Umberto Cerio
di Francesco
Di Rocco
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Arcipelago di
Umberto Cerio, (Edizioni Noubs Chieti 2003)
«...E la sera, nel cuore,
siamo più vuoti di prima…». Si chiude con questa “presa d’atto” (o,
piuttosto, una previ-sione) la prima lirica “I figli di Dioniso”. Questo è
il punto di partenza poiché figli d’Ellade lo siamo tutti; è innegabile che
la “Summa” filologica del poeta sia davanti ai nostri occhi... Egli è il
cantore d’un tempo illustre, sa di che materia sia la poesia; è pietra
antica di turrite mura a difesa inespugnabile della storia di una lingua
nobile, contro gli attacchi dalla vacuità ”globale”. Lo dice bene lo stesso
autore, quando nella presentazione a dichiarazione d’intenti, afferma che la
nostra società “non offre motivi di gioia”. Sintassi tragica del nulla,
perché sulla bocca degli uomini non c’è più parola: che fare allora?
Risposero i romantici inglesi nel primo Ottocento con il classicismo
ellenico, allo stesso modo fa Cerio. Ma la cifra stilistica dello scrivere è
raffinata tecnica sagace di timbro sinfonico. Orchestrazione magistrale
della melodia dell’”animus” cosmicogonico, un arcipelago della memoria, per
l’appunto.
Si tratta di alte latitudini liriche, ma non parlerei di mito, né tantomeno
di fisiologie mitologiche, si può ipotizzare una disgregazione culturale in
atto. La lingua italiana, ha perso inesorabilmente la sua funzione,
contaminata com’è, ma direi, piegata, asservita alle “esigenze” estetiche
della cultura di massa. Lingua, che a questo punto, non può che essere
rivitalizzata dal mito, antidoto necessario all’avanzato stato di decadenza
culturale - catastrofe già vista e annunciata -, perché, diciamocelo,
l’occidente opulento ha perso la sua maschera, e i suoi dei, non essendoci
più il muro a nascondere le sue colpe. Dunque, lingua del mito, paradigma di
tutta una cultura mediterranea che s’impone di prepotenza nella narrazione,
come ipoteca di future storie. Il poeta offre la sua sapienza linguistica
quando dà corposità semantica ai labirinti della memoria, ma al contempo
compie un’operazione di notevole spessore, poiché la sinfonia “scritta” si
sublima nella purezza lirica. Cerio è autentico primattore della classicità
e i confini della scena sono i temi del diàlogos corifeo (Dedalo e Icaro), e
di volta in volta entrano in gioco luoghi, visi, accenti, il tutto per
necessità di ritmo teatrale. Ecco la classicità: la skenè è il palco
drammatico delle maschere. Tragiche, grottesche, buffe; la beffarda ironia
del cerchio del tempo che si diverte a ritornare allo stesso punto per
tormentare gli uomini quando non hanno più senso concetti come storia,
memoria, destino. Dialoghi intensi di alta tensione drammatica, ma tutt’altro
che archetipi, si sente, al contrario, il ritmare ossessivo delle metropoli.
Non c’è via d’uscita al consumismo devastante, ma se il fato, nell’Ellade
aveva la meglio sull’eroe tragico, il poeta del terzo millennio, sebbene
senza punti di riferimento, non soccomberà, perché ha dalla sua il magma
interiore per resistere all’anonimato. Senza dubbio si può dire che la
ribellione è l’alternanza sillabica del ritmo giambico, Cerio è il corifeo,
il drammatico che invade la scena e narra il posto delle cose, è il
protagonista della notte che non può finire. Egli è il giullare che canta
una melodia struggente ad una sovranità assente, il circolo della
brevicronia del silenzio, che assume dignità letteraria, perché se c’è
un’anima, non può che avere “un tuono infinito”. Poesia colta, è questa di
Cerio, per chi sa leggere e parola per chi sa ascoltare, è un’intima
passione che presuppone la sofferenza. Possiamo dire, a conclusione che se
il nulla è la realtà moderna, il lirismo di Cerio è l’agone che sfida tutte
le iconografie vacue, e la tem-poraneità assente è il corpo necessario per
essere presente. |
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