di Luisa Trenta Musso


 

Oltre le parole di Nino Agnello


In vista di questo breve studio sull’opera poetica dell’amico Nino Agnello, ho tirato fuori dalla mia libreria i volumi di cui egli, nel corso della sua lunga e ininterrotta attività di scrittore, mi ha fatto omaggio. Uno fra tutti, del 1984, ha fermato la mia attenzione, per via del titolo, “Tutte parole”, seguito da un sottotitolo molto singolare e allusivamente ambiguo: “O tutte parole e basta”. Oppure come una domanda che esige una risposta: “Tutte parole?”. Preferiamo la domanda e la rilanciamo all’autore con quel pizzico di provocazione cui ha diritto un lettore così provocato: «Com’è possibile che la poesia sia tutte parole?». Di là da queste deve esserci qualcosa di cui essa si alimenta e vive. La risposta balza dalla bella dedica che mi riguarda: «A Luisa Trenta Musso che ha mente e cuore per andare oltre le parole». La fiducia che Nino ripone nella mia sensibilità di lettura mi mette un po’ in crisi. Come tutte le volte che mi accingo a entrare in un domicilio della parola che non è il mio, penso a una violazione. Mi coglie, allora, un grande rispetto per l’autore, quasi lo difendo da me stessa. E mi impongo, nell’atto di varcare la soglia, di usare, oltre che l’occhio, anche l’orecchio, il senso più esperto nel cogliere l’armonia della parolapensiero, della quale le parole-segno non sono altro che lo strumento, una tastiera o le corde, come accade in musica. Poiché la scrittura è anche un evento musicale, tutt’uno con l’armonia della vita che sta dietro ai fatti più comuni, alle voci più usate, all’infinità di parole che l’umanità di continuo produce. Nino Agnello esperimenta il prodigio della parola a farsi poesia scandendolo in tappe esistenziali che chiama “Geografia del sentimento”. Definizione, a mio parere, piuttosto ambiziosa, per il fatto che, trattandosi di sentimento, è impensabile un limite. È, però, pienamente aderente alla giusta e illimitata ambizione dell’aedo che c’è in lui: avido di armonie, di accordi, di bellezza, di incontri, di conoscenza. Il cuore, si dice, è la sede dei sentimenti, bassi o alti che siano. Per cui esso viene ad essere lo strumento di mirabili armonie o di stridenti cacofonie. Nino Agnello non esita a tirare in ballo il proprio cuore, al quale dà persino un nome: “Chitarra fedele”, autobiografandosi con quel candore che è la peculiarità del suo temperamento, non soltanto poetico. Allo specchio egli si vede cuore, prima che mente. Cuore dal battito aperto e amplificato. «Orchestra piena e strumento solitario / prigione e liberazione / palazzo e cella silenziosa / cattedrale solenne e nuda / d’inafferrabile Dio».
Ecco in pochi versi l’identikit di un uomo che si propone a metafora di una umanità-cuore. Si tratta, in sostanza, di un progetto etico-formale che fa il punto sulla condizione più attiva dello spirito, il quale tende a coniugarsi con i significati autentici della vita. E si fa parola, voce, respiro. A volte è un canto intriso di nerudiana passione, altre di manzoniana meditazione o di quella levità che diremmo betocchiana. Su Carlo Batocchi, Nino Agnello scrive un saggio usando un criterio di lettura che affonda in una dimensione di umori esistenziali e di strutture, scoprendo così che «il segreto sia dell’arte sia della verità» per questo poeta «consiste nell’accettazione della sorte comune». Ma è come parlasse di se stesso. Il fare poesie per lui è sapere entrare in sintonia con la vita. E non ne fa un mistero: «La poesie - scrive nella prefazione alla sua silloge “Accadimenti” aspira a farsi voce corale e consapevolezza delle comuni pene e responsabilità, coscienza storica e figlia della civile e sociale contemporaneità... La poesia così diventa essa stessa un fatto umano».
La parola assume della vita la forma, il colore, la durezza, sa sensuosità. Accade questo ‘nel privato laboratorio’ di Nino Agnello: si celebra l’oltre che c’è dietro le parole: l’oltre-dolore, l’oltre-gioia, l’oltre-stupore, l’oltre-preghiera. Soprattutto l’oltre-amore, anche quello intimo felicemente vissuto. La lirica “Amore ad Amsterdam”, dedicata a Maria è l’apoteosi dell’amore coniugale, l’oltre del poeta insieme alla sposa dove «le parole si sono fuse alla carne» e stanno a significare l’amore come «incrocio di anime vaganti, che scrivono storie con parole solari».
Nino Agnello vive, tramite la poesia, una strabiliante vicenda ulisside, con una sua Itaca di ritorni dove riecheggiano le voci che la sua anima di aedo ha raccolto nei luoghi del sentimento: la vita, le strade, il paesaggio.
Perciò la sua poesia non vive di astrattezze, ma si ombelica alla storia come figlia legittima. Diventa un libro-testimonianza dell’opera umana e divina insieme. Storia della città e di tutte le città. Storia degli uomini piccoli e grandi, giovani e anziani, deboli e potenti. Storia dei figli della terra disgregati dall’odio. Poesia della speranza estremizzata in utopia. «Vorrei che anche le parole / fossero schegge di granito e porfido rosato per sorreggere ali d’incontri». Nino Agnello ama molto viaggiare. E non è soltanto un fatto ricreativo, ma anche – forse soprattutto – un forte bisogno di mondo. Lo appaga visitando città vicine e lontane che traspone sulle pagine trasfigurandole in simboli di quel tutto che è la città-mondo. Lisbona, Fatima, Coimbra diventano l’invisibile Zara di Italo Svevo «città che chi l’ha vista una volta non può dimenticare», come appunto scrive Calvino nel suo affascinante libro “Le città invisibili”.
Nino Agnello idealizza le immagini con l’oculare del sentimento, il quale ne coglie l’essenza rendendole perenni. «Se tu la guardi / poi a qualche distanza / magari da un’altura / o dalla finestra del ricordo / la città trappola d’insonni contrasti / ti rivela qualche insopprimibile bellezza». È in virtù di questa dilatazione del simbolo idealizzante – il vedere da un’altura o «dalla finestra del ricordo» - che egli riesce ad affrancarsi dallo scetticismo e a credere nella capacità dello spirito di sfuggire alla violenza: «Non credere che la vita si possa comprimere sempre / dentro un sacco / legato alla bocca: prima o poi esplode / per occulte vie / e ragioni.» Il poeta si scava la strada, nei luoghi più impervi dell’esistenza, tramite la parola. Il poeta di ogni tempo e di ogni luogo, intendiamo. Da Dante a Manzoni, a Neruda, a Quasimodo. La parola del poeta è il no alla dissennatezza, alle guerre, all’ingiustizia. E parrebbe che le ragioni fossero tutte parole. Quell’interrogativo «Tutte parole»? sulla copertina di un libretto di poesie, che porta l’impronta del tempo, non è affatto anacronistico. La sua uncinata retorica è una spavalda, quanto attuale, sfida diretta a chi pensa che la parola sia inutile e persino oziosa. E qui salta fuori, avvallata dalla logica, la domanda più antica e più ovvia: se le parole che denunciano un abuso di potere e il bisogno di libertà e di giustizia fossero soltanto un suono perché i dittatori continuano a soffocarle? La parola del poeta è una spada di innocenza e da accuse che può sbigottire o illuminare le coscienze perverse e annebbiate. E Nino Agnello, quando occorre, non esita a usarla. La mente lucida e la voce ferma, carica di indignazione: «E noi grideremo allo scandalo / finché esiste un solo angolo di strada / colmo d’indecenza e tanti abbandoni». Si gonfia la sua angoscia a dismisura per gli atroci accadimenti che infestano l’odierna società, al punto di non trovare un grido che la traduca fedelmente. «Quale silenzio per una lapide bianca / o quale grido di imprecazione / se un mostro squarta un ragazzo / e ne scioglie i pezzi nell’acido come sapone / o cannibalico stufato?».
Nel riprendere il tristissimo caso Nino Agnello non chiede soccorso nemmeno alla metafora, tanto grandi e scoperti sono il suo sconforto e il suo furore per l’efferato delitto. Vuole nude e impoetiche le parole, come sono nudi e impoetici i fatti. È lo scempio della poesia del quale la stessa poesia è una lucida testimonianza. Il poeta non volta le spalle al dolore, ma se lo porta dentro nella desolata geografia delle offese. Parola umiliata che si racconta. E non sa se qualcuno l’ascolta. Se la sua pagina di angoscia è chiusa oppure aperta. Narra insonne una ninna nanna spezzata: «Non può dormire né padre né madre / se ancora un solo bambino / giace nella cunetta dopo lo strazio / che brucia le rose dell’innocenza.». I bambini, appunto. Sono la poesia che si scrive da se stessa. La parola che azzurra la vita. E maltrattare un bambino è come spegnere il mondo. I bambini sono portatori di favole, come un uomo malvagio portatore di sventure. La catarsi in questo itinerario poetico, dove il dolore ha una sua regolare presenza, giunge insieme a un bambino, il nipotino Francesco, al quale Nino Agnello dedica una plaquette intitolata “Le belle fabelle”. Sullo schermo bianco della pagina compaiono, come ombre cinesi intrecciate da dita invisibili, i graziosi interpreti delle favole (animaletti, piante, omini, piccole cose) che possono attrarre un bambino, ma che inducono un adulto a riflettere, poiché nella sostanza le belle fabelle non sono altro che dei giocosi epigrammi su debolezze e miserie in cui l’uomo spesso incorre. Tant’è, le prime dieci provengono dal libro “Tutte parole” il cui tono - del tutto scoperto nella seconda parte – è epigrammatico. In quel tempo il piccolo Francesco era soltanto nel disegno divino. È come se egli avesse ereditato l’orologio del nonno, le cui lancette scandiscano il tempo della favola perenne e circolare. Quella che precede la nascita di un bambino. E dura quando questo, diventato uomo, la lascia. Dura per altri bambini.
Il taglio dall’haiku (la poesia-miniatura giapponese oggi in voga) conferisce alle composizioni leggerezza e rapida fruibilità, impegnando i riflessi del piccolo ascoltatore (o lettore) quel tanto che basta per divertirlo. «Quando ero pieno / tiravano acqua, ora che sono secco mi tirano pietre. / La gratitudine è l’altra faccia dell’utilità…». Di essi metabolizza i sogni e ne arricchisce la sua piccola risorsa di fantasia alla quale attinge, quando i colori della vita diventano tetri. «Giocare con te» scrive al nipotino, nella prefazione a “Le belle fabelle” «è l’ingenua felicità d’inventare altre favole». La morale viene a patti con la poesia. Non è la vecchia parruccona. È “il ronzio” di un moscerino “lieve lieve” appena «un sibillo di vento» al quale un bambino di nome Francesco, tende l’orecchio, smanioso di sapere, prima che passi, cosa c’è oltre quel suo suono, se l’ha veramente sentito o sognato. E scopre che l’amore gli ha inventato una favola: «Dove i lupi diventano agnelli? / e i fringuelli corvi rapaci / e gli occhi come due stelle /e gli uomini sempre felici? / - Nella favola». Mi fermo qui, in questo favoloso luogo del sentimento, di cui è protagonista un bambino, che può contagiarci, per bocca del nonno-poeta, la sua gioia di vivere.


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