Doriana Mori Consoli
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Conversazione sull’amore
In un luogo, al di fuori
dello spazio e del tempo, ove dominano il pensiero e la fantasia, alcuni
personaggi discutono dell’amore.
«Angelica ed io non ci siamo mai amati veramente. – esordisce Orlando,
ignorando gli sguardi sconcertati degli astanti. – Le bastò stare accanto a
Medoro ferito, assisterlo e curarlo per dimenticarsi di me. Lasciarono sui
sassi, sugli alberi e ovunque potessero, frasi inneggianti al loro amore.
Io, vedendole, non mi domandai perché Angelica avesse potuto cancellarmi
così in fretta dal suo cuore, non pensai a riconquistarla, ma, ferito nel
mio orgoglio, furibondo per il suo abbandono, non riuscii a far altro che
impazzire di rabbia. Dimenticai chi fossi e il dovere di unirmi alle milizie
del mio sovrano Carlo Magno per combattere gli infedeli. Girovagai senza
meta, distruggendo ogni cosa e assalendo chi cercava di fermarmi, mentre
l’Imperatore e i miei compagni senza di me, stavano soccombendo. Astolfo
dovette recuperare il mio senno sulla Luna e solo allora capii in quale
abisso mi ero precipitato. Tornai a fianco del mio signore, ma Angelica non
seguiva più le mie gesta. Ero nuovamente Orlando, il paladino invincibile,
il terrore dei Saraceni, ma non avevo saputo vivificare il mio amore. Ero
accecato dalla mia grandezza, tanto da credere che bastasse per rendermi
unico agli occhi della mia donna. Non ero mai riuscito ad accorgermi dei
suoi desideri: avermi più accanto, sentirsi amata per se stessa e non per la
sua bellezza, essere ascoltata e considerata. Medoro la trattò come una
compagna insostituibile, come parte di se stesso, si affidò a lei senza
riserve. Angelica se ne innamorò perdutamente: si era dimostrato un uomo
ricco di passioni e sensibilità, non un’icona, un’immagine quasi
inavvicinabile quale ero stato io».
«Tu dici il vero – interviene Lancillotto – eppure l’amore è anche rinuncia,
sofferenza, attesa. Ho amato Ginevra, moglie del mio Re, e sono stato
ricambiato di pari amore. Andavo in battaglia e combattevo in preda alla
disperazione. Volevo morire per porre fine all’inferno del mio cuore, mentre
l’orgoglio di appartenere ai cavalieri della Tavola Rotonda mi spingeva ad
uccidere i nemici e a perseguire la vittoria nel nome di Artù. Ogni volta
che incontravo il suo sguardo, ricco di ammirazione, e ascoltavo le sue
parole di elogio, desideravo sparire nelle viscere della terra, essendo
indegno di riceverle. Amare intensamente Ginevra, pur non avendola mai
nemmeno sfiorata, significava tradire il mio Re perché sapevo che non avrei
potuto soffocare per sempre il mio sentimento. Gli occhi della Regina mi
rivelavano in ogni occasione lo stesso tormento: si stringeva al suo sposo
per non correre fra le mie braccia, ma la sua angoscia aumentava tanto da
spingerla ad evitare qualsiasi incontro con me, neanche alla presenza di
tutta la corte per timore di tradirsi. Tutti ormai sospettavano i nostri
sentimenti e qualcuno aveva tentato d’instillare il dubbio nel mio signore
che lo respingeva, forte dell’incrollabile fiducia riposta nella sua sposa e
nel più valoroso dei suoi paladini, ma l’amore non ha pietà, non si arresta
davanti a nulla e noi non gli sfuggimmo. Non servì evitarsi, non servì
cercare la morte in combattimento, non servì la vergogna provata verso Artù.
Avrei dovuto lasciare il Regno, mostrarmi un vigliacco e andarmene lontano
carico di disonore. Non ci riuscii. Il pensiero di Ginevra e la mia essenza
di cavaliere me lo impedirono. Fu la nostra tragedia e quella di Camelot.
Ginevra ed io non sopportammo il nostro tradimento e la vicinanza di Artù
divenne insostenibile. Il Re impazzì per il dolore. La Tavola Rotonda cessò
di esistere e i suoi cavalieri si dispersero. L’amore è simile ad una furia
distruttiva proprio quando è più puro, più autentico, più travolgente, ma il
suo seme nasce e cresce malato, tra i rovi e le erbacce, in una terra piena
di veleni».
«Fu proprio mentre, seduti uno accanto all’altra, leggevamo la storia tua e
di Ginevra, che Francesca ed io c’innamorammo – racconta Paolo – anzi ci
rendemmo conto di essere profondamente innamorati. Francesca era stata
promessa a mio fratello Giangiotto quando era ancora una bambina. Un
matrimonio concordato, con cui l’amore e la volontà della sposa non avevano
nulla a che fare. Giangiotto era un uomo rozzo, molto più anziano di
Francesca, per cui i sentimenti non avevano alcun valore. Francesca era una
sua proprietà, una parte del suo dominio. La lasciava spesso sola e quando
era presente, quasi non le parlava. Fu naturale per noi passare il tempo
insieme. Sentivamo i nostri cuori palpitare, ma non avevamo il coraggio di
ammetterlo. Non potevamo amarci, non ne avevamo il diritto e c’ingannavamo a
vicenda, fingendo di essere felici. Quel giorno il libro arrivò fra le
nostre mani come se qualcuno avesse voluto metterci alla prova: fummo
travolti dai sentimenti e dalla passione. Non eravamo colpevoli. Giangiotto
non era Artù, non meritava rispetto, non meritava nulla, mentre Francesca
era un angelo, cui erano state strappate le ali. Insieme avremmo potuto
volare lontano, essere liberi, forti del nostro amore. Non fu così. La
trappola era scattata e Giangiotto ci fece uccidere barbaramente per
soddisfare il suo orgoglio, eppure la morte ci unì eternamente. Il nostro
assassino non trovò mai pace. Non ebbe ciò che voleva, ma solo un continuo
rimorso che lo distrusse. L’amore abbatte ogni ostacolo: nessun uomo vi si
può opporre».
«Le nostre famiglie si opposero, invece, in modo così duro e violento da
trascinarci nella tragedia – esordisce Romeo. – Nemici da secoli, neppure
una parola si poteva scambiare fra un Capuleti e un Montecchi. Nessuno si
ricordava più come l’odio fosse nato, ma si tramandava di generazione in
generazione con un’inaudita perseveranza. Non si era mai pensato
all’assurdità, all’inutilità di continuare ad alimentare un sentimento
devastante ed alienante a tal punto. La vita ne era stravolta. Nulla si
svolgeva serenamente, tutto era condizionato dal folle livore tra persone
che non si conoscevano neppure, perché si tenevano in ogni modo lontane le
une dalle altre. A Verona si respirava un’aria velenosa, ammorbata dalla
peggiore delle pestilenze, che penetrava senza scampo in ogni luogo,
infettando ed uccidendo l’anima di ciascuno. I più giovani volevano
ugualmente vivere, ribellarsi a ciò che non capivano perché non aveva alcuna
spiegazione, né poteva averne. Ci stordivamo nelle feste per illuderci che
tutto fosse normale e un’esplosione di vita fu l’incontro con Giulietta, di
cui non conoscevo la vera identità. La scoprii dopo, quando non potevo e non
volevo più tornare indietro. Le nostre disgraziate famiglie ci sacrificarono
alla loro cecità, più di noi amarono un odio ormai fatto di niente e ci
condannarono quando eravamo prossimi alla salvezza. Giulietta era
apparentemente morta in quella fredda tomba, immersa in catalessi per
l’effetto di una pozione. Credetti, invece, che si fosse uccisa per non
dover sposare l’uomo scelto da suo padre e disperato mi tolsi la vita.
Quando si risvegliò, il mio amore non mi sopravvisse. Ci ritrovarono uniti,
nonostante la loro folle ostinazione nel separarci. Davanti ai nostri corpi
fu chiaro per loro il significato di anni trascorsi sprecando le proprie
esistenze nell’odio e furono preda del dolore senza speranza. La barriera,
incrollabile fino a pochi istanti prima, si dissolse all’improvviso e
capirono che l’amore, in qualsiasi modo si manifesti, porta gioia, vita,
unione, non solo fra uomo e donna, ma fra i popoli, fra le genti che hanno
tradizioni, costumi e modi di essere totalmente differenti. L’amore muove il
mondo, lo proietta nel futuro. L’odio lo paralizza e annienta».
«Ancor più dei tuoi genitori, io, grande ammiraglio di Venezia – afferma
Otello – ma misero, piccolo, insignificante uomo, ero accecato dall’orgoglio
e da uno stupido senso dell’onore. Ero sicuro di amare la mia Desdemona,
talmente sicuro che la consideravo una mia appendice, su cui nessuno poteva
posare lo sguardo senza essere travolto dalla mia ira. Iago mi conosceva
profondamente, sapeva quanto fossi succube della gelosia e, con grande
perfidia, ma anche con grande intelligenza, mi fece cadere in un inganno
mortale, per esautorarmi, spinto dall’ambizione e dal desiderio di potere.
Credetti alle false prove che mi portò. Ero folle, incapace di ragionare.
Era molto più facile condannare Desdemona, che ascoltare la sua difesa, più
facile ucciderla, sordo alle sue grida che imploravano pietà, piuttosto che
fermarmi a riflettere, a riconsiderare le accuse di Iago. Non l’amavo perché
non avevo fiducia in lei, non leggevo nel suo cuore se una sciocchezza mi
aveva fatto dubitare della sua onestà e soprattutto del suo amore per me.
Appena mi accorsi di ciò che avevo fatto, avrei voluto ridarle la vita a
costo della mia, ma il suo corpo era inerte e gelido fra le mie braccia.
Avrei voluto tornare indietro nel tempo per ricominciare dal primo momento
ad amarla veramente, anteponendo a tutto la sua felicità. Avrei voluto non
fosse mai esistita la mia ottusità di uomopadrone che, in nome di una falsa
superiorità, paragonava Desdemona ad un oggetto o ad un giocattolo con cui
trastullarsi fino alla noia, fino a romperlo perché non cadesse in mano a
nessun altro. Il mio strazio non ha fine: sono senza pace e nemmeno voglio
sfuggire alla mia condanna. Andare eternamente vagando per raccontare ad
ognuno la mia storia, è l’unico modo per espiare in parte il mio delitto.
Ascoltate, uomini e donne. Abbiate rispetto dei vostri reciproci sentimenti
attimo per attimo. Non cedete agli impulsi della rabbia che vi offusca la
mente e dominate la passionalità esasperata che non è amore, ma scellerato
egoismo. Siate pronti a comprendervi e perdonarvi a vicenda per continuare
il vostro cammino fianco a fianco, giorno dopo giorno».
Il silenzio scende subitamente ed ognuno riflette sulla propria vicenda e su
quella degli altri, non trovando più parole per concludere la conversazione.
L’amore è un argomento sempre aperto, con un’infinità di sfaccettature,
diverso da persona a persona, pur nell’unicità della sua essenza di
sentimento senza limiti. Dobbiamo viverlo pienamente, dando tutto, non
aspettando mai nulla in cambio, ma assaporando fino in fondo la gioia che
scaturisce da quella dell’altro. Facile o difficile che sia abbandonarsi ad
esso, l’amore è l’anima che dà vita ad ogni cosa. In sua assenza, l’umanità
si dilania nel rancore e precipita nell’abisso della fine. |
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