Maria Pina Natale |
È vero che l’umorismo, in
quanto genere letterario, nasce in Inghilterra sul finire del secolo XVII.
Ma è anche vero che, come peraltro avviene spesso anche in altri campi della
cultura, l’umorismo era nato e si era affermato molto prima che gli fossero
stati trovati un nome e un posto nella letteratura, molto prima che fosse
stato scoperto come genere letterario o, quanto meno, come forma letteraria
consacrata da norme ben precise che gli dessero il crisma d’ingresso in
mezzo ai più vecchi e accreditati generi di arte letteraria, molto prima
insomma di fare il suo ingresso ufficiale nella storia. L’umorismo è nato
con Orazio nel I secolo a.C. e, nella stessa Roma, si era consolidato poco
dopo con Marzia-le, altro argutissimo umorista latino. Ma ai tempi di Orazio
e di Marziale l’umorismo non era ancora umorismo, o meglio, non si chiamava
ancora umorismo. Anzi autori latini come i due già citati e come molti altri
in Roma, che scrivevano opere sul medesimo tono e con la medesima
ispirazione di fondo, venivano chiamati poeti “satirici”.
Anche Dante gratificherà Orazio dell’appellativo di “Orazio satiro”, perché
anche ai tempi di Dante si ignorava affatto l’esistenza del vocabolo
“umorismo” con tutte le sue conseguenze. La ‘satira’ era dunque il genere
cui potevano essere assegnati determinati autori che scrivevano in un certo
modo. Quale modo? Vediamolo. A questo punto è d’obbligo anzitutto chiamare
in causa a priori una famosa citazione di Quintiliano rimasta proverbiale
attraverso i se-coli. La citazione, arcinota, è «satura tota nostra est».
«La satira - diceva cioè Quintiliano con giusto e giustificato orgoglio - è
tutta quanta nostra», cioè è solamente romana, latina. Ai Greci era più
consona e familiare la poesia giambica, cioè l’invettiva. Non avevamo, in
altre parole, il gusto raffinato, aristocratico e superiore di una forma
dispregiativa e repressiva che non fosse farcita di volgarità, di derisione
spietata, di assoluta carenza di pietà nei confronti del malcapitato (o dei
malcapitati) oggetto dei loro strali. Da qui la poesia giambica, una poesia
cioè espressa in versi giambici, il cui sostantivo deriva dal termine greco
‘jambòs’ che originariamente significa “piccola freccia”. E tali erano
appunto le conseguenze della poesia giambica su coloro che venivano presi di
mira da tali impietosi poeti. Da ciò si evince inoltre che la poesia
giambica è quasi sempre rivolta “ad personam” e colpisce al cuore come uno
strale (talora realmente mortale) la personalità di colui o coloro cui è
diretta.
Di ben altra natura, viceversa, la ‘satura’ latina, di cui, come si è
accennato, andavano giustamente orgogliosi i Romani, sia per averla
inventata, sia per essersi distaccati di molto da quella che era stata la
poesia giambica greca. La parola ‘satura’ in latino ha un’origine piuttosto
singolare. A voler essere esatti, originariamente ‘satura’ è un aggettivo
che veniva accoppiato al sostantivo ‘lanx’: satura lanx, che nella sua
accezione primigenia, significa ‘piatto ricolmo’. E, in realtà, la satira,
così come la concepì Lucilio, che fu il primo scrittore di Satire (è il
momento di chiarire anche questo punto), è un’accozzaglia, un riempitivo, un
miscuglio, un’abbuffata, come si direbbe con vocabolo meno elitario ma più
efficace e moderno, di cose e persone varie pre-sentate in forma piuttosto
caotica e ironica attraverso i mezzi tecnici più svariati: del racconto, del
bozzetto, dell’epistola, della favola. E si riallacciava vagamente lo
spirito dell’antichissima farsa italica o ‘satura dramatica’. Non per niente
su Lucilio peserà da lì a qualche secolo l’impietoso, anche se giusto,
giudizio di Orazio, il suo lontano eppure primo epigono nel genere satirico.
«Fluere lutulentum» sarà il giudizio di Orazio su Lucilio, lo etichetterà
cioè come «scrittore fangoso, farraginoso, pasticcione». Tuttavia, per
quanti difetti si potranno rimproverare al povero Lucilio, resta il fatto
che con lui un genere nuovo e «del tutto latino» era nato nella letteratura;
un genere che non doveva riconoscere paternità alcuna alla dottissima «capta
Graecia».
Intanto, a partire da Lucilio, la satira lascia la strada dell’invettiva e
del bersaglio personale e diventa fustigatrice dei vizi generali, prende
l’aspetto della ‘reprimenda’ morale senza colpire personalmente nessuno,
idealmente, invece, tutti, cioè tutti coloro che deviano dal retto cammino
del buon costume, del retto vivere, dell’onesto agire e sentire. Orazio
riconosce nel lontano, arguto scrittore di Sessa Aurunca il suo modello
ideale, anche se il giudizio di cui lo gratifica per il suo stile non è
affatto benevolo, ma forse è proprio quest’assoluta disistima nei confronti
dello stile di Lucilio la molla medesima che lo spingerà a purificare i
difetti. Ed è anche in tale perfezione che il critico moderno può e deve
scovare l’umorismo di fondo che fa di questo grande poeta latino
l’antesignano del genere umoristico, così lento, poi, a fare il suo ingresso
ufficiale nelle letterature di tutto il mondo. E vediamo di dimostrare il
perché il genere satirico diventa in Orazio un genere squisitamente
umoristico e moderno. Per far ciò dobbiamo anzitutto cercare di definire il
termine ‘umorismo’, impresa non facile, poiché il ‘significante’ di tale
vocabolo è sfuggente come il suo ‘significato’ e non si presta a essere
rinchiuso facilmente tra pastoie di definizioni, regole, norme, leggi e
leggine. Si è già detto che il termine è nato in Inghilterra verso la fine
del ‘600. Ma anche i più qualificati umoristi inglesi stentano a trovargli
definizioni adeguate. (La qual cosa conferma maggiormente il nostro assunto:
che cioè si può essere umoristi senza saperlo di essere e senza sapere se
esista o non esista una forma chiamata ‘umorismo’, come è appunto il caso
del nostro Orazio).
Anche il famoso Dizionario di Oxford non si esprime, in proposito, in
maniera del tutto chiara. Vero è che il vocabolo ‘umorismo’ aveva avuto
nella medesima Inghilterra qualche avvisaglia fin dagli inizi del ‘600,
avendo il drammaturgo Ben Jonson, noto per le sue opere teatrali, studiato e
definito la cosiddetta teoria degli ‘umori’, una teoria cioè che basava le
condizioni psicologiche del personaggio su quelle fisiologiche, precorrendo,
in questo, la visione scientifica di Cesare Lombroso. Ma ‘umore’ è solo una
condizione transitoria della psiche e non chiarisce per nulla quel
‘significante’ inglese ‘humour’ che in lingua italiana ha trovato perfetto
gemellaggio nella accezione ‘umorismo’ (e non ‘umore’), per chiarire la
quale non basta una sola parola ma occorrono intere perifrasi affinché il
significato risulti più perspicuo e meno sfuggente possibile. L’umorismo,
insomma, non è arguzia (o, per lo meno, non è solo arguzia), non è satira,
non è farsa, non è invettiva. È, sì, l’individuazione dell’aspetto ridicolo
della persona, delle situazioni, della società, e anche il sottolinearne e
l’enuclearne il diverti-mento sotteso, che si ricava cogliendolo talora solo
attra-verso una semplice sfumatura, un dettaglio che ad altri passerebbe
inosservato.
Tuttavia dietro quel ‘sorriso’, quel ‘divertissement’, c’è sempre come
un’ombra, un velo, un che di sfuggente che va diritto al cuore con vago
senso di inquietudine, di negatività, di patetico e che si potrebbe
paragonare vagamente alle nubi che si intravedono dietro il più terso dei
soli o, viceversa, al sole che si intravede e si indovina dietro un ammasso
di nubi. È un miscuglio, insomma, di sorriso (non di riso) e di lacrime a
stento frenate o, viceversa, di lacrime trattenute e illuminate da un
sorriso. Pertanto l’indefinibilità del termine ‘umorismo’ si può spiegare
bene con il suo essere ‘il sentimento del contrario’ di Pirandello. Come ben
si vede, l’ambiguità del termine è destinata a portare con sé, nel suo
secolare cammino, tale sua natura d’origine e a diventare raffinatezza per
palati sempre più ghiotti. Prendiamo esem-pio dal Manzoni, che è stato e
rimane uno dei più sottili umoristi di tutti i tempi. L’umorismo, nei suoi
“Promessi Sposi”, possiamo dire che si spreca. Vi sono addirittura sagome di
personaggi costruite a tutto tondo sull’umorismo e per umorismo: don
Abbondio, per esempio, don Ferrante, il sarto, Perpetua ecc. Eppure quante
ombre, quanta tristezza a ridosso di ciascuna di queste sagome
apparentemente così scanzonate e scombinate! E non finisce qui: anche nei
personaggi più paludati, più seri, perfino più dolenti, l’umorismo può, d’un
tratto, fare capolino nel bel mezzo dei momenti e delle situazioni più
inopinate, esplodere anche nel ‘diapason’ più acuto del dramma più
intrigante. Si pensi al personaggio di Lucia, per esempio, il più
intoccabile nell’architettura manzoniana.
Eppure quello spiritello beffardo e squisitamente bonario, che pungola in
ogni istante il subconscio del grande scrittore, è capace di rispuntare,
forse anche involontariamente, forse anche non gradito, in qualsiasi momento
della sua creatività, quasi come una seconda irrefrenabile birichina natura.
La comparazione che abbiamo voluto fare con il Manzoni non è senza una
ragione, poiché il medesimo indefettibile ‘humour’ che serpeggia in vene
nascoste in tutta l’opera manzoniana è possibile riscontrarlo in Orazio e,
anche qui, nelle opere in cui meno ci si aspetterebbe. Che Orazio abbia
meritato l’appellativo di ‘satiro’ perfino da Dante, come si è già detto,
potrebbe far pensare che l’ironia oraziana sia tutta concentrata nei suoi
due libri di “Satire”. Intanto cominciamo con il dire che quest'opera da noi
impropriamente chiamata “Satire” Orazio l'aveva intitolata semplicemente “Sermones”,
cioè “Conversazioni”. In realtà, si tratta di una sorta di confidenze che il
poeta intende fare amichevolmente e scherzosamente con i suoi lettori. Ma
poi il contenuto di questi diciotto “Sermones” si rivelò così argutamente
ironico e pungente che si è preferito dare fin dal titolo la sensazione
esatta di quello che era lo spirito cui tutta l’opera era improntata. Ma non
è tutto; cioè, non è soltanto nelle “Satire” che si manifesta il carattere
ironico di que-st’inguaribile umorista. Come nel Manzoni, così anche in
Orazio l’umorismo si coglie a piene mani anche nelle altre opere: nelle
“Epistole”, negli “Epodi” (nati addirittura sul modello greco dei poeti
giambici e poi, per mancanza di una vera e propria invettiva, per mancanza
di personaggi che facciano da bersaglio, anche qui predomina più il senso
umoristico che il senso acido dell’acredine). Ma l’umorismo oraziano sprizza
qua e là perfino nelle “Odi”, che dovrebbero essere rigorosamente opera di
alta poesia lirica. E la lirica - si sa - non ha nulla da spartire con la
canzonatura. Il lirismo è esaltazione vibratile, è trascendenza della natura
inferiore, è attingimento delle vette più alte del parossismo psichico.
Il prof. Rosario Assunto dell’Università di Urbino, nella sua monumentale
opera estetica, afferma che la lirica, come ogni altra forma superiore di
arte, se è veramente tale, dovrebbe essere capace di suscitare l’estasi. Io
non sarei così estremista; ma che, nella degustazione di un’autentica opera
d’arte si possano attingere vertici realmente sublimi e altrimenti
irraggiungibili, è una verità inequivocabile. Noi, qui, esordiamo puntando
direttamente al cuore dell’umorismo oraziano, cioè partendo dagli “Epodi” e
dalle “Satire” (o “Sermones” che dir si voglia). Osserviamone anzitutto il
momento cronologico che ci spiegherà non pochi dei motivi essenziali ed
esistenziali predominanti nel corso di quest’opera. L’epoca di composizione
è il decennio che va dal 40 al 30 a.C., cioè il periodo in cui si svolsero
le sconvolgenti battaglie di Filippi (42) e Azio (31), che, grossomodo,
aprirono e chiusero il decennio più drammatico della Roma repubblicana e
avviarono l’Urbe alla costituzione imperiale. Periodo malsano, torbido, irto
d’asperità civili, politiche e militari, in cui i più celebri protagonisti
dell’epoca si trovarono coinvolti su campi avversari nelle più feroci e
cruente repressioni che mai si fossero viste dalle origini di Roma.
Odi, rivalità, rancori personali diventarono, in nome della politica, teatri
di battaglie, di rivendicazioni personali e faziose che lacerarono la
cittadinanza in posizioni tragicamente attestate su fronti opposti e
insanguinarono con ferocia la coesistenza civile. Orazio, che nel 42 a
Filippi aveva combattuto nell’esercito di Bruto contro Ottaviano, dovette
sentire con straziante amarezza la sconfitta subita e, di conseguenza, lo
sfacelo dei suoi ideali giovanili che in Bruto avevano trovato rassicuranti
certezze e che, ora, con la morte del suo amico e protettore, lo spogliavano
di tutte le dolci illusioni di libertà di un appena recente passato,
allorché, appena ventenne, giunto in Grecia per completare i suoi studi, vi
aveva ritrovato non pochi concittadini fuoriusciti, rifugia-tisi in Atene
per coltivare e rinfocolare ideali di libertà repub-blicane, impossibili
ormai in Roma, dove la dittatura di Cesare diventava di giorno in giorno più
intransigente. Che anzi languivano paurosamente e si accingevano a spegnersi
del tutto. La morte di Cesare, non solo non aveva fruttato ai congiurati
l’esito sperato ma si era rivelata un fallimento totale, in seguito al quale
anche Bruto era dovuto fuggire e rifugiarsi in Atene. In tale circostanza
Orazio aveva avuto l’alto onore di essere convocato da Bruto, ultimo
‘manager’ della Roma repubblicana, e di essere arruolato nel suo esercito
con il grado di ‘tribuno militare’.
La disfatta di Filippi dunque non poteva non gettare un’ombra di grande
sconforto e delusione nell’animo del giovane poeta. Uscire da tale palude
alla maniera bucolica, come aveva fatto il più mite Virgilio, non si
addiceva al carattere grintoso di Orazio, il quale non sopportava
soprattutto la rottura fra quelle che erano state le sue aspirazioni e i
suoi ideali giovanili e l’amara realtà di cui si trovava ad essere
forzosamente succube. Ma sarà appunto tale e tanta acrimonia esistenziale
giovanile la scaturigine del sale amaro che modellerà tutta la sua futura
maniera di vivere, pensare, agire, fare letteratura. Ancora non era nemmeno
entrata nella sua vita (e nel suo cuore) la grande amicizia con Mecenate.
Cosicché, tornato a Roma, appena i torbidi politici gli consentirono di
farlo senza correre rischi mortali, come colui che aveva militato in campo
nemico ad Augusto, privo anche degli ultimi mezzi di sussistenza aviti,
essendogli stati confiscati i beni paterni di Venosa (sua patria d’origine)
come a tutti quelli che avevano combattuto contro Ottaviano, si adattò a un
modesto impiego di ‘scriba quaestorius’ (specie di scrivano o segretario al
servizio dei questori). Intanto continuava nella sua opera di scrittore di
Epo-di, Satire, Odi, Epistole. Dava sfogo in tal modo al profondo senso di
amarezza e al tradimento delle sue speranze politiche giovanili, cercando
conforto in una sorta di ‘filosofia del quotidiano’, che gli scaturiva
soprattutto da quei principi di filosofia epicurea, rivisitata in Roma
attraverso canoni non proprio rigidamente ellenistici e, in particolare, nel
caso di Orazio, conformemente alla sua indole e adattata alla sua voglia di
mettere a nudo errori, pregiudizi, tic di una società, rotta ormai ad ogni
vizio e libidine. Cause tutte che spingevano il suo spirito, già per natura
caustico, a placare le proprie amarezze, sia caratteriali che esistenziali,
nell’ironia della satira moraleggiante.
È per questo che gli “Epodi” costituiscono il suo esordio letterario. Era
una sorta di risposta sarcastica alle sconfitte giovanili, sia personali che
storiche, risposta dall’autore medesimo confessata allorché afferma di avere
seguito la scia di Archiloco imitatore però soltanto «numeros animosque»
(cioè i versi e lo spirito caustico) «non res» (cioè non l'argomento).
Quanto all’argomento (l’abbiamo già detto) aveva preferito come modello
l’inventore latino della satira, il poeta di Sessa Aurunca, Lucilio. Quindi
non più invettiva, rabbiosa implacabile alla natura di Archiloco, ma una
pacata canzonatura bonaria, senza alcun riferimento personale. Naturalmente
anche rispetto a Lucilio le cose cambiano di molto se si considera lo stile.
E anche a questo abbiamo accennato. Giova tuttavia ricordare ancora qualche
dettaglio. A parte le personali caratteristiche letterarie dei due, lontani
nel tempo, autori di satire, sarà bene tenere conto anche del fatto che era
appena passata in Roma la ventata del neoterismo.
Con tutti i suoi difetti, che avevano sollecitato il grande Cicerone a
definire spregiativamente i ‘neòteroi’ ‘cantores Euphorionis’, non si può
tuttavia negare che, proprio in virtù della retorica, il neoterismo aveva
contribuito non poco a raffinare lo stile. Con questo non vogliamo
assolutamente entrare in polemica per stabilire se Orazio sia stato
influenzato o meno dall’invadenza del neoterismo, anche se è assolutamente
vero che egli, per libera elezione, non fece mai parte di quei ‘poetae novi’
o ‘cantores Euphorionis’ che dir si voglia. E forse neanche il suo stile
forbito, aulico, raffinatissimo ha nulla da spartire col neoterismo, essendo
piuttosto frutto di evoluzione letteraria generale nella letteratura latina
del periodo aureo-augusteo e, in particolare, della serietà di studi e della
personalità artistica di Orazio.
Gli Epodi dunque costituiscono il suo esordio lette-rario e fin da questo
esordio Orazio si sentì animato da un profondo bisogno etico e didascalico
contrariamente ai suoi contemporanei ‘poetae novi’ che propugnavano il
principio dell’arte per l’arte. Composti, come già accennato, fra gli anni
che vanno dal 42 al 30, quindi in un arco di tempo relativamente lungo, gli
“Epodi” risentono di questa ascendenza-‘durata’. Ne risentono nella misura
in cui dagli anni immediatamente successivi alla battaglia di Filippi,
caratteriz-zati dalla più profonda delle crisi esistenziali del poeta, si
passa ad anni migliori, più tranquilli, in cui l’amarezza della bruciante
sconfitta poco a poco si placa cedendo il passo al rifugio in quella
rassegnazione filosofica che d’ora in avanti sarà il substrato di ogni modo
di pensare e di agire di Orazio e ne caratterizzerà vita e opere. Ma vediamo
di renderci più partecipi di tutto quanto affrontato finora in teoria,
addentrandoci nel cuore stesso dell’opera oraziana. E poiché abbiamo
esordito con gli “Epodi”, restiamoci ancora un po’ per conoscere finalmente
dal vivo quest’opera così singolare.
Molto interessante, ai fini del nostro assunto, si presenta l’Epodo secondo.
Apparentemente scombinato per quanto si riferisce all’argomento trattato, in
realtà è tutto un gioco sottile di finzioni e di ironie che prendono corpo e
consistenza dal finale del componimento (una sorta di ‘venenum in cauda’
alla maniera di Marziale), in cui l’apparente resa del protagonista a una
sana vita di campagna, come predicava e, in certo modo, imponeva la volontà
e la politica di Augusto, altro non è se non lo spunto per concludere alla
fine che, tutto sommato, è preferibile vivere di usura nel grembo della
grande città anziché in campagna, affidando a un incerto futuro la propria
impreparazione in fatto di agri-coltura. Il sarcasmo scatta in una risata in
quel terzultimo verso che suona «iam iam futurus rusticus», in cui nessuna
perifrasi italiana, per quanto lambiccata, riesce a tradurre l’irridente
ironia di quel «iam iam futurus rusticus» e che, solo grossolanamente,
possiamo rendere con la frase «il quasi laureando agricoltore», proprio nel
bel mezzo di una decisione, così ‘promettente’ in teoria, così aberrante in
pratica, ci ripensa, la abbandona di botto e si affretta a ritirare tutto il
denaro disponibile per continuare i suoi sordidi affari di usuraio in città.
Qualcuno, in quest’epodo secondo, ha creduto di scorgere, mutatis mutandis,
una certa satira al carattere mite e georgico di Virgilio. Se anche così
fosse sarebbe un motivo di più per constatare a prezzo di quanta amarezza
poteva essere commentato un sincero rapporto d’amicizia, quale era quello
che legava i due grandi poeti della Roma augustea. Abbiamo voluto fare di
proposito questa breve digressione sugli “Epodi” accennando soltanto al
secondo, che ci è sembrato il più icastico e idoneo al nostro assunto,
appunto per dimostrare, prove alla mano, come anche in un genere di poesia
giambica (poiché gli Epodi sono poesia giambica) la satira oraziana ha tutt’altre
caratteristiche della poesia giambica greca.
E veniamo finalmente alla satira vera e propria, cioè ai diciotto
componimenti intitolati “Sermones” o “Saturae”, divisi in due libri, 10 nel
primo, 8 nel secondo, che rappresentavano il ‘clou’ della produzione
satirica oraziana. Il verso, qui, è sempre l’esametro. Non più, cioè, i
versi che erano stati degli Epodi: il trimetro giambico, i sistemi
archilochei, in cui il dimetro giambico la fa sempre da padrone e i due
sistemi pitiambici, combinati fra esametro dattilico e dimetro giambico
acatalettico oppure esametro dattilico e trimetro giambico acatalettico.
Nelle satire nulla di tutto questo, bensì esametri e solo esametri. Segno
che il poeta prende sempre di più le distanze dai poeti giambici greci,
anche nei confronti della forma, oltre che dei contenuti. Anche per quest’opera,
come per gli Epodi, la data di composizione va dal 12 al 30, quindi ancora
una volta si verificherà il medesimo cambiamento di umore da uno stato di
maggiore asperità all’inizio, a uno stato di superiore pacatezza e serenità
di spirito con il passare degli anni e il mutare degli eventi.
Abbiamo accennato al fatto che il poeta aveva preferito intitolare
“Sermones” quelle che noi oggi chiamiamo “Satire”, volendo appunto
significare che intendeva dare a quest’opera un carattere colloquiale e
confidenziale. Non per niente la prima satira si apre con l’invocazione a
Mecenate: «Qui fit, Maecenas…». «Chissà perché, Mecenate carissimo, avviene
che al mondo nessuno sia soddisfatto della propria condizione…». Tuttavia,
per dovere di cronaca, è importante notare che la numerazione delle satire
non risponde ad un ordine cronologico. Abbiamo detto che la prima satira del
primo libro esordisce con l’invocazione a Mecenate. Questo significa che
essa è posteriore all’anno 38, anno in cui gli amici Virgilio e Varo
presentarono Orazio a Mecenate, che da quel momento lo prese sotto la sua
protezione, gli regalò una villa e un podere nella Sabina e divenne per
sempre la sua stella polare, l’amico cui Orazio indirizzerà tutte (o quasi)
le sue opere. Augusto entrerà molto più tardi nella sua vita e a lui sono
dedicati il “Carmen saeculare”, il IV libro delle “Odi” e la prima Epistola
del libro secondo.
La satira prima è quella dei vari mestieri e lavori dell’uomo che sembra
dimostrare la massima: «L’erba del vicino è sempre più verde», poiché,
secondo Orazio, ognuno pensa che il mestiere dell’altro sia più gratificante
del proprio. Il tutto, è vero, è condito con l’’acetum’ tipicamente
caricaturale dell’arguzia oraziana, ma è anche vero che, dietro questa
apparente e sorridente arguzia, rispunta l’ombra umoristica della componente
patetica: il pungolo della incontentabilità umana, tutto sommato, non è
tanto da con-siderare per il senso del ridicolo quanto piuttosto per il
tarlo della sofferenza che può e sa infliggere a ciascuno di noi. A torto o
a ragione, insomma, l’animo umano non trova moti-vo di conforto da questo
subconscio motivo esistenziale. A questo punto sentiamo squillare come un
campanello d’allarme. Abbiamo fatto mente locale ai vocaboli che stiamo
adoperando? Stiamo parlando di ‘subconscio’, di ‘esistenziale’, tutti
termini noti a noi, viventi del ventesimo secolo, usciti cioè da esperienze
freudiane e parapsicologiche, al giorno d’oggi ormai viete e scontate. Ma
riflettiamo per un momento che si tratta di termini inesistenti e affatto
ignoti ai tempi di Orazio. Eppure la nostra diagnosi di ‘moderni’ di
‘esperti in materia’ ci spinge a enuclearli con naturalezza dal magma
inconsapevole di autori inconsapevoli. Ma inconsapevoli di che cosa? Del
significante, cioè del vocabolo, della forma; non del significato, cioè di
una realtà che non ha ancora nome e che tuttavia esiste. Ecco un’altra
dimostrazione del nostro assunto fondamentale, della nostra tesi di
partenza: le cose esistono, la realtà esiste prima ancora di essere
scoperta, chiamata per nome, entrata a far parte della storia.
Pensiamo ancora per un momento ad un altro esempio, ad un’altra famosissima
satira: la nona (quella dello scocciatore). L’attacco stesso è un capolavoro
di umorismo: «Ibam forte Via Sacra…». «Passeggiavo a zonzo per la Via Sacra,
tutto assorto nei miei pensieri…», in cui quel ‘totus in illis’ ricorda
tanto da vicino il placido almanaccare di Don Abbondio sul nome di Carneade
in un momento di assoluto ‘relax’, in cui il povero curato era ben lungi dal
sospettare la tempesta che gli si stava per scatenare addosso. Sono due
momenti identici: a distanza di secoli, di personaggi, di situazioni, i due
principi dell’umorismo si incontrano, si ritrovano, si riconoscono, senza
essersi mai conosciuti. È il miracolo dell’arte, che, come la verità, è una
e una sola e che, di conseguenza fa pensare alla medesima maniera per-sone
disparate nel tempo e nello spazio, sia pure allo stato inconscio. E con la
parola ‘inconscio’ torniamo alle matrici freudiane cui già si è accennato.
Gli esempi, se volessimo ricorrere ad una casistica vera e propria, in
Orazio si sprecherebbero. Ma non è la casistica che può darci la cognizione
scientifica e la dimostrazione matematica del nostro assunto di partenza.
Preferirei, se mai, enucleare qualche vena nascosta di quest’umorismo
capillare che (lo ripetiamo) serpeggia ininterrottamente per tutta l’opera
oraziana e sconfina addirittura nelle Odi e perfino nell’ “Ars poetica”,
che, come tutti sanno, è opera demandata alla normativa e, pertanto, di
contenuto affatto serioso. Eppure anche qui lo spiritello beffardo di Orazio
trova modo di sprizzare, qua e là, mal contenuto e rendere sapidi anche i
precetti più aridi. Si veda ad esempio il «desinat in piscem» che,
attraverso la similitudine della sirena, provoca spontaneamente il buonumore
se riferito ad un verso mal riuscito. Lo stesso si dica (ibidem) per la
provocante montagna, divenuta poi prover-biale nei secoli, che, dopo i boati
del rumoroso parto, partorisce un ridicolo topo. «Parturient montes nascetur
ridiculus mus». Ma neanche le Odi rimangono, come già detto immuni
dall’inguaribile umorismo del poeta. E sì che qui si tratta solo di lirica
pura, anzi, diciamolo pure francamente, di lirica altissima, fra le più alte
della lirica universale.
Nelle odi Orazio ha profuso tutti i più grandi tesori del suo impegno
artistico, ma anche del suo impegno morale, filosofico, gnomico, spirituale,
sentimentale, patriottico, umano. Ebbene, anche una lirica di così alto
contenuto non manca di essere spesso condita del solito sale oraziano,
magari un po’ più raffinato, più aristocratico ed elegante, ma sempre
dettato dal suo inguaribile ‘humour’. Si pensi, ad esempio, alla teoria del
‘carpe diem’ (fra le più trite dei ricordi oraziani) che cela indubbiamente
un senso amaro e disincantato della vita e getta un lungo cono d’ombra sulla
palingenesi cristiana. Siamo cioè in un clima tutto pagano, come predicano
la constatazione della fragilità della vita e l’esortazione a non lasciarsi
sfuggire qualche raro momento magico, sottinteso in quel ‘carpe diem’. Come
pure affatto pagano è il significato di un’altra ode in cui si demanda agli
dei ogni responsabilità di futuro: «Permitte divis cetera» (è la nona ode
del primo libro, verso 9).
L’atmosfera, come ben si vede, è tutta permeata di paganesimo, condizionata
com’è dalla congerie di dottrine neoplatoniche imperversanti nella Roma
augustea e adattate grossolanamente alla mentalità latina, meno sottile e
meno sofisticata di quella greca. Ma i greci, in fatto di dottrine
filosofiche (neoplatoniche comprese) si sentono più responsabili perché
posti a confronto con un settore dello scibile, nato e cresciuto interamente
in territorio ellenico. C’è da osservare tuttavia che, all’interno di questa
atmosfera pagana, segni non pochi e non piccoli di stanchezza si andavano
evidenziando, anche e soprattutto a livello letterario. Non soltanto
Virgilio con la quarta Ecloga ma anche Orazio, con non pochi e sintomatici
concetti inseriti qua e là in tutta la sua produzione, postula la necessità
di un rinnovamento morale, che non ha nulla, è vero, da spartire con
l’imminenza del Cristianesimo, ma che in certo qual modo, ne anticipa alcuni
principi. Uno dei più validi mi sembra quell’‘amor patris’ (in cui quel
sintomatico genitivo ha la doppia fun-zione oggettiva-soggettiva) che Orazio
privilegiò per tutta la vita, ponendo la figura del padre così in cima ai
suoi pensieri e affetti da tramandare ai posteri come archetipo insuperato e
insuperabile, estraendola, anche dal bagno d’oro dell’umorismo, nitida e
lucente, mai scevra di quel rispetto formale e sostanziale che fu la
costante caratteristica del rapporto padre-figlio.
Anche quando nella satira sesta parlerà con disprez-zo di chi, trascurando
il ‘noblesse oblige’ si avvierà alla villeggiatura verso Tivoli per una
strada elegantissima, sulla quale si affacciavano le più sofisticate e
miliardarie ville patrizie, facendosi ridere dietro, lui questore, da chi lo
vedeva a dorso di un misero asino e con due soli servi di scorta, l’uno con
in mano il vaso da notte, l’altro un fiasco di vino, anche in tale
circostanza il poeta, colmo di giusto orgoglio, ricorderà per l’ennesima
volta il padre, di condizione modestissima, è vero, ma che, appunto per
questo, aveva libertato il figlio da qualsiasi jugulazione snobistica. Egli,
Orazio, figlio di liberto, egli ‘homo novus’ che tale rimase per tutta la
vita, non ha gli obblighi che hanno questori, consoli e magistrati vari nei
confronti della società romana. Egli può andare a spasso per il Foro,
girando da solo con la sporta della spesa per acquistare quanto gli occorre
per la casa e per la mensa. Ma non dimenticherà mai i tempi in cui,
ragazzino, il padre lo aveva tolto dalle scuole provinciali di Venosa, che
pure erano frequentate dai ricchi figli dei centurioni di guarnizione, e lo
aveva condotto personalmente a Roma presso i maestri più dotti e più severi,
non mancando di sacrificarsi a condurlo da un maestro all’altro e di
inculcargli, strada facendo, ogni più rigido principio di onestà, di sapere,
di moralità, ma anche qualche massima di compor-tamento utilitaristico.
Importantissimo inoltre, sempre a proposito di precognizioni cristiane (che
di cristiano, lo ripetiamo, hanno soltanto la fatalità della coincidenza)
quel passo delle “Epistole” in cui Orazio sente imperioso il bisogno di
iniziare un esame di coscienza e un revisionismo di tutta la sua vita
passata, alla luce di un rinnovamento di virtù autentiche, non tradite da
dottrine fallaci. Del resto quasi tutte le “Epistole” svolgeranno
insistentemente questo tema di un voluto, sentito e drammatico esame di
coscienza, sempre condito dal consueto sale umoristico che fa capolino anche
attraverso le opere di carattere moraleggiante. Del resto, il fenomeno della
tendenza alla moralizzazione presto comincerà a manifestarsi anche in
Grecia. Ed è fenomeno che può evidenziarsi benissimo proprio attraverso i
toni dell’umorismo, oraziano in particolare, che, spargendo sale sulle
ferite, intende, più che altro, risanare i mali della società, curarne le
cancrene, spronare a più alti ideali di vita e di cultura. Si pensi, per
esempio, per qualche istante, alla piaga della stregoneria: era così
radicata nella Roma imperiale che tutti i tentativi per combatterla rimasero
inefficaci.
Svetonio, nella vita di Tiberio, racconta le pene comminate a streghe e
stregoni, astrologi e relativi riti magici erano così raccapriccianti da
lasciare inorriditi. Ebbene, fu una legge rimasta sempre inevasa. (Tra
parentesi, pensiamo, per converso, un solo attimo, a quali aberrazioni non
si giunse, in secoli molto più recenti, allorché le medesime leggi, o quasi,
furono, viceversa, applicate con esagerato zelo dai vari ‘torquemada’ della
storia). Purtroppo, la piaga della stregoneria e delle arti malefiche e
ciarlatane non è stata superata nemmeno ai nostri giorni. Certo, nemmeno
Orazio si lasciò sfuggire l’occasione di scagliare le punte più acri del suo
umorismo contro questo tipo di malcostume. I nomi di Canidia e Sagana (le
streghe dei suoi tempi) ricor-rono frequentemente nella sua poesia e con
degna cornice di manifestazioni priapee ai livelli più grossolani e più
osceni. Ma giova anche sottolineare che la liberalizzazione sessuale era
dilagante ai tempi dell’Impero e fu causa non ultima della sua catastrofe
finale. Non ci si meravigli pertanto se anche poeti moraleggianti come
Orazio usino in materia un linguaggio caricatamente triviale e immagini di
una certa crudezza forse mai più raggiunte neanche dalle più degradate
pornostar dei nostri tempi. E cerchiamo di concludere questa nostra
carrellata dimostrando, con qualche esempio, come perfino nelle “Odi”
l’umorismo dell’Autore è sempre vivo e frizzante e può esplodere anche nei
momenti, nelle situazioni, nelle meditazioni più apparentemente aliene.
Anche qui la raffinatissima arte del poeta saprà ammannirci delicatissimi
intingoli e salse delicate rendendole sempre oltremodo gradite ai nostri
palati, vere chicche alla nostra attesa. Prendiamo come esempio l’ottava ode
del libro terzo, in cui liricità e umorismo si sposano a pari merito:
«Ti stupisci che giusto il primo marzo
il tuo incallito scapolone Orazio
festeggi chissà che con fiori, incensi
e col carbone acceso tra le zolle.
Che avrà a che fare con le ‘Matronali’
- starai pensando - uno tanto in gamba
che sa legger di greco e di latino?
Ebbene sì: tu forse ancor non sai
che questo è un voto, un voto assai importante
da me giurato nel giorno fatale
in cui rimasi vivo per miracolo
scampato per chissà qual sortilegio
a un albero abbattutosi ai miei piedi.
Sempre da allora un bel capretto bianco
ed un banchetto al dio Bacco promisi.
Sempre da allor nel giorno anniversario
un’ottima bottiglia di stravecchio,
ai bei tempi di Tullo posta al fumo,
strapperò, caro amico, insieme a te.
E ne berremo entrambi in quantità
alla salute del tuo amico illeso.
Berremo al lume di lucerne chiare
ma lungi da ogni tentazione d’orgia.
Niente frastuono. Niente Baccanali.
La lirica poi procede dritta per i suoi scopi celebrativi, tutta permeata
della più alta perfezione lirica. Ma torniamo un momento a quell’attacco, a
quell’esordio che è un concentrato di umorismo, questa volta complice della
più schietta e buffa ilarità. Immaginiamo il poeta tutto intento a preparare
i ‘suoi’ (e sottolineo suoi) riti celebrativi per festeggiare l’anniversario
dello scampato pericolo. Anzi, a questo proposito, cade opportuno ricordare
un altro celeberrimo scampato pericolo del nostro simpatico protagonista:
quello del lupo della Sabina, incontrato un giorno dal poeta mentre, solo e
pensoso, (come il Petrarca 13 secoli dopo) andava su e giù per i campi
rimuginando versi in onore di Lalage. Anche in quel terribile frangente il
lupo era andato per la sua strada lasciando miracolosamente incolume il
poe-ta, che, per inneggiare alla felice circostanza, aveva sciolto uno dei
più elevati e commossi canti lirici del suo repertorio: «Integer vitae
scelerisque purus…». Questa volta, lo scampato pericolo, dell’albero che
crolla repentinamente ai suoi piedi, il poeta lo celebra con una vera e
propria festa privata. Immaginiamo perciò Mecenate che, accogliendo di buon
grado l’invito dell’amico, si avvicina, vede da lontano quei preparativi.
«Diamine! - pensa tra sé - che caspita di riti intende celebrare questo
scapolone incallito?».
E per capire questo pensiero di Mecenate bisogna ricordare che il primo
marzo era una sorta di ‘Saturnali’ al femminile. Cioè quello che i Saturnali
(che, come data, coincideva, grossomodo, col nostro Natale) rappresentavano
per gli uomini, una festa cioè quasi orgiastica durante la quale perfino gli
schiavi, solo in quel giorno diventavano liberi e potevano perfino
pretendere di essere serviti dai padroni. (In pratica, naturalmente, non lo
faceva nessuno, perché altrimenti il giorno dopo avrebbero pagato a frustate
la propria baldanza). Il primo marzo di ogni anno, invece, la medesima festa
veniva organizzata dalle signore dell’antica Roma e prendeva il nome di ‘Matronalia’.
Si trattava di una festa in onore di Giunone Lucina, alla quale potevano
parte-cipare esclusivamente le donne sposate, poiché Giunone Lucina era la
dea che assisteva le partorienti, quindi il culto di questa dea era
esclusivo appannaggio delle donne sposate. Immaginate perciò il buon
Mecenate, che si avvia tutto solo all’invito dell’amico e si accorge e un
tratto dei preparativi della festa da una certa distanza.
Il suo primo pensiero sarà: «Che diamine di festa prepara questo scapolone
impenitente di Orazio, lui, uomo non sposato, in un giorno rigorosamente
sacro solo alle donne sposate?». Da sottolineare che un uomo che fosse stato
scoperto presente a una festa delle Matronali, sia pure travestito, era
passibile di esecuzione capitale sommaria, seduta stante. Perciò Mecenate
comincia a sudare freddo. In feste orgiastiche di tal genere, potevano
essere commesse azioni fra le più aberranti, senza dover rendere conto a
nessuno. Più che giustificato, di conseguenza, il panico di Mecenate. Quasi
a confortare se stesso, formula un secondo pensiero, un secondo
interrogativo: «Che ci sia qualche altra festa romana il primo marzo di cui
io non sia a conoscenza?». A questo punto la risata sgorga a tutto tondo.
Primo: è assurdo che Orazio si celebri da solo le Matronali con tutti i
rischi che ne potrebbero scaturire. Ma assurdo anche il secondo
interro-gativo perché è impossibile che un uomo colto, importante come
Mecenate, che sta tutto il santo giorno gomito a gomito con l’imperatore,
che è insomma la seconda autorità di Roma dopo Augusto e tenuto conto che
Augusto è un imperatore quasi bigotto e pensoso di tutti i buoni culti
tradizionali, che vuole siano ripristinati e osservati addirittura a termini
di legge, giusta la sua politica di riforme morali, religiose, sociali e di
costume, è impossibile che Mecenate, in tali condizioni, possa ignorare che
esista (e se esista) qualche altra festa datata primo marzo. Insomma, in
quest’ode liricità e comicità sono veramente al diapason: un concentrato di
altezza lirica e di comicità umoristica, più uniche che rare. Ci piace
concludere così questo nostro insufficiente ‘excursus’ (per una più
esordiente trattazione su un poeta come Orazio ci vorrebbe ben altro).
Comunque, sia pure in maniera sommaria e attraverso il solo tema dell’’umorismo’,
abbiamo pur potuto scavare attraverso questa personalità forte, complessa,
originale qual è appunto quella di Orazio, abbiamo potuto leggere attraverso
il suo discorso poetico, intriso di quieto vivere e di superiore visione
umoristica e umanistica della vita. Ed è sulle basi di tale ‘discorso
poetico’ che egli ha potuto erigere nei secoli e nei millenni il suo «momentum
aere perennius».
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