di Alfonsina Campisano Cancemi

La Sicilia degli anni 70/80 nel romanzo La parola ferma in gola di Alfio Patti (Prova d’Autore – Catania 2003)

«Nella stanza aggiornò il più completo disordine. Una scarpa era sotto il letto e l’altra a casa di Cristo». Questo è l’incipit del romanzo di Alfio Patti; un incipit che ci pone subito dinanzi ad un linguaggio nuovo, inventato dallo scrittore siciliano per salvaguardare le nostre radici, costellato qua e là da “perle” come “aggiornò” (italianizzazione del siciliano “agghiurnau”), ed espressioni vivaci e pulsanti come «a casa di Cristo», che certo non avremmo mai trovato nella lingua forbita di Manzoni. Si vedano, per esempio, i termini: cìcare, abbuttatu, ciappeddi, lappusu, apprimuratu; e certe espressioni proprie della parlata isolana quali: c’era una pace degli angeli, mi sussurrava a baccagghiu, a so matri pensu!, pare che il conto non era suo. Tale linguaggio, colorito e sanguigno, ci apre ad una migliore comprensione del mondo siciliano con la forza delle cose autentiche, non appannate dai tradizionali filtri che potrebbero oscurarne la valenza. Ma il libro di Patti, oltre a presentare questa novità di linguaggio, ti avvince per il racconto, condotto con l’uso sapiente del flashback. È un viaggio della memoria che Gregorio Scalia, nel quale forse s’identifica l’autore, compie nella sua terra alla ricerca di una identità perduta, in sette intensissimi giorni; sette quanti furono quelli della Creazione.
L’azione si svolge in un paese immaginario, S. Girolamo, situato in una Sicilia degli anni 70/80, ma che potrebbe trovare collocazione in qualunque altra parte del mondo. Erano gli anni dei grandi sconvolgimenti sociali ed economici, che, staccando gli uomini dalle loro piccole storie, li chiudevano in gabbie senza scampo nei grandi complessi condominiali; gli anni delle “bustarelle” a quelli che contavano, del “regaleddu” al piccolo boss di turno, che ti concedeva come una grazia ciò che avresti dovuto avere di diritto. E così, nel paesello, potevi trovare, in quasi tutte le case, orribili sculture a forma di fallo di svariate dimensioni, che i “mischineddi” avevano dovuto acquistare perché l’artista creatore, guarda caso!, era l’ingegnere dell’ufficio tecnico comunale. E se qualcuno, come Antonino Di Bella, «che non aveva amici all’ufficio tecnico e non aveva soldi da regalare», si ribellava al sistema, veniva bollato dai compaesani come pazzo o stupido, perché solo «per mezzo dei Santi si va in Paradiso». Così va il mondo, o meglio così andava nella Sicilia di quegli anni… Gregorio Scalia, figlio di un onesto artigiano che non aveva mai chiesto nulla a nessuno, non era di quelli che piegavano la schiena e così era partito a 21 anni, come tanti ragazzi del Sud; era andato su, fino a Venezia e lì era divenuto un affermato architetto. Partendo alla volta di Venezia, sente «la percezione di vuoto che fa salire alla bocca il sapore degli «‘ncuttuni’…, un dolore sordo, depositato in fondo alla bocca dell’anima». Ma qualcosa è scattato dentro di lui. La Sicilia, anche se nulla è cambiato sul piano sociale e politico, ha avuto la forza, che solo una madre possiede, di restituire al suo figlio lontano la voglia di vivere ed amare.