Il Convivio Ricordo del tempo migliore in Vecchie storie di Pietro Civitareale (NOUBS, Chieti 2002)  
Pietro Civitareale

Il racconto di una civiltà, spesso, presuppone un’invasione semantica; il confine tra storia e letteratura diventa labile fino all’estinzione. Di questo si tratta: estinzione di una cultura, di un mondo pastorale. L’autore, abruzzese, sebbene scriva in italiano, conserva tutto il ritmare quotidiano del dialetto dell’Abruzzo interno. Dunque, il dialetto, lingua madre, non appare nella scrittura; tuttavia la corposità, l’esuberante fisicità dei personaggi, richiamano quel parlare sofferto, semplice, rude degli abruzzesi di un tempo. Uno spaccato di vita rurale, pastorale, un mondo, una civiltà all’inizio della fine, ma eternamente viva nelle azioni e nei pensieri. E tutta una galleria di personaggi reali, uomini, donne, giovani, ma anche le pietre, le case, le strade, persino le parole, giocano il ruolo che il destino ha loro assegnato. Una rassegnazione, velata però, di tranquillità e di certezze. Come potrebbe essere diversamente? Filosofie di vita ereditata dalla ‘saggezza’ antica, quindi, tutt’altro che ‘ragionata’. Cose che nei paesini del Sud al contempo facevano ‘la miseria’ e la ‘ricchezza’ di una cultura: il ‘sud’ però non è il contesto geografico, è l’ideologia della quotidianità, è una natura ancora in-contaminata, avara e generosa. E lo struggente ricordo del tempo migliore, il crepuscolo metafora della vecchiaia, la paura dell’inazione, ma non il non fare, bensì, la rinuncia a quelle certezze che cementavano l’esistenza.
Esistere era a quel tempo, una socialità spesso ‘for-zata’, contava molto di più apparire, «far vedere agli altri», insomma, l'idea banale di ‘chissà che dice la gente’, in realtà era un paganesimo pragmatico, un non voler conoscere per essere felice, perché i sentimenti ingannano. L’autore, partecipa, o meglio, si astiene dal parteggiare, e nella narrazione, assume il ruolo del cronista del tempo. E la lingua, diventa l'oggetto della narrazione; non è la lingua che racconta, è essa stessa raccontata dalla storia. Certamente, è un paradosso linguistico, ma tutta la corposità, tutta la cultura fatta di verità tramandate, danno alla lingua una ‘passività’ che si arricchisce di poesia, quando vengono fuori i ruoli assegnati ai personaggi. Ecco, allora, il vecchio patriarca, che dispone di tutto e di tutti; la donna è oggetto, non partorisce, ‘figlia’. È la vecchia lotta di generazione: il figlio che vuole andarsene cioè il tradimento del padre, di una tradizione, l’abbandono della famiglia. Pensieri a contrasto, allora confronto di diverse lingue, sebbene sia il medesimo ceppo: e la rudezza arrogante, che in realtà nasconde una generosità istintiva. È l’uomo ‘eterno’ delle terre d'Abruzzo, l’uomo indistruttibile che si riproduce, che vuole sfuggire alla morte, perché morire è un atto ‘antisociale’. Socialità, che si esprimeva nella partecipazione alla vita di paese, quella di sempre: il fune-rale, le nozze, andare a messa, il giudizio della gente, e poi l’onore, la virilità…. Ma nei racconti, le figure importanti sono le donne. La loro esistenza discreta, dietro le quinte, il loro silenzio sulle violenze dei padri, dei mariti, la loro rassegnazione, pane quotidiano delle loro giornate ‘banali’ (ma chi ci dice che la vera forma di rivoluzione sia proprio la banalità?) ma, come sempre, donne forti, vere spine dorsali delle storie degli uomini. Dunque, una civiltà che ci appartiene, ma che sparisce inevitabilmente, perché il progresso è avido, e i protagonisti di “Vecchie Storie” intuiscono, il declino inesorabile… e non vogliono dirlo nemmeno a sé stessi. Uomini che non capiscono perché si fa la guerra, ma sarebbero pronti a parlar male di un proprio simile, (e questo non è un atto di guerra?); paradossi della civiltà contadina. È una cultura che ci appartiene all’intimità: una religiosità pagana, che genera illusioni sulla morte (e morte e religione non sono forse collegate? - E non è forse la lingua la sorella gemella della religione?). Ecco allora, il cerchio che si chiude; lingua madre è il dialetto che appare palesemente nei dialoghi, la scrittura diventa oggetto e si lascia andare, dolcemente, nello scorrere della narrazione, e diventa ‘koinè’ letteraria di lirismo ‘antico’, ma che, con prepotenza, penetra nelle nostre memorie distratte a ricordarci di che ‘pasta’ siamo fatti. Operazione culturale di valore inestimabile che dobbiamo riconoscere all’autore, che pur non vivendo più in Abruzzo, di questa regione incarna l’orgogliosa durezza delle montagne, e la poesia del tempo andato. Ma forse, non è il tempo che se ne va, siamo noi che decliniamo all’orizzonte.

Alessandro Di Rocco