Teresio Zaninetti
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Giorgio Gaber: Il coraggio del sacrificio
La morte di Giorgio Gaber, il primo dell’anno,
mi ha colto impreparato. Sapevo da mesi che sarebbe morto. Ma la notizia,
confusa fra le altre, le innumerevoli morti che accadono quotidianamente, di
questi tempi, è arrivata così inaspettata, al punto che ho compreso di avere
pensato che non sarebbe mai morto. O forse che ero preoccupato per molte
altre cose, molte altre situazioni - compresa la mia -, da non aspettarmi
questa notizia. Forse - almeno questo ora mi è chiaro -, se non avessi
sentito la notizia alla radio e non ne avessi letto nulla sui giornali, per
me non sarebbe mai morto. Anche perché lui era già da molti anni, per me,
esterno. E, del resto, il fatto che lui sia morto fisicamente, mi ha
confermato che nessuno può essere considerato morto quando ti ha
accompagnato il suo passo, il suo respiro, la sua voce, la sua pausa tra il
verso di una sua canzone e l’altro. In altre parole, lui era mio, in quanto
lo avevo posseduto e non lo avevo più abbandonato. Per questo lui è ancora
vivo. E anche, a differenza di Ivan Dalla Mea, che ne ha scritto
“sull’Unità”, non ha mai cercato di “far parlare la classe” (Che era già più
o meno simile a quella “morta”?? di Kantor – tanto più che già alla fine
degli anni ’60, la classe era stata brutalmente disintegrata, o perlomeno
disseminata, dissolta in migliaia di rivoli sparsi), ma il suo impegno
consisteva nell’esprimere ciò che esprimevano (o non riuscivano ad
esprimere) o pensavano (e non riuscivano a formularlo) gli altri. Li
scrutava, li analizzava da sociologo; li interpretava, gli altri, impregnato
di Reich e assorbito dalla necessità di capire, comprendere ciò che accade
dentro e fuori di una persona, quando è sola e quando è in gruppo, o in
mezzo ad una folla (che pur attenta rimane sempre “massa”, sempre “numero”,
cioè oggetto).
In effetti l’individuo tutto può parlare, anche senza che apra bocca.
Fotografato all’interno, infatti, l’individuo è identico a quello
fotografato fuori. Accade per il respiro del-la vita, il suo manifestarsi,
il suo plasmare ogni essere in un modo completamente diverso, nel senso che
ciascuno recepisce a proprio modo una stessa cosa, a meno che non sia del
tutto condizionato dall’habitat e dalla coscienza che esso determina: per
cui tutti, pur fisicamente differenti, si comportano in modo identico e
diventano, ognuno, il “doppio” (o anche il “clone”) dell’altro. E non certo
si verifica, questo, solo perché debba essere indispensabile rivolgersi
all’interiorità, o calarvisi, ma proprio perché solo l’interiorità è
l’assenza, è ciò che un habitus contiene, vale a dire l’anima.
Anche Pasolini, nel ’75, dalla fotografia di un poliziotto - dalla parte dei
quali si era schierato nel ’68, a Valle Giulia, poiché essi erano “figli di
povera gente” e con un “salario da fame” -, per fare un esempio, riusciva a
ricostruirne l’identikit interiore e quindi anche l’habitat che lo aveva
costruito o, meglio, costituito, anche in senso di evoluzione della
personalità attraverso esperienze, reazioni, emozioni non rivelato a nessuno
e compressa, ottenuta segreta fino ad una circostanza che la evoca, che
“esige” che si comunichino a qualcuno con cui ti avverti in sintonia. Ora
qualcuno dice che non si era mai “schierato”, che era un “cane sciolto”,
addirittura “un qualunquista”. Se mai, Gaber ha fatto parlare l’ “uomo
qualunque”, ma non l’ “uomo senza qualità” musiliano, che era senz’altro
rigido e freddo, matematico quasi se non proprio scientifico. Gaber si è
schierato sempre dalla parte dell’uomo e, come Wilhela Reich, ha cercato di
aiutarlo a vivere, a soffrire meno: perché nella vita, nella realtà, è più
difficile cercare di aiutare a vivere, a soffrire meno. La sofferenza e il
dolore, uniti alla sempre lucida consapevolezza di una scelta
volontariamente di libertà individuale e collettiva insieme, costellano la
vita e la fanno fluire, provocando all’interno di ciascuno situazioni
imprevedibili e graduali, come accadde anche il dottor Rieux ne “La peste”
di Albert Camus. E cercare di “curare” l’uomo significa, quasi sempre,
assorbirne i malanni, le contraddizioni, i “tumori”, psicologici ed organici
che siano. Fa parte di un rapporto interpersonale che diviene
intersog-gettivo, quindi anche maieutico.
È su questa linea che lo si trova, Gaber, completamente schierato fin dagli
LP “Occhio, cuore, cervello”, “Anni affollati”, “Pressione bassa”. Una linea
che si delineò ben precisa soprattutto con “Io se fossi Dio”, dove il
rancore - ma espresso in arte, con musica e testo, cioè canzone, esso
dovrebbe essere sempre accettabile, a meno che non si vogliano negare la
libertà di parole e di pensiero - vuole essere, nell’intenzione e
nell’espressione, un estremo richiamo ad un modo di vivere e di essere che
non diventi mai prevaricazione dai tanti sui pochi, o dei tanti sul singolo,
concetto basilare che si ritrova intatto nel testo della canzone che, con la
sua voce registrata, al suo funerale dice: «Non insegnate ai bambini / non
insegnate la vostra morale / è così stanca e malata / potrebbe far male /
forse una grave imprudenza / è lasciarli in balia / di una falsa
coscienza... / Non insegnate ai bambini / ma coltivate voi stessi / il cuore
e la mente / stategli sempre vicini / date fiducia all’amore / il resto è
niente». Anche quel disco, preso anch’esso singolarmente, non può essere
considerato che l’insieme di una rabbia che si è accu-mulata dopo aver in
tutti i modi mancato di fornire elementi umani e certamente contraddittori,
affinché si accettassero anche le imperfezioni dell’uomo, le sue
irragionevolezze, le sue frenesie, le sue utopie, i suoi entusiasmi, i suoi
sgo-menti. Andare verso l’uomo, tentare di scardinare la crosta e
l’isolamento individualistico con la propria pelle messa in gioco, può
risultare, alla fine, un capolavoro che è soprattutto un dono impagabile.
La presenza di più di diecimila persone, a Milano, il 3 gennaio, per i suoi
funerali, fa comprendere che il suo stesso amore è stato compreso e
ricambiato da chi lo ha conosciuto, apprezzato, soprattutto condiviso. Ed è
in parte vero che la sua “generazione ha perso”, come ha detto, ma tante
altre hanno perso o, forse, fino ad oggi, nessuna generazione ha mai vinto
così a lungo da poter durare in eterno. Come capiterà invece all’opera di
Giorgio Gaber, come capita all’opera di tutti i grandi. Che in genere sono
anche, come lui, generosi in tutti i sensi. Tanto da far capire, per
l’ennesima volta, che esiste anche il coraggio del sacrificio, cioè
dell’amore, benché «morire a far morire / è un’antica usanza / che suole
aver la gente». |
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