La funzione culturale delle Accademie


 

Le Accademie sono state e sono libere associazioni di persone che hanno la volontà di promuovere le lettere, le scienze, le arti; gli intenti, i modi nascono dalla stessa origine delle accademie che sono strettamente legate (anche quando nell’intitolazione sia dichiarata una qualsiasi forma di evasione) a tempi e luoghi. Il nome dell’Accademia in cui aveva insegnato Platone (e che ebbe vita fino al 529, quando venne soppressa da Giustiniano) deriva dalla località (Accademia) vicina ad Atene. Le principali accademie moderne sono state umanistiche (nel Quattrocento), letterarie (nel Cinquecento), scientifiche (nel Seicento). Quelle umanistiche (la prevalenza è relativa perché in tutte le epoche sotto denominazioni diverse gli interessi culturali differenziati hanno trovato espressione) sorgono con la rinascita delle lingue classiche dovuta alla necessità di avere dei modelli, dei punti di riferimento di chiarezza, degli exempla che assorbissero la tensione culturale e donassero armonia anche alla vita morale, intellettuale, al costume. La napoletana (1443) accademia Pontaniana, la fiorentina Platonica (caratterizzata dalla presenza di Giorgio Gemisto Pletone, dal Ficino), la Romana (1460, con Pomponio Leto), la veneziana ed ellenizzante Aldina (1502) con Aldo Manuzio risentono dell’uso della lingua latina nella prima metà del Quattrocento, del modello bucolico, idillico offerto da parte della poesia lirica romana, della filosofia platonica, della venuta in Italia dei dotti greci e bizantini che a Ferrara e Firenze discussero a lungo sulla riunificazione della chiesa cattolica e di quella ortodossa, della nuova filologia occorrente per leggere i testi antichi, delle cattedre di lingua greca, latina, istituite negli Studia delle corti e delle signorie, del commercio di codici e libri fiorenti nelle città di Venezia, Firenze, Roma, Milano, Napoli, Bologna; del risveglio culturale di molti piccoli centri nei quali nasce la figura del nuovo intellettuale, l’umanista (nuovo rispetto al medioevo in cui la figura dell’intellettuale era stata quella del religioso).

L’impulso di vita dato dal Rinascimento delle corti, dallo studio della filosofia della natura, il rapporto con la cultura di alterazioni avviluppano nel Cinquecento la letteratura, lo studio della lingua, il confronto con la cultura classica e si viene ampliando il pubblico di coloro che sono in grado di leggere e scrivere. È il pubblico degli artigiani delle nuove attività economiche e commerciale che vengono crescendo sull’attività fondamentale che rimane quella agricola; ma lo sviluppo delle città crea nuovi ceti e nuovi organizzatori di cultura nella seconda metà del Cinquecento, i ceti popolari propongono una loro cultura, spesso bizzarra, alternativa a quella che domina nelle corti ed ha un livello europeo. Nell’Italia rinascimentale creativa di Michelangelo, Raffaello, Tiziano, Ariosto, Machiavelli, Tasso c’è anche lo studio per la conservazione della lingua italiana della letteratura che per Pietro Bembo è quella di Petrarca e di Boccaccio.

L’Accademia della Crusca nasce nella seconda metà del Cinquecento (1582), avrà riconoscimenti e disconoscimenti della sua autorità legislativa in fatto di lingua, essa che era nata con intento di ludicamente usare gli strumenti della lavorazione della farina per fare il pane, al fine di scegliere, crivellare, estrarre la farina separandola dalla crusca (“cruscosi” furono detti i primi soci); sicché il primo Vocabolario della lingua italiana (pubblicato a Venezia nel 1612, che fu esemplare per altre nazioni) accolse ciò che aveva crivellato dagli scritti dal Tre al Cinquecento e dalla fresca parlata toscana. Più tardi l’Accademia si dedicherà agli studi filologici degli scrittori dei primi secoli. Il declino delle signorie porta a una rifeudalizzazione, nel Seicento, della vita in campagna ma anche la creazione di nuovi ceti e di un nuovo pubblico più terragno, attento ai problemi quo-tidiani, all’osservazione minuziosa; è questo secolo (XVII) rivolto alla scienza in forme particolarizzate e più moderne, lontano dalla stessa idea di bellezza del Rinascimento. La bellezza non è più assoluta, unitaria, armoniosa, essa può nascere anche da contrasti (rappresentazione di donna bella e zoppa, bella e guercia, bella e pidocchiosa), le variabilità hanno il loro posto, il mondo diventa più ricco di incroci, di relazioni, di avventure, la scienza entra nelle accademie strutturalmente con le sperimentazioni. Soprattutto, sperimentando, ci si avvicina, per mezzo della filosofia scientifica alla scienza moderna. La cultura unitaria di scienze, lettere, filosofia, è rivolta alla ricerca.

L’Accademia del Lincei (che sorge a Roma nel 1603 per opera di Federico Cesi) mira allo studio scientifico della realtà e della natura (studi di medicina sul sangue, sullo spirito vitale, sulla fisica, la chimica, le scienze naturali); tale Accademia negli anni 1745-1755 rivivrà a Rimini per opera del medico naturalista (ma anche archeologo e studioso di biologia marina e fisica marina) Giovanni Bianchi, detto Jano Planco. A Napoli nasce nel 1611 l’Accademia degli Oziosi presieduta da Giambattista Marino, a Firenze nel 1657 quella del Cimento fondata da Leopoldo dei Medici, nettamente scientifica, della quale fanno parte Viviani, Magalotti, Redi, Borelli, caratterizzata nel suo indirizzo scientifico europeo dagli studi di scienze naturali, fisica, matematica, fi-siologia umana e vegetale: intensa e intrecciata con la vita culturale europea fu la sua vita che fu molto breve. Sul finire del secolo scorso (1691) a Siena sorge l’Accademia dei Fi-siocratici, medica, tuttora felicemente vivente. A Napoli l’Accademia più importante nel Seicento è quella degli Investiganti (1663) che è la prima direzione della cultura moderna e si regge sull’insegna filosofica. Nel Settecento le Accademie hanno un assetto più moderno dal punto di vista funzionale e produttivo: hanno indirizzo storico-filologico, scientifico, elaborano memorie, rendiconti, attuano scambi, partecipano alla diffusione, nella prima metà del secolo, di un tenue razionalismo. Ma non mancano accademie, che risentono del carattere salottiero superfiale e chiacchiericcio, degli incensamenti che si ritrovano begli ambienti chiusi e delle esercitazioni retoriche di una cultura ripetitiva, formalistica. Talune Accademie hanno titoli bislacchi, burleschi, ironici, antifrastici a ciò che esse vorrebbero essere: Accesi, Acerbi, Agiato, Animosi, Apatici, Illuministi, Infuriati, Inno-minati, Inquisiti, Insensati, Intrepidi, Intronati, ecc. A Cortona nell’Accademia degli Etruschi (1727) si studiano antichità, a Venezia  in quella dei Granelleschi (1747-1762) convergono classicisti e puristi. A Napoli fu estremamente importante l’Accademia Ercolanese (1755) per la pubblicazione degli atti degli scavi di Ercolano, per l’influenza che la divulgazione delle figure pompeiane ebbe sulla formazione del neoclassicismo figurativo, letterario, poetico, sul nuovo gusto – contrassegnato dalla grazia – diverso dal classicismo solenne, istituzionale, delle grandi divinità celebrativamente solenni (le nuove divinità neoclassiche sono quelle di vita quotidiana, divinità minori di amore, luce, salute, ecc.).

L’Accademia che ha massima diffusione e importanza nel Settecento e l’Arcadia (1690) sorta a Roma contro il cattivo gusto barocco e richiamantesi alla semplicità, all’innocenza, all’imitazione dei classici e alla temperata ragione, avente come riferimenti l’idillio amoroso, il mondo bucolico e pastorale. L’imitazione proposta dall’Arcadia cristallizzò la poesia, la rese spesso monotona, uniforme ma costituì anche un addestramento e un allevamento degli ingegni (così disse il Croce); la produzione arcadica toccò il colmo a metà del secolo con Carlo Innocenzo Frugoni, poeta di corte, di feste di corte, di amori leggeri e sospirosi, della grazia del costume settecentesco delle classi nobiliari.  Accademia e costume di vita in molti casi e luoghi coincidono finché l’impegno umano e storico non porta a un dissidio, a una critica verso l’Arcadia considerata quale evasione. Ciò avviene dall’illuminismo al romanticismo, età di impegno, in cui anche le istituzioni culturali partecipano della ragione polemizzante, della passionalità romantica.

Ma almeno dell’Accademia dei Trasformati di Milano l’uso del dialetto nella letteratura crea un indirizzo realistico con il Balestrieri, il Tanzi, viene ripreso il realismo del teatro di Magri; il primo Parini dei Trasformati crea la concretezza che condurrà il poeta verso grandi odi illuministiche degli anni Sessanta. Ai Trasformati appartengono Quadro, Passeroni, Pietro Verri, Beccaria. Tuttavia nell’Ar-cadia si nota una importante evoluzione verso l’accoglimento della letteratura scientifica e dal mondo pastorale si passa verso un gusto più moderno e, in taluni casi, vicino al gusto lugubre europeo. Durante il custodiato di Gioacchino Pizzi (Nivildo Amarinzio, 1772-1791) oltre la tendenza frugoniana troviamo tendenze filosofiche, neoclassiche: Aurelio Bertola riminese, viaggiatore intelligente, intinto di cultura scientifica, ebbe una vena poetica sentimentale (c’è anche una Arcadia sentimentale a fine secolo) e fu sollecitato da una tensione interiore verso spiriti vivaci nel “Viaggio sul Reno”. Oltre che del Gessner sentì l’influsso di poeti inglesi e tedeschi e scrisse carmi younghiani: ben diverso, perciò, da quello che venne chiamato “l’ultimo degli arcadi”, Jacopo Vittorelli di Bassano, il quale non ebbe evoluzione interiore e artistica e rappresentò la decrepitezza dell’Arcadia nell’Ottocento, quando vi fu un romanticismo arcadico e manierista.

Nella sua vecchiaia (l’età del custodiato del Pizzi) l’Arcadia manifesta la tendenza frugoniano-tradizionalista (è il tempo dell’incoronazione di Corilla Olimpica) e una classicistico-scientifica impostata sulla divulgazione della scienza e accogliente moderati temi del sensismo. In questa tendenza importa sottolineare la posizione di Giovanni Cristofano Amaduzzi, professore di lettere greche nell’Archiginnasio della Sapienza di Roma, Biante Didimeo fra gli arcadi. L’Amaduzzi tenne in Arcadia il 23 settembre 1776 un discorso filosofico sul fine ed utilità dell’Accademie (Livorno 1777), dedicato al duca Luigi Gonzaga, «emulo della profondità di Montesquieu, seguace della precisione di Locke», del qual duca l’autore si professa «non altro ammiratore che della vera virtù – nemico della corte e dell’adulazione – e solo parco lodatore dè buoni». Il linguaggio di questa dedica sembra pariniano. Per l’Amaduzzi gli uomini nella società si son venuti creando dei doveri reciproci, e assecondando le circostanze dei luoghi e dei tempi si son dati all’esercizio delle arti, dei mestieri, del commercio, dell’agricoltura. Fra coloro che presero impegno alla coltivazione delle dottrine, l’Amaduzzi loda «l’aura, che spira libertà rusticane, quest’apparecchio, che annuncia la semplicità delle selve» del Bosco Parraiso romano, e afferma che «la vera eloquenza nasce solo dall’interna natura delle cose, dalla giusta precisione delle idee, e dal giudizioso estratto d’un’appurata ragione». Sostiene, inoltre, che le Accademie sono nate «a solo oggetto di distruggere gli errori dominanti». In un rapido accenno alle accademie del passato è detto che quelle del Seicento «riclamarono lo sdegno d’alcuni scelti uomini, che perciò congregaronsi a combattere quelle frasi sonore, e gi-gantesche, colle quali avevano corrotto ogni buon gusto di scrivere, ed a formare questo stesso vostro ceto rispettabile, come un vegliante riformatore dell’invalsa depravazione, e come un perenne legislatore del buon stile, coerente alla natura delle cose». Il discorso continua con una esaltazione di Newton, di Leibnitz, della filosofia che scopre la verità e fa fuggire l’impostura e la superstizione: «Tu siedi compagna a’ giudici né tribunali: tu diffondi benefica i tuoi lumi sui mari, sulle campagne, né fondachi, e nelle trincere». Con Newton spariscono «non che le larve aristoteliche, gli stessi sognati turbiglioni di Cartesio». Lo stabilimento delle filosofia si deve, secondo l’Amaduzzi, alle accademie «istituite per essere il flagello delle cattedre caparbiamente ostinate nell’errore, e quindi lo sprone per gl’ingegni ad afferrare la verità». La storia delle accademie è «la storia de’ progressi dello spirito umano», e l’Arcadia «surse opportuna per togliere quell’affettato e ridicolo ammasso di metafore, e quella gonfiezza di stile, che or dicesi seicentismo». Fu anche «provvida speculazione di questo ceto l’addottare costumi pastorali, e l’addattare a questi la semplicità dello stile per richiamare gli Oratori, ed i Poeti da quella maniera smodata, e gigantesca d’immaginare, e di discorrere, che urtava la ragione, ed il buon gusto». L’Arcadia sarà sempre utile per mantenere il «buon gusto già introdotto dell’aurea moderazione, e ne formerà il magistero», ma l’Arcadia ha bisogno di una riforma poiché «lo spirito di Filosofia sparso su tutte le facoltà e fatto già principale animatore della politica, della storia, delle bell’arti e del commercio, domanda pur l’ingresso nell’eloquenza, e della poesia». Le selve arcadiche, oltre il delicato linguaggio di Titiro e di Amarilli, accolgono il linguaggio di Locke e di Newton, come avviene quando il dotto Emireno, cioè Luigi Gonzaga, il 6 maggio 1776 legge in Arcadia il discorso filosofico-politico “Il letterato buon cittadino”.

Per Amaduzzi la psicologia, la morale, la politica derivano dalla scienza dell’uomo e da questa di devono trar-re «le regole di scrivere e di parlare, rintracciando, a qual combinazione d’idee, d’immagini, di sentimenti e di sensazioni il cuore di scuora, e si irriti, ed a quali resti inerte, e freddamente indifferente e praticando quindi quelle varie, e diverse maniere di dilettare, che l’esperienza insegna, e che atte sono a produrre sugli animi di chi legge, o ascolta quel sempre uniforme fremito interno di piacere soavissimo, ed insaziabile. Locke, Montesquieu, d’Alembert, e l’Abate di Codillac fra esteri, e fra i nostri il celebre marchese Beccaria, de’ quali molto abbiamo per noi profittato, hanno i primi sottomesso al dominio della Filosofia anche il buon gusto dello stile, parte sfigurato finora dall’inetto pedantismo, e dalla servile pecudina imitazione, e parte troppo abbandonato alla fortuita impulsione del sentimento, ed alla sconnessa, ed irriflessiva pratica d’un lungo esercizio». Si tratta di un moderato illuminismo sensistico (oggetti fisici e sentimenti morali sono per Amaduzzi «le due molle delle nostre sensazioni»), che però deve guardarsi dal cadere «in un eccesso non molto dissimile dall’ampolloso secentismo»: le nuove espressioni non devono trascendere «i limiti della bella moderazione, ed urtando que’ canoni immutabili del bello, e del buono, che la natura prescrive». Ma l’Amaduzzi rimaneva, nel suo discorso, nell’ambito dei consigli per il rinnovamento dell’eloquenza: per quanto riguarda la poesia, quantunque egli parlasse di «pastorali esercizi», non citava altri che gli improvvisatori Bernardino Perfetti e Corilla Olimpica.

L’Amaduzzi, che fu uomo equilibrato, di vasta dot-trina, mirò, nondimeno, a conciliare sensismo, tollerantismo illuministico, ortodossia cattolica. Ebbe legami con le forze anticuriali, coi gruppi antigesuitici e filogiansenisti di Toscana e Lombardia, difese i principi di Locke e Montesquieu, esaltò le scoperte di Newton, fu favorevole all’incoronazione di Corilla Olimpica (1776) contrastata dal gruppo curiale e filogesuitico. Egli chiedeva agli arcadi che venisse difeso il gusto della vera eloquenza che nasce dallo studio delle discipline filosofiche. Gli spiriti riformatori caratterizzano le accademie del secondo Settecento e provengono dall’illuminismo, la cui ragione è polemica e rinnovatrice: li troviamo nell’Accademia delle Belle Arti di Brera voluta da Maria Teresa, in quella di Parma, nelle nuove fondazioni accademiche di agricoltura, economia, tecnico-agraria sotto il criterio ormai dominante della “pubblica utilità”. I nuovi accademici sono dei tecnici che progettano il rinnovamento: esempio fondamentale è quello dell’illuminista calabrese Domenico Grimaldi, socio dell’Accademia fiorentina dei Georgofili (sorta nel 1753), il quale dall’Accademia derivò lumi di co-noscenza agraria ed economica internazionali per attuare le riforme dell’olivicultura a Seminara, miglioramenti nell’alle-vare ovini, bovini, nell’alimentare gli animali da lavoro e scoprì un’erba detta “sulla”. Il concetto di pubblica utilità e la tensione verso il reale e il concreto (“cose non parole”) alimentano l’Accademia dei Pugni sorta a Milano in casa Verri, dalla quale deriva il famoso periodico “Il caffè”. Le accademie illuministiche nate nel quadro del rinnovamento italiano presentano al classicismo tradizionale una prospettiva di avanzamento e di progresso e raccolgono dal mondo antico gli elementi antitirannici validi a fare sentire come contemporanei ed esemplari anche politicamente gli scrittori antichi. I motivi libertari alimentano la nuova cultura.

La rete di accademie federate con l’Arcadia era grandissima e tutte risentono del declino dello Stato Pontificio in cui era il centro organizzativo e culturale (la prima Arcadia era nata con la protezione e con il contributo della Chiesa); una manifestazione teatralmente approntata, e priva di serietà, fu nel 1775 l’incoronazione poetica dell’improvvisatrice Corilla Olimpica. La crisi dell’Arcadia era così profonda – dopo il vertice di successo frugoniano di metà secolo – che nel 1757 Saverio Bettinelli aveva proposto la chiusura dell’istituzione per cinquanta anni e Giuseppe Baretti nel 1763 aveva definito l’Arcadia “letteraria fanciullaggine”. Un esempio dell’inutilità delle sedute letterarie chiamate “arcadie” è offerto da questo sonetto caudato scritto a Napoli nel 1778:

 

 

LE PALUDI PONTINE (Un Arcade a’ suoi colleghi)   

 

Poeti è giunta l’ora sì accettabile

Da procacciarsi onore, e buon salario:

Pio Sesto, che di Cristo oggi è Vicario,

Vuole impresa tentar poco sperabile:

Impresa che da tempo immemorabile

Sempre promossa con intento vario

Sembra a tutti oggi giorno al volo Icarìo

Per la difficoltà paragonabile.

Le paludi sì celebri Pontine

Sua Santità vorrebbe disseccare,

E mieter grano ove son giunchi e spine.

Tanto tempo e denar perché gittare?

Per condurre opra così grande e fine,

Basta un’Arcadia o due colà adunare

Poiché posson vantare

Colleghi miei, tal forza seccativa

Le nostre rime ovunque il suon ne arriva,

Che tutta quella riva

Vedreste al nostro canto in un momento

Arida divenir per miglia cento.

 

Il cadere e rinascere di accademie è elemento fisiologico dei mutamenti della società degli Stati della penisola italiana e la nascita dell’Accademia Simpemenia Rubiconia dei Filopatridi (1801) di Savignano di Romagna da altra accademia locale documenta l’evoluzione poiché la Rubiconda, civile-patriottica, classicistico-illuministica è di stampo napoleonico. Nata per opera del maggiore antiquario (archeologo, epigrafista, numismatico) del tempo – Bartolomeo Borghesi - di Giulio Perticari e di Girolamo Amati, tale accademia ha celebrato solennemente l’incoronazione di Napo-leone Re d’Italia[1], le nozze di Giulio Perticari e Costanza Monti con “Gli Dei Consenti” (1811) raccolta di versi di tutti i rappresentativi classicisti italiani del tempo. L’Accademia ha esaltato il classicismo come amore di patria ed ha alimentato il sentimento nazionale; chiusa per tali motivi durante il periodo della Restaurazione e fino all’unità di Italia, ha ripreso l’attività mantenendo viva la tradizione classica e ali-mentandola con moderni ideali di libertà ispirati a quelli del classicismo. Di essa hanno fatto parte patrioti, letterati: Luigi Nardi, Cesare Montalti, Eduardo Fabbri, Luigi Biondi, Vincenzo Monti, Antonio Canova, Pietro Giordani, Salvatore Betti, Giosuè Carducci, Giovanni Pascoli, Gino Rocchi, Francesco Rocchi, Francesco e Gino Vendemini, Quintino Sella, Quirico Filopanti, Enrico Panzacchi, Corrado Rici, Felice Cavallotti, Cesare Cantù, Arriogo e Camillo Boito, Paolo Mantegazza, ecc. Dopo l’Unità d’Italia le accademie degli ozi letterati e delle futilità vengono stigmatizzate da Francesco De Sanctis (1870) e da Luigi Settembrini (1872) (da quest’ultimo talune di stampo gesuitico e controriformistico); ormai la struttura delle accademie, nello Stato unitario, viene modificata e l’elemento celebrativo cede il posto all’insegnamento; la struttura moderna le configura quali società di cultura che elaborano contributi scientifici e sono ripartite in “classi” (scienze fisiche, naturali, matematiche, morali, filologiche, storiche).

Nell’epoca di formazione della borghesia di fine Ottocento e di primo Novecento l’appartenenza, ad esempio, alla Regia Accademia delle Scienze di Torino era titolo per la nomina a senatore; Giovanni Giolitti contribuì ad assegnare la massima rappresentatività ad accademie e istituti di alta cultura. Le accademie di insegnamento erano di Belle Arti, Musica, Pittura, Architettura (Firenze, Roma, Venezia, Vicenza, ecc.) e la loro attività diffuse più ampia dà larga base al sincretismo tecnico prima che le avanguardie primo-novecentesche europee dichiarino guerra al sincretismo, ai neoclassicismi e il futurismo proclami di volere sostituire i canoni estetici della tradizione con la realtà delle opere di arte moderne nate dalla meccanica e riproducibili. Ma nostro compito non è quello del rapporto delle accademie con le avanguardie.

Altro elemento della condizione delle accademie in un mondo europeo sono le attività culturali ed editoriali di carattere internazionali; le accademie si assumono la direzione di grandi imprese che richiedono cooperazione (studio di vasi antichi, di filosofi medievali, edizioni delle opere di Platone, Aristotele, di manoscritti di alchimisti, di musica bizantina, ecc.). Il fascismo convogliò nell’Accademia d’Italia (fondata nel 1926 e inaugurata nel 1929) sessanta accademici fra i quali anche i Lincei, i quali, dopo la caduta del fascismo, rientrarono nell’Accademia dei Lincei ricostruita e oggi operosissima. La ricostruzione di un’Accademia è un arricchimento culturale in una società che mira a diventare sempre più ampia ed è molto densa di strutture e strumenti allotrii o non usati che a fini di miglioramento degli uomini.


[1] Antonio Piromalli, Le Feste dei Pastori del Rubicone per Napoleone I Re d’Italia, Firenze, Olschki, 1994.


Accademia Contea di Modica (Premiazione)

Trofeo della mamma. 18ª edizione. Assegnazione in ordine alfabetico a: Irene Artale (Avola), Mario Attard (Malta), Paola Cozzubbo (Giarre), Alberto Cantagalli (Roma), Michele Galfo (Modica), Gregorio Giuseppe Giaccardi (Cuneo), Giuseppe Isgrò (Altamura), Lucia Lo Giudice (Randazzo), Lidia Melisurgo (Potenza), Carlo Nanì (Modica), Domenica Sindona Catanese (Cefalù).
Premio Val di Noto. 19ª edizione. In ordine di classifica: in dialetto: Giuseppe Giglio (Palermo), Paola Cozzubbo (Giarre), Mariangela Sauto (Caltanissetta), Franca Adriana Abbate (Cefalù), Rosario Davide Di Giacomo (Sambuceto-CH), Carlo Nani (Modica); in lingua italiana: Irene Artale (Avola), Filadelfio Coppone (Catania); per l’arte: Massimiliano Ornato (Modica).
Coppa del Mare, 17ª edizione. Poesia: Mario Attard (Malta), Mariangela Sauto (Caltanissetta), Rosario di Giacomo (Sambuceto); racconto: Salvatrice Curcio Calcagno (Enna), Lidia Melisurgo (Potenza), Irene Artale (Avola).