Gaetano Quinci |
Gaetano Quinci, affermato
poeta, si cimenta per la prima volta con un‘opera di narrativa, che lo pone
a buon diritto fra gli scrittori più accreditati del panorama culturale
contemporaneo. ‘La città di Caino’ (Premio Approdo 2000), intrigante per la
forza del tessuto narrativo e per l’eleganza stilistica, affascina il
lettore sia per l’arditezza delle situazioni descritte che per la preziosità
e la poeticità di talune raffinate immagini. Il racconto procede ad
andamento circolare: inizia con un viaggio verso un’ipotetica cittadina
siciliana e finisce con un altro viaggio dalla medesima città verso Milano.
In mezzo c’è la vita di tutti i giorni, un brulicare di personaggi che fuori
dal loro ambiente naturale non avrebbero ragion d’essere; vittime e
carnefici, tutti nella medesima barca a recitare la loro stramaledetta
parte, perché tutti, in un modo o nell’altro, pagano lo scotto dei loro
errori, sia che si tratti di debolezze e paure, sia che si tratti di
violenze e soprusi. Il libro fornisce della Sicilia uno spaccato vero, ma
angosciato e angosciante, perché non c’è pace né giustizia per i poveri,
come non c’è supremazia che duri per i ricchi.
In un continuo rincorrersi e superarsi di figure, trionfa solo lei, la
morte, descritta con crudezza di particolari, che rivelano nell’autore la
teatralità che gli è congeniale. Si veda, per esempio, la descrizione della
morte del povero Cacazza “sepolto da una colata di calcestruzzo nelle
fondamenta di una casa, legato mani e piedi, imbavagliato perché non
gridasse e solo, solo tra il fango e le pietre, e il silenzio dei suoi
carnefici, e gli occhi fissi, sbarrati, su quella bocca enorme e tonda della
betoniera che, rumorosissima, girava e girava intanto che si chinava verso
di lui per vomitargli addosso, in crescendo, la sua valanga di morte”. Al di
là dell’orrore che suscita nel lettore una simile descrizione, sembra quasi
che persino la betoniera abbia un’anima mafiosa, in tutto simile a quella
dei boss che la manovrano, come se anch’essa volesse “giustizia”! E il
vescovo, “quel nobile pastore” freneticamente atteso e osannato da tutti, si
ferma tre giorni nella città, passando da un lauto pranzo a una cena di
lavoro e si trova a suo agio coi “padroni”. «Un pranzo così è degno del
Paradiso!» confessa il vescovo ai fratelli Samporno. E i poveri? I poveri
soffrono e tacciono. Non hanno nulla da offrire, ma il vescovo non lo sa,
perché non siede a tavola con loro…
Le figure femminili o sono fragili e sprovvedute come Mimì, la quale in
chiesa, piuttosto che portare invidia alle gran dame impellicciate e
ingioiellate, si sente onorata di trovarsi seduta accanto a loro, o sono
spregiudicate e corrotte come le sette signore-bene che, svergognate da una
serie di foto, si ritrovano immortalate nelle loro squallide prestazioni
erotiche, delle quali tentano goffamente di offrire giustificazioni
plausibili, cui nessuno crede: tutte però sono disegnate a sbalzo, cosicché
non le dimentichi più. Ma su tutte spicca Maddalena Malasorti «che seppe
sollevarsi da sola, nel silenzio del sogno e della memoria»; l’unica che
aveva capito da che parte stava la vera giustizia e aveva avuto il coraggio
di ribellarsi allo strapotere. Morirà, con tutte le sue belle idee di
eguaglianza fra gli uomini, uccisa dalla Legge, perché i “sovversivi”, nel
regno dei potenti, non hanno diritto alla parola, né alla vita. E così, in
un mondo, che non è solo il siciliano, in cui «certuni possiedono tutto e il
superfluo di tutto, e moltissimi altri hanno niente e meno di niente» non
può e non potrà mai esistere la giustizia; «non resta – per dirla con il
Manzoni – che fare il torto o patirlo».
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