Federalismo da completare (Brevi osservazioni sulla riforma del Titolo V della Costituzione)

di Tommaso Edoardo Frosini[1]


 

1. Quale federalismo?

Le modifiche al Titolo V della parte seconda della Costituzione italiana (dall’articolo 114 all’articolo 132) votate ed approvate da una stretta maggioranza parlamentare e poi legittimate col voto referendario e quindi divenute legge costituzionale n.3 del 2001, aprono un nuovo scenario su quella che si usa chiamare la forma di Stato italiana (anche se sarebbe più indicato dire: il tipo di Stato). Si tratta della prima grande riforma costituzionale, perché innova significativamente un’intera parte della Carta costituzionale dedicata ai rapporti fra centro e periferia. E la si può ritenere conseguenziale alla riforma già varata - con legge costituzionale n.1 del 1999 - sull’elezione diretta dei presidenti di Regione e sull’autonomia statutaria delle Regioni stesse. In tal modo, infatti, si è provveduto a completare il quadro costituzionale inerente alle autonomie locali, attribuendo alle stesse il compito di essere innanzitutto delle… autonomie; visto e considerato che adesso hanno una serie di prerogative e poteri non più subordinati alla volontà statale.

In questo breve intervento, però, vorremmo mettere in rilievo le ombre più che le luci della riforma, provando a dare risposta ad una domanda assai rilevante, che è la seguente: questa riforma è stata presentata come una riforma federale dello Stato: ma è federalismo quello che si è introdotto a livello costituzionale? C’è da dire, che dell’organizzazione degli Stati federali, secondo l’esperienza comparata, la riforma non ha previsto un elemento assai significativo, tale da connotare fortemente il federalismo. Si tratta della seconda Camera rappresentativa delle sole autonomie territoriali, una Camera delle Regioni per intenderci, in grado di coagulare gli interessi territoriali all’interno di un uni-co organo decisionale (non può certo essere considerata suf-ficiente l’integrazione con rappresentanti regionali e delle autonomie locali della Commissione parlamentare per le questioni regionali, prevista dall’articolo 11 della riforma, e la diversa maggioranza richiesta per l’approvazione di leggi nel caso di parere contrario o condizionato della Commissione integrata). L’esperienza degli Stati federali dimostra come non siano possibili forme di federalismo, o anche solo di “regionalismo avanzato”, in mancanza di luoghi di rac-cordo tra Stato e enti regionali: ovvero, una governance caratterizzata da una molteplicità di livelli di governo richiede necessariamente meccanismi di coordinamento, centrali, interregionali, interlocali.

Certo, non esiste un federalismo, ci sono invece diversi federalismi, specialmente se si accetta la teoria di uno dei massimi studiosi dei sistemi federali, Carl Joachim Friedrich, secondo il quale il federalismo o è dinamico o non è. In tal senso, il federalismo è un processo la cui evoluzione è dovuta alla capacità dei singoli enti locali di svilupparsi e di organizzarsi autonomamente, all’interno di una cornice costituzionale. In quest’ottica, allora, è ancora presto per qualificare il disegno costituzionale italiano come federale oppure no. Comunque vada, sarà un “federalismo italiano”: così come c’è il federalismo tedesco oppure quello spagnolo, che non sono affatto la stessa cosa.

 

2. La Repubblica delle autonomie locali e dello Stato

Va subito detto che la riforma costituzionale apre degli spazi nei riguardi di una prospettiva dinamica, che le Regioni dovranno saper sfruttare al meglio. Innanzitutto, il nuovo articolo 114 della Costituzione mette tutti sullo stesso piano: Stato, Regioni, Province, Comuni e Città metropolitane costituiscono la Repubblica. Un impianto geo-istituzionale orizzontale, non più verticale, con al centro Roma capitale della Repubblica. La parte più significativa e “rivoluzionaria” della norma è quella prevista nel primo comma, che così recita: «La Repubblica è costituita dai Comuni, dalle Province, dalle Città metropolitane, dalle Regioni e dallo Stato». Una siffatta disposizione costituzionale va incontro ad una serie di osservazioni critiche, che qui vogliamo riferire. Con una premessa: da un punto di vista politico, l’equiparazione formale dello Stato con gli enti locali provoca una sicura valorizzazione di questi ultimi, sottraendoli alla tradizionale impostazione e concezione, che vuole che le periferie siano costituzionalmente subordinate al centro. Insomma: se l’obiettivo politico era quello di esaltare l’ente locale, allora lo si è raggiunto; grazie ad una norma che mette Stato ed enti locali sullo stesso piano, come se fossero la stessa cosa anche perché insieme costituiscono la Repub-blica.

Da un punto di vista del diritto costituzionale, in-vece, si possono avanzare alcune riserve. La prima riguarda una possibile violazione di un principio fondamentale del nostro ordinamento costituzionale, espresso all’articolo 5, e che si riferisce alla “unità ed indivisibilità della Repub-blica”. Ora, stante il nuovo articolo 114 della Costituzione, la Repubblica non sarebbe più unita e indivisa in quanto Stato, ma piuttosto sarebbe identificabile “anche” con lo Stato, al pari delle altre entità territoriali. La Repubblica di-venta così una sorta di condominio nel quale convivono cinque entità politiche pariordinate e giustapposte non aventi più un punto di riferimento unitario. La nozione di Repubblica, che è una nozione carica di significati quasi meta-costituzionali tant’è la sua forza semantica, si verrebbe ad identificare, come già detto, con l’articolazione territoriale dei livelli di governo: tutti, certo, legittimati democraticamente, ma non sufficienti ad esaurire la più ampia nozione di Repubblica democratica espressa dall’art.1 della Costitu-zione. Infatti, la Repubblica è un assetto che si alimenta dal basso esprimendo il principio democratico, il quale si realizza nella molteplicità di espressioni della sovranità popolare. Certo, tra tali espressioni vanno annoverate le autonomie territoriali, ma accanto ad una pluralità di strumenti di esercizio della sovranità popolare. Pertanto, le autonomie territoriali non sembrano poter esaurire il concetto di Repubblica e il principio democratico non può riferirsi solo all’articolazione sul territorio di livelli di governo. Altra cosa sarebbe stata, invece, se il legislatore costituzionale avesse predisposto una formula di questo tipo: “L’ordinamento federale della Repubblica si articola nei Comuni, nelle Città metropolitane, nelle Province, nelle Regioni e nello Stato”. In tal caso, si sarebbe opportunamente accentuato il fenomeno distributivo, ovvero dell’articolazione territoriale della Repubblica italiana: così come sarebbe opportuno che fosse; e non certo il fenomeno costitutivo della Repubblica, che affonda le radici ed esprime la sua forza costituzionale soprattutto nella parte prima della Carta fondamentale dell’ordinamento repubblicano, ovverosia nella Costituzione dei diritti e poi in tutto il suo dispiegarsi normativo a partire dall’articolo 1, che va letto in combinato disposto con l’articolo 139, il quale afferma che: “La forma repubblicana non può essere oggetto di revisione costituzionale”.

 

3. Il "diritto sociale territoriale" e gli interventi perequativi

La concezione orizzontale emerge altresì, seppure in maniera non perfettamente simmetrica, nel nuovo articolo 117 della Costituzione: laddove, cioè, si fissano quelle che saranno le materie sulle quali lo Stato avrà legislazione esclusiva, lasciando, in tal modo, alla potestà legislativa regionale tutte le competenze residuali. Certo, le materie riservate allo Stato sono molte, e vanno ad incidere anche su tematiche che forse sarebbe stato meglio lasciare all’organizzazione regionale. Come per esempio l’ambiente e la legislazione elettorale e gli organi di governo di Comuni, Province e Città metropolitane. Si tenga conto però, che l’inversione della clausola (legislativa) a favore delle Regioni, costituzionalizzando quanto già fatto dalla legge n.59 del 1997, permetterà comunque una più agevole e stabile definizione degli Statuti regionali, ai sensi della legge costituzionale n.1 del 1999. Per quanto concerne un ulteriore ampliamento delle materie di competenza regionale, c'è adesso da segnalare il disegno di legge costituzionale presentato dal governo, che mira ad estendere in favore delle Regioni competenze legislative in tema di sanità, istruzione e polizia locale (e su questa proposta diremo qualche cosa nella parte conclusiva di questo nostro intervento).

Si deve poi ricordare il nuovo articolo 118 della Costituzione, con l’introduzione del principio di “sussidiarietà”, che potrà divenire il nuovo concetto guida sia dei rapporti in senso orizzontale pubblico-privato, che dei rapporti in senso verticale centroperiferia. In particolare, sotto quest’ultimo aspetto, la sussidiarietà scatterà nel momento in cui le Regioni da sole non riusciranno a realizzare i loro compiti, ed allora potranno chiedere “sussidio” allo Stato. Ma qui, proprio sulla possibilità delle Regioni di farcela da sole, di progredire e di valorizzarsi, di svilupparsi e di competere con le altre Regioni, si vuole muovere una critica alla riforma costituzionale. Si tratta della eliminazione del riferimento all’obiettivo della “valorizzazione del Mezzogiorno e delle Isole”, di cui al (vecchio) articolo 119 della Costituzione. Si trattava di un riferimento che era stato fortemente e coscientemente voluto dal Costituente, il quale volle così costituzionalizzare il problema della valorizzazione dell’assetto civile, economico e sociale del Mezzogiorno e delle Isole. Quasi una disposizione di “diritto sociale territoriale”, volta a promuovere e perseguire lo sviluppo economico e la coesione sociale nell’area meridionale, che non è solo la zona sud del Paese ma è anche “una maniera di essere di alcuni milioni di abitanti”.

Come emerge in un recente Rapporto elaborato dalla SVIMEZ, frutto del lavoro di una commissione di giu-risti (fra cui anche chi scrive), pur nell’assenza del riconoscimento costituzionale della “valorizzazione” del Mezzogiorno, nulla parrebbe precludere alla Repubblica di perseguire l'obiettivo della reale unificazione economica del Paese. Anzi: un’azione integrale finalizzata alla crescita complessiva della macroregione arretrata ed il conseguente potere dello Stato a porre in essere interventi speciali per conseguire l’obiettivo, deve considerarsi pienamente compatibile con l’adozione di un ordinamento federale dello Stato. Infatti, gli interventi perequativi, previsti nel nuovo articolo 119 della Costituzione, traggono la loro consistenza costituzionale su principi fondanti l’ordinamento repubblicano: il principio di eguaglianza (articolo 3 Cost.), il principio di unità della Repubblica (articolo 5 Cost.) e il principio del buon andamento dei pubblici uffici o degli enti privati gestori di servizi pubblici (articolo 97 Cost.), che si concretizza anche nell’adozione di regole omogenee, in quanto le prestazioni lo richiedano. Infine, non si deve dimenticare che proprio negli Stati federali, più ancora che negli Stati accentrati, l’attuazione dei valori di solidarietà e di unità nazionale è affidata all’impegno di risorse comuni a sostegno dello sviluppo delle Regioni in ritardo o in crisi.

Il testo della legge costituzionale attribuisce forme di autonomia finanziaria agli enti territoriali, limitandosi però a prevedere una potestà tributaria di Regioni, Province, Città metropolitane e Comuni, in armonia con la Costituzione e secondo i principi di coordinamento della finanza pubblica e del sistema tributario (non più quindi “nelle for-me e nei limiti stabiliti dalle leggi della Repubblica”). Significativo è poi il nuovo quarto comma dell’articolo 119, secondo cui “le risorse derivanti dalle fonti di cui ai commi precedenti consentono [cioè: devono consentire ed essere a ciò proporzionate] ai Comuni, alle Province, alle Città metropolitane e alle Regioni di finanziare integralmente le fun-zioni pubbliche loro attribuite”.

 

4. Regionalismo differenziato vs. differenziazione regionale

La riforma del titolo V della Costituzione prefigura una sorta di “regionalismo differenziato”, volto ad esaltare e valorizzare le potenzialità intrinseche di ciascuna Regione; non si è voluto però tentare di risolvere il problema della differenziazione regionale. Non si è voluto, cioè, provare a dare risposta al seguente interrogativo: nell’attuale fase di sviluppo del regionalismo hanno ancora oggi un ruolo ed un significato politico-istituzionale le cinque Regioni speciali? La loro nascita era legata a fattori e ragioni - di carattere politico e geografico - oggi da ritenersi sufficientemente superati dall’evoluzione storico-politica e costituzionale italiana. Va rilevato semmai, che l’esigenza di dotarsi di un’autonomia “speciale” è oggi avvertita da tutte, o quasi, le Regioni italiane, a prescindere dalla storia, dalla configurazione geografica, dall’identità culturale; quindi, è un’esigenza che non ha nulla a che vedere con le vecchie istanze di specialità. Riflette, piuttosto, un forte bisogno di uscire in fretta dal culto per l’uniformità, che ha caratterizzato così a lungo la vicenda del regionalismo italiano, e che, a ben vedere, il regime speciale di talune Regioni non ha mai minimamente scalfito. Semmai, in uno Stato autenticamente federale tutte le Regioni, ovvero gli enti territoriali, sono speciali, nel senso che tutte devono godere parimenti di una forte autonomia. C’è da rilevare però, come la riforma costituzionale, sebbene preveda una torsione in senso federalistico del tipo di Stato, mantiene la caratterizzazione della specialità in favore delle cinque Regioni, e nel contempo però afferma, nel nuovo art.116 Cost.,  che “ulteriori forme e condizioni particolari di autonomia possono essere attri-buite ad altre Regioni”, secondo criteri prestabiliti. Questa previsione può essere considerata come una sorta di iniziale e progressivo percorso verso il riconoscimento delle forme e condizioni di specialità comuni a tutte le Regioni. Può ritenersi allora, seppure nell’ambito di una fase politico-istituzionale ancora in evoluzione, che l’autonomia speciale delle cinque Regioni stia per esaurire la sua ragion d’essere; che un nuovo assetto del rapporto centro-periferia – qualunque forma verrà ad assumere, ma che sarà comunque rafforzativa dell’autonomia territoriale – finirà col ridurre sempre più gli aspetti di differenziazione formale esaltando piuttosto aspetti di differenziazione sostanziale, ovvero di capacità promozionale di ciascuna Regione.

Più nello specifico, si vuole mettere in rilievo come la riforma costituzionale abbia mantenuto i modi e le forme della specialità, a cominciare dalla promulgazione degli statuti speciali con legge costituzionale emanata dal Parlamento: e che oggi può ben ritenersi non più una prerogativa ma piuttosto un vulnus all’autonomia regionale, visto e considerato che le Regioni ordinarie, invece e giustamente, approvano con propria legge regionale i propri statuti. La riforma si è limitata ad intervenire soltanto per fare qualche leggero aggiustamento qua e là: come l’aggiunta del nomen in tedesco per il Trentino-Alto Adige/Sudtirol e in francese per la Valle d'Aosta/Vallée d'Aoste: riconoscen-do così - una volta per tutte - quella condizione di differenza linguistica che identifica, in modo definitivo, l’identità regionale nella connotazione di minoranza linguistica.

Si ha l’impressione che oggi le Regioni cosiddette speciali abbiano perso la loro specialità e che questa si stia trasferendo alle Regioni ordinarie (ammesso e non concesso che, come detto prima, debbano sussistere ancora forme di differenziazione regionale). Come recuperare su questo terreno? Vi è un’importante opportunità offerta dalla riforma, grazie alla quale, e se saputa ben sfruttare, le Regioni tutte, speciali e ordinarie, potranno rilanciare la propria politica di sviluppo e di autonomia. Si tratta della riscrittura degli Statuti regionali. È un’occasione di primaria importanza per adeguare l’impianto complessivo delle istituzioni politiche e amministrative alle nuove sfide cui debbono far fronte le Regioni, per far sì che l’azione pubblica coniughi efficienza ed equità. È un processo costituente, quello attuale delle Regioni, decisivo per il futuro delle stesse. Gli Statuti sono destinati a diventare una sorta di Costituzioni regionali (come ci sono già in Germania), all’interno delle quali bisognerà sapere scrivere i nuovi diritti della cittadinanza, nell’ottica di un disegno complessivo di rilancio delle autonomie territoriali. Sarà compito poi del legislatore regionale provvedere sapientemente all’organizzazione politica e amministrativa del territorio, sulla base delle competenze adesso attribuitegli dal nuovo articolo 117 Cost., che riserva al legislatore regionale tutte quelle materie escluse dalla competenza statale.


[1]  Tommaso Edoardo Frosini, professore di Diritto Costituzionale all’università di Sassari.


Accademia Contea di Modica (Premiazione)

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