di Alfonsina Campisano Cancemi

Angelo Messina, profondità di pensiero in Pagine sparse (Editrice Menna – Avellino 2003)

Il sentimento della morte e, ancor più, del decadimento fisico impregna di sé la silloge poetica di Angelo Messina “Pagine sparse ”, dedicata agli amici presenti e passati, quasi come un testamento spirituale. Il poeta osserva, con occhi dolenti, l’ineluttabile scorrere del tempo che scava nel volto degli uomini profonde rughe e lascia nel loro animo vistose cicatrici e guarda con infinita tenerezza i vecchi («bambini di ieri / che correvano spensierati / nei prati verdeggianti»), i quali se ne stanno malinconici sulle panchine dei giardini pubblici, quasi dimenticati, sonnecchiando e ricordando forse una lieta stagione ormai trascorsa, in attesa dell’ultimo treno che li porterà via per sempre.
C’è in talune liriche una profondità di pensiero che ti induce a meditare. Lo stesso vivere è già un lento morire - pensa Messina, in armonia con il grande Seneca che, tanti secoli fa, scriveva «cotidie morimur». Certo è difficile pensare, guardando un bimbo ridere felice nel sole, che anche lui muore un pochino ogni giorno, ma purtroppo è proprio così. «Vivendo / la vita si sfalda / e le illusioni scendono lentamente / nella bocca della clessidra» - scrive ancora il Messina e la clessidra non è più quell’oggetto armonioso che conosciamo, ma soltanto una bocca maligna pronta a inghiottire sogni e illusioni, per lasciarci soli a contemplare il dissolversi della giovinezza e l’incedere lento e ineluttabile della vecchiaia e della morte. Nulla resterà di noi su questa terra. Altri calpesteranno i nostri giovani sogni e il ciclo si riproporrà immutabile. «A sera / della danza frenetica / non resteranno che coriandoli». Eppure, nonostante questa dolorosa certezza, il poeta riesce ancora a sentire la vita nel suo gioioso fluire («Amo il fuoco che trasforma / amo l’acqua che scorre / amo la vita che crea»). E dal passato riemerge più che mai vivo il ricordo della sua adolescenza sulla riviera ionica, da cui poteva scorgere le luci di Taormina e i voli dei gabbiani, mentre la madre «accendeva la legna al focolare / per cuocervi minestre di legumi». Questo quadretto sereno sembra placare il dolore del poeta che, per un attimo tornato fanciullo, ritorna a credere nelle favole e nella felicità la quale, come l’araba fenice, esisterà da qualche parte, anche se non possiamo raggiungerla.