Il mito di Fedra negli autori classici


 

Nella mitologia greca, Fedra matrigna, sposata all’Argonauta Teseo, è innamorata del figliastro che respinge i suoi slanci. Ella si vendica denunciandolo al padre del giovane, quale insidiatore della propria virtù. L’orribile sorte di Ippolito voluta dall’indignazione paterna la rende responsabile, per cui si uccide. Secondo Virgilio, nel VII libro dell’Eneide, il giovane ama riamato Aricia, preda regale di guerra di Teseo. Un amore soltanto sognato, interrotto dalla morte quando proprio stava per realizzarsi, ma Esculapio risuscitò Ippolito che poté sposare la fanciulla. Il nome della sposa, della regia stirpe di Pallante di Trezene si è eternato in quello di Ariccia, cittadina laziale.
Il poeta-drammaturgo Euripide, nato nel 480 a.C. a Salamina, scrisse circa 90 opere di cui ne restano 19. Nel 428 rimaneggiò il dramma “Ippolito Velato” (o coronato) presentando il primogenito di Teseo indifferente alla Dea Venere ed alle sue arti, rispettoso invece di Diana, Dea della caccia. Il protagonista del dramma è Ippolito. Deuteragonista Venere, Fedra, Teseo; tritagonista Diana, il servo, la nutrice, il nunzio. Una specie di prologo della Dea Venere rivela il programma: Ciprigna non può perdonare a Ippolito la scarsa stima che ha lei... «Diana, a Giove figlia / suora di Febo, ei sola onora e stima / la maggior degli dei; tra verdi selve / con la vergine sempre accompagnato...». Il giovane rientra in quel momento seguito dai cacciatori inneggianti a Diana, Venere predice: «Ei dell’orco non sa le spalancate porte, e che a lui l’ultima luce è questa...». L’ignaro, ardito Ippolito ispira alla propria matrigna una passione conside-rata dai greci incestuosa, pur non essendo Fedra sua consanguinea, amore che egli respinge inorridito. La rivelazione o proposta viene fatta dall’incauta nutrice. Fedra, votata alla morte, s’impicca accusando il figliastro mediante uno scritto menzognero in cui denuncia violenze in realtà mai subite. Teso lo legge. Ingannato, scaccia il figlio invocando su di lui la collera di Nettuno, suo padre naturale. Un mostro uscito dal mare spaventa i destrieri del giovane che ormai in terra viene trascinato dai cavalli e ridotto in fin di vita; portato alla reggia paterna ancora in tempo per gridare la sua innocenza a Teseo, si riconcilia con lui. Diana stessa, Deus ex machina, conferma. La parte di Ippolito è fiera e selvaggia, ricca di grazia ingenua e nobiltà, quella di Fedra, in second’ordine, è ammirevole per la passione, la poetica sen-timentalità, la contraddizione segreta di un cuore che vuole e non vuole. Nel primo “Ippolito” il drammaturgo aveva co-struito il personaggio di Fedra più audace: era lei a dichia-rare il proprio amore ardente al giovane; correggendo se stesso, il Nostro ha lasciato in disparte un effetto altamente drammatico che Seneca, Racine, D’annunzio gli hanno ripreso. Nell’ultima scena l’Autore sottolinea con parole efficaci i particolari strazianti del giovane moribondo. Queste le ultime parole: «Forza il volto... nascondimi... col manto». Le eroine di Euripide rispecchiano i difetti femminili del suo tempo, conseguenza della scarsa fiducia riposta nelle donne. Verso di loro nasce un’avversione dolorosa e Ippolito è interprete di quel pensiero ripreso talvolta dall’Ariosto, Shakespeare, Milton; il coro conservato più che altro per rispetto dell’uso, diventa parte accessoria dell’opera. La protagonista euripidea è considerata forse la più malvagia delle Fedre: Ippolito non osa, ancora presente nella reggia paterna, svelare il segreto che umilierebbe Teseo, riferire cioè quelle rivelazioni lasciate fare dalla regina alla nutrice. I motivi del suicidio scritti e diretti al Re non ammettono dubbi: Ippolito è colpevole! La grecità di Euripide fu falsata dagli autori moderni per esigenze artistiche e culturali idonee ai tempi. Già Seneca, nel presentare un Ippolito fieramente avverso alle donne, esagera. Non subentra la giovane Aricia che in-vece Racine e D’Annunzio porranno a riscatto della illibatezza esasperata del giovane. Seneca consegna a Fedra la parte principale dell’opera: sarà imitato da tutti! Monodia di Ippolito e monologo di Fedra costituiscono un binomio in-scindibile rappresentando nell’insieme il totale programma della tragedia che non è più lo scontro di due divinità: Artemide e Afrodite, ma di due psicologie. Il coro senecano è destinato quasi ad una voce fuori campo che accompagna o commenta l’azione scenica, la narrazione del messaggero si tinge di macabro realismo, i personaggi sono realizzati in base ai canoni della psicologia stoica. La staticità della tragedia senecana è frutto di cultura latina, di rodine prevalentemente morale, egocentrico; il pensiero del Poeta è tutto percorso da pessimismo nei riguardi della storia e della società umana, la natura individualistica dell’Eroe greco e quella altruistica dell’Eroe romano, causa dei cambiamenti semantici dei personaggi, portano all’epos il Seneca drammaturgo. La doppia tragedia di Fedra è dovuta alle due confessioni: la prima direttamente a Ippolito, la seconda a Teseo della sua colpa; il conflitto della regione con la passione si interiorizza tanto da lacerare la volontà della donna che si trafigge con la spada. Ed è la voce del Re a chiudere la tragedia rivolgendosi ai servi: «Voi andate per i campi, in cerca dei brandelli del corpo, (di Ippolito) lei (cioè Fedra) gettatela in una fossa – sull’empio capo gravi la terra con tutto il suo peso».
Istam terra defossam premat gravisque tellus impio capiti incubet. Come sono stati interpreti il dramma di Euripide e di Seneca da Racine, quali le variazioni? La voce incerta della morte di Teseo, l’eroe mai sazio di imprese gloriose, offre l’infausta opportunità alla languente Fedra, di dichiarare il suo amore a Ippolito, figliastro che ella ha sem-pre tenuto lontano dalla reggia nel tentativo di vincere l’insana passione. La scena è in Trezene, città del Peloponneso. Come Seneca, Racine ha voluto in Ippolito un personaggio di second’ordine. L’interprete principale del dramma è Fedra prossima a morire d’amore per il giovane; in questo suo consumarsi ed estenuarsi tutti gli autori sono d’accordo. La dichiarazione della donna, punto forte del dramma, era stata ascoltata con meraviglia e sdegno dal figliastro, privato all’improvviso della sua spada da Fedra per essere colpita al cuore da lui! La regina aveva arzigogolato sulla morte presunta del marito Teseo per essere aiutata dal giovane nelle cure dello Stato, illudendosi di conquistare Ippolito almeno per questo motivo; la sua dissennatezza aveva sconvolto il giovane, fiducioso nel ritorno dell’argonauta. La nutrice Enone, confidente dell’infelice regina, prende le redini per aiutarla nella vendetta! Denuncia a Teseo, ritornato vivo e vegeto, le oscenità di Ippolito; quando Fedra, presa da pietà, vuole evitare che il Re lo punisca con la morte, esplode, sadica, la gelosia per l’imprevista rivale, Aricia, pertanto non rivela più al marito la sua colpa. Enone, scacciata, rimproverata dalla Regina, si getta nel mare donando ai flutti l’orribile segreto. Finalmente Teseo si pente di aver invocato Nettuno per punire Ippolito. Troppo tardi. Teramene ritorna visibilmente turbato: narra di un mostro furente che il giovane ha ferito con dardo, i cavalli spaventati dalla massa informe che si era abbattuta ai loro piedi non hanno obbedito al freno e alla voce di Ippolito che, travolto dai suoi stessi amati destrieri, è ridotto una piaga. Il nunzio dice di essere giunto fino a Ippolito seguendo le copiose tracce di sangue. Il povero moribondo ha la forza di dirgli: «Il cielo mi strappa una vita innocente; abbi cura dopo la mia morte, della triste Aricia. Amico, se un giorno mio padre, disingannato, sentirà pietà per la sventura d’un figlio falsamente accusato, digli che per placare il mio sangue e la mia ombra lamentevole, tratti la sua prigioniera Aricia con dolcezza...».
Teramene narra che con queste parole l’eroe è spi-rato; ora vicino a lui piange l’amata fanciulla. Fedra che ha ingerito il veleno, confessa al marito la passione che l’ha tormentata da sempre e l’innocenza del figlio, pronta ormai ad espiare con la morte le gravi sciagure. Teseo si riscuote dall’orrore e corre sul luogo della tragedia, deciso a prodigare le sue cure ad Aricia secondo le volontà di Ippolito. Il De Sanctis giudica la Fedra di Euripide una fuggevole apparizione, mentre nel dramma di Racine lei sola è un mondo drammatico. «Abbiamo la storia di un’anima in tutta la sua ricchezza, il suo amore è colpevole e lei lo sa... L’animo è scisso tra due forze opposte e pari: la passione e il senso morale. Date a questa donna un carattere risoluto e la tragedia muore sul nascere, ella non indugerà a prendere il suo partito. Tale è la Fedra di Euripide: nella stessa scena ascolti i suoi lamenti, scopri il suo segreto e la sua morte!». Effet-tivamente con Racine i colpi di scena si susseguono secondo gli umori della regina; lei, figlia di Minosse e Pasifae, donna trasformatasi in giovenca per allacciarsi con il toro bianco, non poteva non essere esecrabile ai propri occhi! Il poeta inglese Carlo Algernon Swinburne desiderò portare anche lui la sua Fedra in scena, ma il dramma restò un’esperienza letteraria. Forse il nostro Gabriele D’Annunzio s’ispirò, oltre che ai modelli classici più famosi, pure a quelli di autori mi-nori. Una Fedra nuova, sensuale, fascinosa, è propria, che supera per drammaticità e poesia le succitate. Egli ha definito la lotta di Fedra per la conquista di sé, l’affermazione della coscienza sull’istinto e sulle forze ottenebranti dell’inconscio, né rinunziò a rendere uniche le scene raffinatissime che coglievano in pieno l’essenza figurativa della tragedia. Silvio D’Amico ricorda il fasto essenziale, dovizioso, fiabesco del palazzo di Pitteo fra minacciose cupezze di toni bruni e splendori di porpora, architettura di una natura mo-struosa, fughe di colonne tozze e possenti... Visione della sanguigna Creta e del suo mare, insenature rocciose che si perdono nel mito. Le supplici madri, orbate dei loro figli, lamentano a guisa di corifee il vuoto doloroso degli eroi; sanno che Fedra è malata: non riposa, non si nutre, ma la sua lingua è biforcuta, riesce a far trasalire Etra, madre di Teseo; a far spaventare la propria nutrice Gorgo e le supplici stesse. Nel dramma dannunziano Aricia-Ipponòe è la bella schiava tebana, della famiglia dei pallantidi trucidati da Teseo. Preda di guerra, Cassandra in miniatura, l’indifesa fanciulla è destinata per la sua bellezza e regalità ad Ippolito; il messo Eurito (l’Aedo) informa Fedra di quest’assegnazione d’amore. La regina si fa condurre dalla nutrice Gorgo, la tebana. Pazza di gelosia la inganna con la dolcezza, poi la sacrifica sgozzandola con l’ago crinale: «Ricevi divinità profonda, il sangue puro di questa gola e scendi al sacrificio».
L’aedo è attratto dalla regina che gli dona una cetra “eburna” opera di Dedalo. Il nome, soltanto il nome di Ippo-lito la fa impallidire, sussultare; il bel cacciatore giunge molto lieto per un dono ricevuto: Arione, cavallo straordinario che egli è riuscito a domare; conosce il delitto di Fedra, sa di essere odiato, almeno crede, dalla matrigna. A lei dice: «La tebana, tu mi togliesti, contra il rito. Cressa! (cretese) La guardia sulla fossa dei sacrifici al lume delle tede (faci) coronata di grumi e di papaveri, Ah! Come bella! E le segrete cose dei fati eran nei grandi occhi non chiusi... oscura mi sei matrigna e lamentai la vittima». Ignorando di essere oggetto del suo tormento le dice di voler intraprendere un lungo viaggio perché vuole rapire un’adolescente bella come nessuna di nome Elena. Il discorso avvelena Fedra di gelosia, ma l’arrivo di Chelubo pirata fenicio capo di nave, la distoglie. L’abile commerciante mostra i suoi prodotti: erbe medicamentose, veleni, oggetti artistici, mantelli di porpora, tessuti originali, peltri, etc. Anche quest’avventuriero di mare ha visto la giovanissima Elena; Ippolito ascolta affasci-nato i racconti dei suoi viaggi, le descrizioni dei luoghi più strani. Si ode il sinistro nitrito di un cavallo: Arione.
La stanchezza opprime Ippolito che si lascia cadere sullo sgabello poggiando il capo riverso sulla colonna lignea socchiudendo le palpebre; Fedra congeda l’Aedo; dal fenicio accetta due vasetti contenenti l’uno il nepente, l’altro l’aconito. Le labbra di Ippolito sono socchiuse: Fedra si avvicina col suo passo di pantera: «Ippolito - gli chiede, - dove sei col tuo cuore?». «Non so, non so, qual grande ombra mi tiene». Fedra, le braccia nude, prende tra le mani il bellissimo capo avvicinando la sua alla bocca del ragazzo: «Ti preme le palpebre come il sonno?». Il giovane continua a bisbigliare, di-ce di aver veduto Elena tra le rose su di un breve Istmo. Egli immagina di parlare con il fenicio capo di nave, ordinandogli cose preziose da donare alla bellissima di Sparta. Fedra rimira il giovane, lo bacia con veemenza; Ippolito si scuote dal torpore del sogno, non vede che lei sola e la scaccia con forza; si tocca le labbra impresse dal bacio, ne indovina la natura e risponde alle parole e alle mire audaci della donna. «Non ti accostare a me che ti strisci obliqua come la pantera doma che può mordere». Alle ardenti espressioni di Fedra: «Lasciami, lascia ch’io parta, ch’io non oda più il tuo grido insensato, che più non mi contamini del tuo alito, o inferma!» Fedra sciorina le vittorie delittuose di Teseo, le debolezze della madre di Ippolito, promette a lui mari ed isole! Il ragazzo l’avverte di non tentare il suo odio, Fedra di rimando gli dice che l’amazzone, sua genitrice, è stata uccisa da Teseo stesso. Accecato dall’ira egli impugna la mannaia e afferra per i capelli la diabolica donna ma si trattiene, intende le maledizioni di Fedra che lo tenta e lo provoca con il seno scoperto per essere trafitta. Le grida: «Ma quale delle Erinni, quale col tizzo inferno t’affoco?». Finalmente arriva Gorgo. «Strappala da me, Gorgo, toglila!». Riesce da solo a divincolarsi mentre l’innamorata minaccia e invoca. La sàgari amazzonia è rimasta sul pavimento... Giunge Teseo sorpreso di aver visto fuggire irato il figlio, chiede spiegazioni alla moglie, conscio dell’odio che ella nutre per il figliastro, a cui ella ha ucciso Ipponòe. Le dice che lo toglierà presto dai suoi occhi perché sposerà Elena. Ora la menzogna riempie di sadico sapore e piacere la regina che rivela di essere stata posseduta da Ippolito, rabbioso della perdita di Ipponòe e tutto è avvenuto con la forza contaminando il talamo nuziale. Inoltre si presta al giuramento stendendo le mani verso terra: «Gli iddii del fiume Stigio ne siano testimoni!». Nell’ultimo quadro del terzo atto, spettacolare è l’apoteosi della morte. Ormai il cadavere dell’amazzone giace a terra nell’anfratto della marina di Limna; dietro l’argine è il bosco di Diana. Il pianto di Etra, madre di Teseo, cessa nel sentire descrivere dall’Aedo Eurito d’Ilaco la terribile morte di Ippolito. Anche gli occhi degli Efebi si asciugano mentre le mani premono le criniere dei loro cavalli; dal suo macigno Teseo balza con grande fremito. L’aedo narra: «Quando all’ara fu tratto il toro bianco per l’offerta, il cavallo Arione, aombrò, mugghiava il toro e reluttava, il toro, in salti e in slanci irsuto di pino aspro le corna...». Il toro non voleva morire. «E udimmo acuti stridi di aquila scendere dalla rupe d’Afrodite. Ma vinse il cavaliere (Ippolito) o forse parve: che l’ippocampo giù ricadde e, come se volgesse il freno, galoppò verso il bosco d’Artemide Saronia cui sovrastava dal rialto il rogo, del toro che pur arde al nostro lutto. Dea, Dea! - gridò l’Efebo - Con un orrido ringhio Arone là contro la rupe sbattendo franse a Ippolito il ginocchio; scendere ancora udimmo gridi d’aquila dalla cima: era Fedra e nello scrollo il corpo nudo (di Ippolito) scosse (non udire, volgiti, non udirmi più re Teseo! Là sopra il masso dove siedi, Teseo!) E mosse con le froge il semivivo, nell’ombra lo fiutò: di bava intriso l’addentò per il ventre, gli sbranò gli inguini».
Il pianto invade famiglie, servi, efebi, supplici... improvvisamente gli aurighi sentono giungere il carro di Fedra, accolta da un grido immane: «La Cretese!». Fedra scende, eterea, solenne, pone sotto il capo del giovane la mannaia amazzonica, sostiene di amare e di aver amato la vittima, maledice la dea Diana che non così ha adorato Ippolito, lui che la venerava. Quest’oltraggio ad Artemide provoca un fremito d’orrore. Bianchissima appare la Dea dal bosco, ma Fedra non teme la morte e si accascia vicino al giovane, unita a lui per sempre.
L’Aricia di Racine che piange sul cadavere dell’amato, nella Fedra di D’Annunzio muore senza conoscere il volto di chi la desiderava, vittima innocente della Cretese. E, se la regina di Racine ha sulla coscienza il suicidio della nutrice, l’eroina di D’Annunzio non si serve di Gorgo; la sua dichiarazione d’amore a Ippolito è delle più veementi e drammatiche. Non divina, non umana, Fedra sembrerebbe trionfare. Il Vate le fa pronunciare accuse di delitti, di cattive azioni, di quella gloria di Teseo costellata dalla morte dei suoi consanguinei, (figli del proprio fratello Pallante) – gli oltraggi diretti ad Ippolita, amante di Teseo, madre del ragazzo, vogliono umiliare e piegare ai suoi voleri il giovane, magari per farsi uccidere da lui. La donna ammalata d’amore, vedeva nell’efebo il Teseo di un tempo. D’annunzio riesce, nelle supplici, nei messi, negli efebi, nei cavalieri, nei servi, a far ricordare i corifei del teatro greco. L’Aedo Eurito d’Ilaco aveva concesso ad Ippolito di definire la propria personalità: «Io sono colui il qual porta / le parole che traggono ben presto il pianto agli uomini / ma riempiono d’orgoglio il cuor nascosto / e conservano l’ultima speranza». Le parole di Fedra che nota l’offerta dell’Aedo della cetra eburnea - opera di Dedalo - all’ara funebre di Ippolito sono la catarsi del dramma. Nel descrivere il citaredo, D’Annunzio, forse, ha voluto adombrare se stesso.


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