di Alfonsina Campisano Cancemi

Enzo Di Gregorio, Evasioni dall’impossibile, (Ed. Otma – Milano 2001)

Inizierei, nell’analizzare la raccolta di Enzo Di Gregorio “Evasioni dall’impossibile”, con le affettuose parole che il poeta rivolge al lettore: «Caro lettore, so che amerai questi versi, / così come io per scriverli ho dovuto piangere». Da esse emergono due sentimenti-chiave che percorrono tutta l’opera: l’amore e il dolore, sbalzati nel marmo con violenti scalpellate o dipinti con delicati toni impressionistici, nel continuo disperato tentativo dell’autore di dare un significato alla illogicità della vita. E così, chi s’inoltra nel mondo di quest’originale poeta, si ritrova inevitabilmente coinvolto in un ginepraio di situazioni, sentimenti, sensazioni che ora si presentano come folgorazioni luminose su distese marine e verdi prati, ora come mostri e diavoli che spalancano baratri orrendi.
Si avverte nel poeta una dilacerazione interna, una dicotomia fra il bene e il male, uno stato d’animo oscillante fra l’amore per la natura e la coscienza dell’umana precarietà, fra l’orgoglio di essere uomo e il pensiero della propria impotenza di fronte al male del vivere. L’autore, “un eroe divorato dal nulla”, si dibatte fra urla di dolore punteggiati da frequenti e arditi esclamativi e meditazioni dolcissime sull’essenza stessa dell’amore e sulla bellezza della natura, che sembra quasi dominare impassibile, con il ciclico alternarsi delle stagioni e con il perenne movimento delle stelle, sul tragico fluire delle umane sorti; anche se talora gioca il poeta con le parole, divertendosi quasi ad esorcizzare i tiri mancini della malasorte: «Ti mando all’inferno per via legale / mi disse un giorno il destino. / Vai tu, e chi ti propone d’esser tiranno; / risposi angelicamente io». Ma il vero dramma per il Nostro è una profonda crisi d’identità: «…mentre io mi perdo tra voi / perché non so più chi sono». Lo scrivere è per lui un’ancora di salvezza, come il continuare a credere che «il sole possa sciogliere i ghiacciai che sono dentro la gente», ma la poesia non gli dà la pace interiore. Egli si definisce «un misero poeta malato di / stanchezza e pieno di paure». E ancora: «Fuggirò dalla schiavitù dei versi…/ Fug-girò dalla poesia / che mi ha sbranato l’anima».
E l’amore? Anch’esso viene vissuto come un mo-mento felice che non è più, una rondine in un cielo ritornato oscuro. Le donne da lui cantate (Matilda, Marika, Sara, Sil-via, Antonella, «l’amica di pochi giorni d’estate») sono carezzate dalla penna e dal cuore dell’artista che a loro completamente si abbandona («io sono un poeta ragno / io so che essa è la mia ragnatela»); e non importa se sono creature realmente esistite o fantasmi nati dalla fantasia dell’artista: sono là, per sempre vive, perché un poeta le ha cantate. Ma allora, se l’amore è un sogno destinato a svanire e la poesia un’illusione, che cosa ci salverà dall’angoscia esistenziale? Forse la solidarietà fra gli uomini, quella stessa solidarietà che già auspicava il Leopardi della “Ginestra”. «Andiamo oh uomini! - dice il Nostro - Andiamo! Seguitemi! / Vi conduco verso una convalle di girasoli / che giurano di essere nati apposta per noi». Ma gli uomini non lo ascoltano, come non è ascoltato quel danzatore che va nei cimiteri e nelle città cantando la sua canzone d’amore e di resurrezione: i morti vogliono dormire sulle loro infelicità e i vivi sono sordi o distratti. Unico rifugio Dio, «colonna portante», «spina dorsale che sorregge il corpo / e pure l’anima»; quel Dio a cui il poeta romano leva la sua accorata preghiera; quel Dio gigante che si fa piccolo piccolo per lui, affinché «un povero uomo», tormentato dai dubbi, lacerato dalle continue ferite, possa finalmente trovare la sua pace.