Il Convivio Mario Cavallo: radici e memoria in un poeta fascinoso e narratore di razza  
Mario Cavallo

La civiltà di un popolo si misura dal suo legame con le proprie radici e dalla memoria che esso conserva per il suo passato. Radici e memoria formano di fatto la cultura dei popoli e dei singoli uomini. Se così è, Mario Cavallo, autore dello splendido volume, “Sicilia mia”, un sorprendente contenitore di divagazioni poetiche e di “pezzi” di letteratura che sanno di storia, dimostra pienamente quanto profonda sia la propria cultura.
Radici e memoria, infatti, lo sostengono e lo vivificano pagina dopo pagina, accompagnando il lettore lungo un itinerario di autentica letteratura, anche se l’autore, come avviene a pagina 77, si schermisce affermando che ha voluto intraprendere questa fatica letteraria «no picchì vuogghiu fari u llittiratu / ma nun vulissa ca li scuparini / cancillassiru i resti do passatu. / Passatu tantu caru e tantu beddu / ca di carusu nun passava mai / ora mi camulia lu cirbieddu / picchì u prisenti è già passatu ormai». Da dove emerge che la preoccupazione principale di Mario Cavallo è soprattutto quella di tramandare quella cultura della memoria e delle radici che altrimenti sarebbe andata perduta. Cavallo non si definisce un letterato. Noi sappiamo che invece ne ha la stoffa e il carisma. Un letterato alla Camilleri per il modo di costruire le frasi, inserendo parole dialettali nel contesto del racconto che così risulta decisamente più avvincente. Cavallo ha paura degli “scuparini”, di quanti, cioè, sono gli iconoclasti della memoria e senza di essa vivono, forse perché non ne comprendono il valore. Ma egli sa bene che “cancellare il passato”, significa tagliare i ponti con le proprie origini, le proprie radici, quindi con se stessi. Cosa che solo l’uomo è in grado di fare, rinnegando se stesso. L’atomica che distrusse Hiroshima e Nagasaki non riuscì a distruggere gli usi ed i costumi delle due città. Altra particolarità: Cavallo sostiene di scrivere in dialetto «picchì mi nescia megghiu la parola». Ma non è così, o lo è soltanto per quello che riguarda la poesia. Dicevo infatti che in prosa è un autentico maestro alla Camilleri per ciò che riguarda la facondia, o un Verga per quello che concerne la drammatizzazione del narrato. I temi che Cavallo tratta, tra memoria e attualità, sono quelli della famiglia, dei luoghi dell’infanzia, delle ricorrenze, sacre soprattutto, degli amici, dell’amore. Ma scorrono, nei suoi versi, anche gli strumenti dei mestieri antichi, il dramma dell’emigrazione, i temi del viaggio.
C’è, nella poesia dialettale soprattutto di Mario Cavallo, un misto di tenerezza e di melanconia, ma si intra-vede tra le righe anche la forza per superare un passato non facile e la speranza di giorni migliori. Ma dove Mario Cavallo mostra tutto il polso e tutta la grinta di narratore di razza è nel racconto lungo “La mala Pasqua”, ovvero «come forse Giovanni Verga avrebbe scritto il secondo atto della Cavalleria rusticana». Un vecchio Gesuita gliene offre il pretesto mostrando di sapere davvero qual è la fine di Compare Alfio. Il Religioso però non si sbottona ed altro non dice se non una frase riferita a Santuzza, causa della tragedia: «Santa, sì, era una diavola». Uno spunto felice per un racconto di qualità, che prende il lettore fino all’ultima pagina. Lo sintetizziamo riservando al lettore la gioia della scoperta ed il godimento di pagine autenticamente letterarie. Compare Alfio esce di prigione dopo venti anni scontati per avere ucciso compare Turiddu, presunto amante di sua moglie, ma non sa dove mettere la sua dimora. Si ferma dal cognato, marito di sua sorella, ma s’avvede subito d’esser trattato da estraneo, anche se la casa è di sua proprietà. Se ne va e torna nella vecchia casa, prospiciente la casa di Santuzza. Tra i due non corre una parola, ma solo sguardi complici. Finché un giorno lui risponde all’invito di lei ed entra in casa. Faranno l’amore per le scale e poi nel letto e poi nei giorni seguenti con sempre maggiore bramosia. Finché lei non le confessa d’aver ucciso Lola, la moglie, con un grosso vaso lasciatole cadere appositamente in testa. Santa, inoltre, è sempre più assetata di sesso. Un litigio e compare Alfio le stringe la gola uccidendola. Ma non vuole tornare in galera. Preferirà gettarsi dal ponte della Torretta. Plausibile o no, il seguito inventato da Cavallo della “Cavalleria rusticana”, è degno di uguale sorte della prima parte del Verga.
La narrazione è prensile, il costrutto delle farsi veloce, le parole dialettali a fare da sale, il dramma è vivo. Ha detto ironicamente Thomas Merton che «in tanti scrittori la mancanza d’ingegno è un dono di natura». Non è il caso di Mario Cavallo, che unisce ingegno a fantasia e a padronanza della parola, confezionando in tal modo un piccolo capolavoro letterario. «Fare libri - ha detto qualcuno - è un lavoro da professionisti, come fare orologi». Mario Cavallo fa un mestiere per certi versi vicino a quello citato, l’orafo. Conosce l’arte del cesello e, soprattutto, come si mettono insieme le cose belle per farne risultare un’opera d’arte. Questo volume lo è. Per tale motivi ci auguriamo che la cultura di Cavallo, la sua padronanza della parola, la sua fantasia e la sua stessa poesia, possano offrirci ancora volumi che hanno un dono raro, quello di farsi leggere con godimento interiore e, perché no, sorriso sulle labbra.

Mario Narducci