Conversazione sull’amore

In un luogo, al di fuori dello spazio e del tempo, ove dominano il pensiero e la fantasia, alcuni personaggi discutono dell’amore.
«Angelica ed io non ci siamo mai amati veramente. – esordisce Orlando, ignorando gli sguardi sconcertati degli astanti. – Le bastò stare accanto a Medoro ferito, assisterlo e curarlo per dimenticarsi di me. Lasciarono sui sassi, sugli alberi e ovunque potessero, frasi inneggianti al loro amore. Io, vedendole, non mi domandai perché Angelica avesse potuto cancellarmi così in fretta dal suo cuore, non pensai a riconquistarla, ma, ferito nel mio orgoglio, furibondo per il suo abbandono, non riuscii a far altro che impazzire di rabbia. Dimenticai chi fossi e il dovere di unirmi alle milizie del mio sovrano Carlo Magno per combattere gli infedeli. Girovagai senza meta, distruggendo ogni cosa e assalendo chi cercava di fermarmi, mentre l’Imperatore e i miei compagni senza di me, stavano soccombendo. Astolfo dovette recuperare il mio senno sulla Luna e solo allora capii in quale abisso mi ero precipitato. Tornai a fianco del mio signore, ma Angelica non seguiva più le mie gesta. Ero nuovamente Orlando, il paladino invincibile, il terrore dei Saraceni, ma non avevo saputo vivificare il mio amore. Ero accecato dalla mia grandezza, tanto da credere che bastasse per rendermi unico agli occhi della mia donna. Non ero mai riuscito ad accorgermi dei suoi desideri: avermi più accanto, sentirsi amata per se stessa e non per la sua bellezza, essere ascoltata e considerata. Medoro la trattò come una compagna insostituibile, come parte di se stesso, si affidò a lei senza riserve. Angelica se ne innamorò perdutamente: si era dimostrato un uomo ricco di passioni e sensibilità, non un’icona, un’immagine quasi inavvicinabile quale ero stato io».
«Tu dici il vero – interviene Lancillotto – eppure l’amore è anche rinuncia, sofferenza, attesa. Ho amato Ginevra, moglie del mio Re, e sono stato ricambiato di pari amore. Andavo in battaglia e combattevo in preda alla disperazione. Volevo morire per porre fine all’inferno del mio cuore, mentre l’orgoglio di appartenere ai cavalieri della Tavola Rotonda mi spingeva ad uccidere i nemici e a perseguire la vittoria nel nome di Artù. Ogni volta che incontravo il suo sguardo, ricco di ammirazione, e ascoltavo le sue parole di elogio, desideravo sparire nelle viscere della terra, essendo indegno di riceverle. Amare intensamente Ginevra, pur non avendola mai nemmeno sfiorata, significava tradire il mio Re perché sapevo che non avrei potuto soffocare per sempre il mio sentimento. Gli occhi della Regina mi rivelavano in ogni occasione lo stesso tormento: si stringeva al suo sposo per non correre fra le mie braccia, ma la sua angoscia aumentava tanto da spingerla ad evitare qualsiasi incontro con me, neanche alla presenza di tutta la corte per timore di tradirsi. Tutti ormai sospettavano i nostri sentimenti e qualcuno aveva tentato d’instillare il dubbio nel mio signore che lo respingeva, forte dell’incrollabile fiducia riposta nella sua sposa e nel più valoroso dei suoi paladini, ma l’amore non ha pietà, non si arresta davanti a nulla e noi non gli sfuggimmo. Non servì evitarsi, non servì cercare la morte in combattimento, non servì la vergogna provata verso Artù. Avrei dovuto lasciare il Regno, mostrarmi un vigliacco e andarmene lontano carico di disonore. Non ci riuscii. Il pensiero di Ginevra e la mia essenza di cavaliere me lo impedirono. Fu la nostra tragedia e quella di Camelot. Ginevra ed io non sopportammo il nostro tradimento e la vicinanza di Artù divenne insostenibile. Il Re impazzì per il dolore. La Tavola Rotonda cessò di esistere e i suoi cavalieri si dispersero. L’amore è simile ad una furia distruttiva proprio quando è più puro, più autentico, più travolgente, ma il suo seme nasce e cresce malato, tra i rovi e le erbacce, in una terra piena di veleni».
«Fu proprio mentre, seduti uno accanto all’altra, leggevamo la storia tua e di Ginevra, che Francesca ed io c’innamorammo – racconta Paolo – anzi ci rendemmo conto di essere profondamente innamorati. Francesca era stata promessa a mio fratello Giangiotto quando era ancora una bambina. Un matrimonio concordato, con cui l’amore e la volontà della sposa non avevano nulla a che fare. Giangiotto era un uomo rozzo, molto più anziano di Francesca, per cui i sentimenti non avevano alcun valore. Francesca era una sua proprietà, una parte del suo dominio. La lasciava spesso sola e quando era presente, quasi non le parlava. Fu naturale per noi passare il tempo insieme. Sentivamo i nostri cuori palpitare, ma non avevamo il coraggio di ammetterlo. Non potevamo amarci, non ne avevamo il diritto e c’ingannavamo a vicenda, fingendo di essere felici. Quel giorno il libro arrivò fra le nostre mani come se qualcuno avesse voluto metterci alla prova: fummo travolti dai sentimenti e dalla passione. Non eravamo colpevoli. Giangiotto non era Artù, non meritava rispetto, non meritava nulla, mentre Francesca era un angelo, cui erano state strappate le ali. Insieme avremmo potuto volare lontano, essere liberi, forti del nostro amore. Non fu così. La trappola era scattata e Giangiotto ci fece uccidere barbaramente per soddisfare il suo orgoglio, eppure la morte ci unì eternamente. Il nostro assassino non trovò mai pace. Non ebbe ciò che voleva, ma solo un continuo rimorso che lo distrusse. L’amore abbatte ogni ostacolo: nessun uomo vi si può opporre».
«Le nostre famiglie si opposero, invece, in modo così duro e violento da trascinarci nella tragedia – esordisce Romeo. – Nemici da secoli, neppure una parola si poteva scambiare fra un Capuleti e un Montecchi. Nessuno si ricordava più come l’odio fosse nato, ma si tramandava di generazione in generazione con un’inaudita perseveranza. Non si era mai pensato all’assurdità, all’inutilità di continuare ad alimentare un sentimento devastante ed alienante a tal punto. La vita ne era stravolta. Nulla si svolgeva serenamente, tutto era condizionato dal folle livore tra persone che non si conoscevano neppure, perché si tenevano in ogni modo lontane le une dalle altre. A Verona si respirava un’aria velenosa, ammorbata dalla peggiore delle pestilenze, che penetrava senza scampo in ogni luogo, infettando ed uccidendo l’anima di ciascuno. I più giovani volevano ugualmente vivere, ribellarsi a ciò che non capivano perché non aveva alcuna spiegazione, né poteva averne. Ci stordivamo nelle feste per illuderci che tutto fosse normale e un’esplosione di vita fu l’incontro con Giulietta, di cui non conoscevo la vera identità. La scoprii dopo, quando non potevo e non volevo più tornare indietro. Le nostre disgraziate famiglie ci sacrificarono alla loro cecità, più di noi amarono un odio ormai fatto di niente e ci condannarono quando eravamo prossimi alla salvezza. Giulietta era apparentemente morta in quella fredda tomba, immersa in catalessi per l’effetto di una pozione. Credetti, invece, che si fosse uccisa per non dover sposare l’uomo scelto da suo padre e disperato mi tolsi la vita. Quando si risvegliò, il mio amore non mi sopravvisse. Ci ritrovarono uniti, nonostante la loro folle ostinazione nel separarci. Davanti ai nostri corpi fu chiaro per loro il significato di anni trascorsi sprecando le proprie esistenze nell’odio e furono preda del dolore senza speranza. La barriera, incrollabile fino a pochi istanti prima, si dissolse all’improvviso e capirono che l’amore, in qualsiasi modo si manifesti, porta gioia, vita, unione, non solo fra uomo e donna, ma fra i popoli, fra le genti che hanno tradizioni, costumi e modi di essere totalmente differenti. L’amore muove il mondo, lo proietta nel futuro. L’odio lo paralizza e annienta».
«Ancor più dei tuoi genitori, io, grande ammiraglio di Venezia – afferma Otello – ma misero, piccolo, insignificante uomo, ero accecato dall’orgoglio e da uno stupido senso dell’onore. Ero sicuro di amare la mia Desdemona, talmente sicuro che la consideravo una mia appendice, su cui nessuno poteva posare lo sguardo senza essere travolto dalla mia ira. Iago mi conosceva profondamente, sapeva quanto fossi succube della gelosia e, con grande perfidia, ma anche con grande intelligenza, mi fece cadere in un inganno mortale, per esautorarmi, spinto dall’ambizione e dal desiderio di potere. Credetti alle false prove che mi portò. Ero folle, incapace di ragionare. Era molto più facile condannare Desdemona, che ascoltare la sua difesa, più facile ucciderla, sordo alle sue grida che imploravano pietà, piuttosto che fermarmi a riflettere, a riconsiderare le accuse di Iago. Non l’amavo perché non avevo fiducia in lei, non leggevo nel suo cuore se una sciocchezza mi aveva fatto dubitare della sua onestà e soprattutto del suo amore per me. Appena mi accorsi di ciò che avevo fatto, avrei voluto ridarle la vita a costo della mia, ma il suo corpo era inerte e gelido fra le mie braccia. Avrei voluto tornare indietro nel tempo per ricominciare dal primo momento ad amarla veramente, anteponendo a tutto la sua felicità. Avrei voluto non fosse mai esistita la mia ottusità di uomopadrone che, in nome di una falsa superiorità, paragonava Desdemona ad un oggetto o ad un giocattolo con cui trastullarsi fino alla noia, fino a romperlo perché non cadesse in mano a nessun altro. Il mio strazio non ha fine: sono senza pace e nemmeno voglio sfuggire alla mia condanna. Andare eternamente vagando per raccontare ad ognuno la mia storia, è l’unico modo per espiare in parte il mio delitto. Ascoltate, uomini e donne. Abbiate rispetto dei vostri reciproci sentimenti attimo per attimo. Non cedete agli impulsi della rabbia che vi offusca la mente e dominate la passionalità esasperata che non è amore, ma scellerato egoismo. Siate pronti a comprendervi e perdonarvi a vicenda per continuare il vostro cammino fianco a fianco, giorno dopo giorno».
Il silenzio scende subitamente ed ognuno riflette sulla propria vicenda e su quella degli altri, non trovando più parole per concludere la conversazione.
L’amore è un argomento sempre aperto, con un’infinità di sfaccettature, diverso da persona a persona, pur nell’unicità della sua essenza di sentimento senza limiti. Dobbiamo viverlo pienamente, dando tutto, non aspettando mai nulla in cambio, ma assaporando fino in fondo la gioia che scaturisce da quella dell’altro. Facile o difficile che sia abbandonarsi ad esso, l’amore è l’anima che dà vita ad ogni cosa. In sua assenza, l’umanità si dilania nel rancore e precipita nell’abisso della fine.