Il Convivio Isole: Immagini dell’esilio  
Davide C. Crimi

Il punto di partenza di questa riflessione che sottopongo ai lettori de Il Convivio è un’analisi di due concetti reciprocamente estranei e complementari: quello di insularità e quello di esilio, entrambi intesi come aspetti della condizione esistenziale.

L’esilio è, innanzitutto, esilio dalla verità. In questo si manifesta il suo carattere di insularità: tutti abbiamo una verità, nessuno ha la Verità: per questa via il mondo si manifesta come una continua sorgente di illusioni e inganni.

Assunto questo punto di osservazione, non c’è ragione per cui la Sicilia, questo rompicapo a tre punte senza soluzione, debba essere concepita come una realtà differente o affatto speciale in rapporto al resto del mondo.

Ogni luogo possiede un suo incanto, una capacità di fascinazione, una stregheria che incatena.  Le origini scuotono le ossa: così, andar via dalla Sicilia può essere un esilio, ma è una strana immagine dell’esilio, che contiene sempre in sé qualcosa de Il Fu Mattia Pascal, un morire ad una vecchia vita senza mai davvero intraprenderne una nuova.  Forse anche perché, per intraprendere davvero una nuova vita, occorre anche una nuova consapevolezza.

Ora, non si può non notare che la Sicilia appare nemica della consapevolezza, come l’Encelado che il mito classico vuole sepolto sotto l’Etna e che, a ben sentire, si scuote alquanto. Oppure, per andare ad una mitologia più recente, il finale de Il Gattopardo, quel «tutto cambia perché nulla cambi» l’emblema di una stasi e di un senso oppressivo del destino immutabile che si ritrova, con ineluttabile perfetta simmetria, nella nervatura dell’intero progetto verghiano dell’incommensurabile sconfitta: I Vinti, appunto.

Nel cosmo pirandelliano c’è qualcosa in più, tuttavia. Qualcosa che intriga, perché sconfina nella psicoanalisi e nelle seduzioni dell’onirocriticismo. Qualcosa che affascina per quel suo senso molteplice di maschera, essenza metafisica del personaggio. Per questo motivo, quest’universo è ancora più stringente e pericoloso: perché qui, in ogni caso, nessuno ha facoltà di divenire chi vuole: ognuno è prigioniero della follia degli altri. Da quest’inquadratura la Sicilia si manifesta irredi-mibile e si rivela trappola dalla quale non è possibile trarsi fuori: nessuno può farlo perché nessuno può davvero essere: sono gli altri che decidono chi siamo. Siamo prigionieri di un’immagine che non siamo noi a creare: questo il destino delle nostre maschere nude. Sic rebus stantibus, è giusto pensare la vita lontana dalla terra natìa come condizione dell’esilio? Lascio a voi l’interrogativo, una corda pazza e la facoltà di formulare risposta. Soltanto, vorrei chiudere questo pensiero apponendovi a margine un estratto dall’atto unico “Il Sogno di Giacobbe”:

 

Giacobbe chi?


di Davide Crimi

Deserto. Antico emigrante.
Diaspora. Quindi: il silenzio.
Un siciliano anni trenta
o novanta, al finestrino
treno che chissà dove va.
Chi lo sa?

Anima raminga al mondo
con valige di cartone,
uomo d’esilio, che scavi
perpetue distanze, assenze
e trincee della verità.
E qual mai?

Uomo che cambiando terra
cambia interrogativi
metamorfosi di frasi
nuovi nomi e nuovi sensi
chi doveva diventare.

Inventa pezzi di luna,
diviene raggio di sole:
quel che voleva essere.
Enigma troppo semplice
per trovar spiegazione.

Un querceto, una caverna.
Luogo di trasmigrazione
delle anime, cui nessuno
ha mai creduto: perché
bisogno di creder non c’è;

Certe cose si dimostran
da sole. E si dimostra,
alla prova, il percorso
non è completo. Inesatto,
va corretto resta ancóra

Molto da perfezionare.
La materia è quel che è
sequenza inconcepibile
se non per esperïenza
con ogni inevitabile

Vaga approssimazione:
non pretesa di spiegare,
pura allusione, allegoria,
hallel. Ognuno in sé
ha la sua verità, pura.

Insieme ne abbiamo poi
una più grande, simile
a scala che s’arrampica
nel cielo: e ne rivela
palazzi, e residenze
celesti, vite anteriori,
e la via per redimere
l’esilio.