto, e si tra-sforma in
strumento di conoscenza. Cosa esiste oltre? Il mare è come una siepe dietro
la quale «interminati / spazi di là da quella, e sovrumani / silenzi, e
profondissima quiete / io nel pensier mi fingo; ove per poco / il cor non si
spaura» per dirla con Leopardi. Il mare nasconde entro di sé una misteriosa
magia che richiama l’infanzia, vissuta nel ricordo e nell’immaginazione. Ed
è attraverso il magico mare che si compie l’ideale viaggio di Ulisse verso
una destinazione apparentemente ignota, ma che in effetti mira alla
conoscen-za e quindi alla conquista e alla ricerca della verità. «Navi come
aquiloni – scrive l’autore nella poesia “Gli occhi di Circe” – transumanti
ad agosto / per cinerei pianori mare-cielo / sotto gli occhi di roccia della
maga». La stessa fisicità di Lucrezio è forza bruta e violenta
contrapposizione uomo-natura in un’onnipotenza di elementi che sovrastano
l’impo-tenza umana. In questo contesto poesia, scienza e natura vanno a
braccetto. La poesia si tramuta in scienza dell’essere e dell’esistere. Il
mare-amore-amare diventa riverenza e soprattutto rispetto nei confronti
degli elementi invincibili.
Il mare è un affresco ideale di emozioni e sentimenti. Il mare è una pittura
che si accosta alla poesia, proprio come affermava Leonardo nel suo
“Trattato della pittu-ra”: «Per fingere le parole la poesia supera la
pittura, e per fingere fatti la pittura supera la poesia». Ed a queste
parole Calabrò sembra ribattere nella sua lirica “La tromba d’Eusta-chio”:
«Cosa ci manca d’un pittore amato? / Forse soltanto il quadro non dipinto».
Ma è nella bella lirica “Il vento di Myconos”, che appaiono i temi
essenziali di Calabrò: il mare, l’amore, la classicità, in un’idea
generatrice del mondo e dell’universo. Qui aria, acqua, fuoco e terra
(secondo la teoria di Empedocle) riescono a fondersi, proprio per creare
quell’universo sensibile in cui l’uomo vive ed opera. Si tratta di elementi
imprescindibili che fanno parte di un tutto che non è caos, ma ordine ed
equilibrio. Allora il mare, diventa calore e colore, meditazione interiore e
riflessione personale, afflato religioso e filosofico in un contesto di
universalità dell’esistere, del pensare e del sentire. Il mare-amare è un
filo d’Arianna che ti dice: «Fila il tuo tempo come cresce il grano / apri
grandi occhi liquidi nel mare: / c’è una ninfa elusiva in ogni anfratto, /
gravi i pesci la vanno a visitare».
Il mare appare emblema di un’identità perduta, che si vuole riconquistare e
di cui ci si vuole riappropriare. «No, non alziamo gli occhi: è per terra
che dobbiamo / tutti e ciascuno cercare in noi stessi / dove sia scomparsa
la loro ombra». In questa ricerca e in questo contrasto tra luce ed ombra
emerge la personalità umana. L’uomo, “misura di tutte le cose”, si rende
commensurabile alla natura, la vita, la morte, la società, la città, il
paesaggio. Il mare-amore è quindi momento di riflessione, ma pure di
conoscenza dell’ignoto e dell’oltre, mentre l’uomo, un Acab che lotta contro
Moby Dick, cioè contro le forze spietate della natura, lascia emergere i
propri sentimenti in una funzione erotico-emotivo-olfattiva, quasi
espressione di una concatenazione temporale, in cui passato, presente e
futuro si succedono cronologicamente, ma s’intersecano nella memoria e nei
sensi.
Corrado Calabrò presenta così un affresco vivo che corre tra il fisico e il
metafisico, dove appaiono forme e colori, i più svariati, i più belli, e vi
sono aggiunti le emozioni, le più sottili e le più profonde. Da qui si
dipana la con-cezione personale ed universale della vita, interpretata come
insularità, anche questa ideale e immaginaria. L’autore presenta l’uomo
solo, in una solitudine tormentata, ma che non è deserto, solitudine che
isola, ma che sa mettere in contatto con gli altri. E la poesia di Calabrò è
fatta di isole vere che diventano emblema di una solitudine interiore.
Alicudi, Filicudi, la Sicilia, Delo, Nasso, Myconos sono solo un simbolo di
questa insularità, di questo deserto che è amare-mare, che è amare-verità.
Il volume di Corrado Calabrò ha fatto discutere a farà certamente ancora
discutere, così come ha evidenziato nella sua ampia e puntuale prefazione
Dante Maffia, il quale, oltre a tracciare un percorso critico-letterario
dell’autore, cerca di capirne l’evoluzione: «D’altra parte Calabrò non
avverte la sua applicazione come un lavorio, così come lo considera tale una
mamma che non si stacca dal suo bimbo o l’anacoreta dal suo rosario.
Addirittura, a mio avviso, non sarebbe stato male che egli avesse
“rastremato” ancora qual-che ridondanza, avesse rattenuto ulteriormente la
sua inclinazione a ricomprendere tutto nella poesia, avesse rinunciato a
qualcosa. Ma Calabrò è questo: uomo e poeta dalle innu-merevoli
contraddizioni... Sensitivo e metafisico, plastico e surreale, amante
appassionato e innamorato solitario, peccatore bisognoso di espiazione e
olimpico esteta pagano, purista e metabolizzatore di termini impoetici, di
un vitalismo incoercibile e di una soavità lunare, proteiforme e invariante,
immerso nel mito e proiettato verso l’astrofisica, allucinato in trance e
incontentabile rifinitore, entusiasta e ironico, aurorale e consumato,
rispettoso dell’ortodossia metrica e spregiudicato ripudiatore di qualsiasi
predefinizione, musicale e tagliente, Ulisside e capace di darci momenti
d’infini-tesima sensitività, abbandoni di abissale dolcezza…».
E sì, come afferma lo stesso Calabrò, «il contatto è giunto a segno;
decodificato, è stato ricodificato e ricomposto: lo schermo interiore
s’illumina e noi ‘vediamo’. La poesia, l’arte… ci sottraggono – con un salto
in un’altra forma di esistenza – alla camera premortuaria della nostra
quotidianità».
Angelo Manitta |