Silvio
Craviotto |
Cercherò d’essere
breve. Certi fatti, benché accaduti in quegli anni lontani che possono
essere definiti preistoria di noi stessi, occorre rievocarli in modo assai
succinto. Meglio sarebbe seppellirli in una tomba: quella dell’oblìo. Ma
l’impresa è impossibile. Narrarli può comunque essere una liberazione;
sempreché non si indugi in particolari che diverrebbero inevitabilmente
morbosi. Non appena ritiratosi dal lavoro, mio padre, uomo ormai socialmente
finito, fece ritorno alla terra, che tanto amava. Amava la rude vita dei
campi e la viveva recandosi ogni giorno a lavorare con gli occhi ortolani,
che sanno rendere feconda anche l’arida zolla della nostra Liguria. Non
operava a scopo di lucro, felice d’essere pagato in natura: frutta, verdura,
ortaggi erano delizia delle nostre povere mense, in tempi di razionamenti e
di guerra.
Un pomeriggio tornò a casa sconvolto e con i miseri abiti da lavoro
inzaccherati di sterco: che tanfo ne emanava! A mia madre, stupita e
spaventata di vederlo conciato in quel modo, spiegò di aver tratto in salvo
un’anziana contadina, della quale aveva udito l’invocazione d’aiuto: era
scivolata entro un pozzo nero, una di quelle vasche ove confluivano gli
escrementi per poi essere utilizzati come concime. Ma, nonostante
l’intervento di mio padre, la poveretta, intossicata dai vapori d’ammoniaca,
spirò.
Venne fatta l’autopsia, si svolsero le indagini del caso e tutto confermò
trattarsi d’incidente: non fu l’unico del genere. In un paese d’oltralpe
perì in tal modo un’intera fa-miglia: tre figli e i genitori. Fu un figlio,
il minore, a cadere nel liquame. I due fratelli prima e i genitori poi, nel
tentativo di soccorso, seguirono la stessa, orrenda sorte. Il mio povero
padre fu convocato in tribunale a testimoniare sull’accaduto e la sua
versione venne accettata senza il benché minimo sospetto. Ma trascorsero
circa una decina d’anni e un brutto giorno, passando per caso lungo quelle
campagne, incontrai una anziana che viveva ormai solitaria in un casolare
sito non lungi dal luogo della tragedia. La salutai, com’è uso tra gente di
campagna, e la donna m’invitò a bere un bicchiere di nostralino. Durante la
seduta, non tardò a parlarmi di mio padre. «Sai - mi disse - era capo, in
fabbrica, addetto ai turni di notte. Ma era uomo molto soccorrevole e non
uno stronzo come tanti! Però, un giorno, ne fece una grossa, che avrebbe
potuto costargli vent’anni di galera e la rovina sua e della famiglia...».
Sentii un brivido attraversarmi da capo a piedi e, con voce rotta
dall’angoscia, domandai: «Che cosa fece mio padre?». Dopo qualche
esitazione, la voce della verità rispo-se: «Tuo padre aveva rubato frutta e
verdura nell’orto della mia vicina. Fu preso in flagrante e lei minacciava
di denunciarlo. Robusto com’era, ben più di te che sei una pappamolla, lui
l’afferrò e la fece ruzzolare nel pozzo nero. La tirò fuori solo quando
comprese che ormai era crepata!». Rimasi di sasso. Solo dopo un momento di
silenzio, insistei: «Ma come potete affermare una cosa simile?» E lei: «Vidi
e ascoltai tutto dalla mia finestra. Se avessi testimoniato, avrei rovinato
tuo padre e la sua famiglia. Ma lui era talmente un brav’uomo che preferii
far finta di non sapere nulla!».
Ora, cara lettrice, caro lettore, sapete di chi son figlio, io... (Superfluo
dire è costruzione fantastica, ma mio padre salvò veramente una donna finita
nel pozzo nero). |