di Pietro Civitareale

Francesco Di Rocco, Dicta notturna e l’oggettività della parola (Noubs Ed., Chieti 2003)

In questa raccolta di versi Francesco Di Rocco riesce a conciliare la poesia ‘apocalittica” di un Eliot, di un Auden, di un Thomas con quella “maledetta” di Rimbaud, di un Baudelaire, pervenendo ad uno stilismo composito, che si avvale di una vasta gamma di risorse tecniche; una poesia, dunque, la sua, d’ascendenza colta, con la quale esprime con un grado di notevole intensità e complessità, le ansie e le esperienze della sua generazione, l’irrazionalismo esistenziale dell’uomo moderno. Questa connotazione era già rilevabile in “Pentagramma di Babylonia” (una raccolta di versi del 1996 il cui titolo è fortemente indiziario nei senso sopra detto); la si ritrova ora in “Dicta notturna”, dove il discorso poetico, pur conservando la connotazione stilistica della precedente raccolta, corre filtrato e diaframmato da una più allucinata meditazione e drammatizzazione della condizione dell’uomo contemporaneo. Ma ciò che colpisce ancor più in questa sua nuova prova poetica è l’estrema persona-lizzazione del linguaggio che fa della sua poesia uno degli esperimenti di più autentica novità compiuti in questi ultimi anni intorno alla materia verbale; un esperimento il quale, pur non escludendo una intenzionalità comunicativa, finisce per estrinsecarsi in un processo di tipo associativo che conferisce al dettato poetico il crisma di una oggettività chiusa ed a tratti impenetrabile.
Se il linguaggio, come è stato detto, è la rottura di una totalità che esige un atto riparativo, nel caso di Di Rocco esso assolve ad una funzione restaurativa e per certi aspetti estraniante; e ciò porta il soggetto a riconoscersi in una parola alla quale è demandata ogni iniziativa intesa a frapporre una barriera consolatoria tra l’io e il mondo. In tal senso, quello di Di Rocco e un gesto poetico nel quale il linguaggio, ripiegandosi costantemente su se stesso, incontra soltanto il proprio spessore fonosemantico, reso evidente dal suo articolarsi in una compatta struttura sintattica, dal suo indulgere in reiterati abbinamenti ossimorici, dal suo negarsi ad ogni possibilità di conoscenza razionale della realtà del mondo; e se nel libretto del 1996 era il titolo a dare conto del “disordine” cosmico nel quale l’uomo si trova immerso, in “Dicta notturna” è il titolo della iconografia di copertina a stabilire la posizione del poeta rispetto alla realtà delle cose; una posizione che io definisco come “presenza discreta fuoriscena”, a specchio di una estraneità che non è soltanto individuale e generazionale, ma dell’uomo in quanto tale, in quanto cioè “animale incosciente” del quale non è dato di conoscere le ragioni dell’esistere. È questo un modo consapevole di restituire alla parola quella oggettività e quella razionalità smarrita nel vuoto che assedia, quando sottrae credibilità alle sue convinzioni, senza mortificarne tuttavia le virtù liriche, evocative, fantastiche, anzi adeguandole alla linea che attraversa da parte a parte la sua personale esperienza di vita.