Il Convivio Fedele Giorgio e il retrogusto nel romanzo Le stellette che sopportammo, (Menna, 2002, Prefazione di Giovanni Di Girolamo)  
Fedele Giorgio

Abruzzese d’adozione, Fedele Giorgio è nato a S. Andrea di Conza, vicino Avellino. Oltre che Daniela Donati Guerrieri nel “Dizionario degli Autori italiani contemporanei”, pubblicato dall’editore Guido Miano (2° ed., 1996), ne hanno scritto Barberi Squarotti, Baldacci, Cimatti, Esposito e Palanza. Negli anni la sua fama è cresciuta, e quando la sua figura si era consolidata come quella di un poeta ponderoso, dalla rara sensibilità, ha giocato una carta inaspet-tata, intitolata “Le stellette che sopportammo”, un romanzo autobiografico di pregevole fattura, ove racconta della durezza della vita militare. Abbiamo letto d’un fiato il libro e ne siamo rimasti avvinti. A lettura conclusa abbiamo compreso di trovarci dinanzi a un’opera meritoria, ricca di contenuti. In particolare, ci ha colpito il retrogusto amaro di quelle pagine lievi eppure affilatissime, perché nonostante l’Autore conceda ampio spazio a momenti divertenti, a notazioni caustiche, a chiose sarcastiche, e benché autocommiserazione e recriminazioni siano quanto mai lungi dall’appartenere alla narrazione (“egli racconta con crudo realismo, cioè in modo disadorno, senza alcun cedimento a for-me di retorica autocelebrativa”, V. Esposito), costantemente, fra le righe, quasi di soppiatto, s’insinua e affiora, per poi subito ritrarsi e lasciar dietro sé un’ombra d’inquietudine, il sentimento doloroso e dolente di un uomo assorto nel ricordo, che nel raccontare esperienze troppo spesso spiacevoli, rivive vicende desolanti o mortificanti. La consapevolezza d’aver dovuto riparare nelle “patrie caserme” per sfuggire alla disoccupazione (“scegliere tra il niente del dopoguerra e l’arruolamento”, M. I. Affinito), unita a quella d’aver trascorso anni in ambienti ottusi, regolati da norme spesso illogiche (indicativo il sottotitolo del libro, L’acqua non bagna), matura in senso d’abbattimento e sfuma in angosciosa solitudine, sino a rapprendersi in una sorta di gru-mo tormentoso, in una specie di pustola della memoria. Considerare divertente il romanzo vuol dire distorcerne il significato e fraintendere una scelta dell’Autore, che ha assunto il sorriso come pretesto per una riflessione più accorta, facendo intuire tutto dicendo poco (“il sorriso che la lettura ci strappa in doviziosa quantità…è sempre un po’ amaro, pensante” avverte G. Di Girolamo). Non si tratta di un’opera allegra, né divertita. Ci sembra, anzi, che sollevi una protesta, un appello a una diversa considerazione del fattore umano, sia esso entità individuale o risorsa collettiva. Reca in sé la coscienza dell’impossibilità di ricondurre a meri schematismi l’Uomo, di costringerlo entro confini che escludano la possibilità d’interloquire, di confrontarsi, disconoscendogli parte della propria identità. Merito di Giorgio, l’aver trasmesso quel che intendeva senza sproporzioni: non ha forzato, piuttosto ha mimetizzato le idee principali in un contesto più ampio, sviluppato per fasi episodiche e sì autonome, ma accomunate da omogeneità spazio-temporale. La differenza tra i piani formale e contenutistico non risulta però dicotomica, ma si traduce in una complementarietà diversa dalla semplice compatibilità, che agevola uno sviluppo armonico dell’insieme. Con “Le stellette” Giorgio traccia un filo di continuità con alcune delle sue più sofferte poesie, specialmente con quelle riunite in “E siamo ancora qui” (1984), ove fu cantore delle esperienze distrutte.

Simone Gambacorta