Il Convivio

A. IV n. 3
Luglio - Settembre 2003

Il principe dei tappi

 

Appoggiato al muro della vecchia chiesa guardava la gente che entrava per il solito rito domenicale. Se la rideva e con fare strafottente e altezzoso a imitare il prete che con la mano sinistra benediceva. Stretto nel pugno destro un fiasco spagliato di vino e tra una benedizione e l’altra tracannava.

        La moltitudo aveva nausea a vederlo. Cercavano di scansarlo o evitavano la sua presenza. Lo ignoravano e passavano oltre. Sapendo del ribrezzo che suscitava, se ne compiaceva e fiero si autoincensava parlando di sé. Incalzava:

        «Bravo Nicola! Lunga vita per sempre a Nicola».

        Una ragazza a passo svelto si avvicinò e lui sardonico e altero disse:

        «È un bel tipo Nicola, vero? Dimmi s».

         La ragazza rise. E lui ingollò vino facendosene cadere un po’ addosso. Si complimentava:

        «Bravo, Nicola Lei è un genio!». E rideva.

        Decisamente appariva indecente nel suo untume. Unico suo scopo era provocare, perché diceva:

        «Il disprezzo si concede a grandi uomini. I mediocri non hanno senso».

        Da diuturno tempo Nicola viveva in quel borgo ivi giunto un tardo pomeriggio di fine settembre. Nessuno sapeva da dove né egli stesso lo diceva. Tuttavia, lo avevano accolto bene. Si contentava di poco; avanzi di altri, faceva lavori in cambio di un piatto di minestra o per qualche spicciolo, un abito dismesso, un paio di scarpe.

        Egli non ricordava il suo nome.

        «Nicola c’è! Esiste! Questo basta!» diceva orgoglioso.

        Sapeva di essere il soprammobile per tutte le strade, ma non se ne preoccupava. Quella domenica Nicola vestiva ancora lercio. Putiva avvinazzato nel respiro pesante. La sua giubba grigioverde lacera e sordida, i pantaloni di velluto blu con vistosi rattoppi color asfalto impolverati lordati e sozzi le scarpe ginniche erano di foggia e colore diverso. Il basco blu era appoggiato sul lato destro del capo folto da una enorme capigliatura bianca lanosa e fetida. Dalle labbra il suo solito sigaro pendeva umido di saliva.

        Nicola benediceva e ingurgitava. La gente passava oltre o si fermava a ridere di cuore. Egli salutava e ringraziava inchinandosi scuttrettolando:

         «Ti piace Nicola? - chiedeva - Ebbene non è pane per i tuoi denti questo» insisteva, indicandosi con il pollice.

        «Nicola, raccontami qualcosa!» fece una signora avvenente.

        «Raccontarti che? - rispondeva bisbetico. - Cosa c’è che tranquillizza la tua ottusità bella signora?».

        La donna avrebbe voluto controbattere ma il marito la trascinò via.

        «Andiamo cara, altrimenti perdiamo il posto a messa!».

        Egli pronto ribatteva:

        «Sì, andate a prendervi la vostra razione quotidiana di fandonie per meritarvi il paradiso!».

        Tirò fuori dalla tasca una busta di plastica gialla e ne rovesciò il contenuto sul sagrato: erano tappi. Di plastica, sughero, metallici, a corona, a pressione, circa una cinquantina. Con pazienza giocosa li metteva in un ordine apparentemente confuso ma razionale per la sua logica.

        «Signori - diceva. - Signore, vengano da Nicola! Vedrete cose mai sentite e saprete cose mai viste».

        Qualcuno si avvicinò per curiosità, ma dall’interno della chiesa tuonava la voce stentorea di don Egisto.

        «I fedeli sono avvisati che se tarderanno non sarà loro concesso il diritto al perdono».

        Allora Nicola, incominciava a bersagliare i tappi con pietruzze, e quando ne colpiva uno, saltellava come un monello, se non ne colpiva andava su tutte le furie. Inveiva e scolava il suo vino.

        «Vengano, brava gente, vengano a vedere il Principe dei tappi, Nicola è il principe».

        I ragazzi del paese fecero capannello per vederlo. Giocava con i tappi. Li faceva roteare in aria e li riprendeva come un giocoliere.

        «Nicola, ma che ti hanno fatto i tappi?» chiese un ragazzo.

        Egli solenne lo guardò sorridendo lasciando cadere i tappi. Uno solo restò nella sua mano. Lo mostrò.

        «Ecco la causa di tutte le sciagure! - disse. - Dunque immaginate un sogno. Dove tutte le cose inanimate abbiano un significato. Ebbene, il tappo non è che il carceriere. La bottiglia è la prigione e dunque il vino non può che essere la libertà. Senza tappo, né bottiglia né vino avrebbero senso. Chi non apprezza il vino nulla può sapere del tappo».

        A quel punto i ragazzi si misero a cerchio per ascoltare.

        «Attenzione, non sempre però tappo e bottiglia sono facili da vedere. Spesso si scambiano i ruoli, ma il vino ha sempre lo stesso sapore».

        Nicola alzò il dito della mano destra a mò di minaccia.

        «Ma io vi dico... - si bloccò di colpo... - ho detto io? Si, parlando di libertà ha detto, io...».

        Si guardò intorno e sorrise.

        «Sono padrone di me stesso! Brindiamo, dunque! Vino per tutti: paga il tappo!».

        E offrì il suo fiasco ai ragazzi, ma nessuno accettò. Lo guardarono stranamente per qualche attimo tutti pensosi. La messa era finita, compìta la gente tornava a casa, qualcuno guardava altri no. Lo ignoravano. Egli faceva gestacci, boccacce. Prendeva un tappo e mimava il gesto del prete nel fare la comunione.

        «Eccoti il carceriere. Scegliti tu la prigione!». E rideva.

        Lentamente la gente si allontanava. Solo una ragazza rimase con lui.

        «E tu, che hai da guardare?» fece Nicola spigoloso.

        «Io veramente... - rispose intimorita la ragazza - Io nulla! Volevo solo parlare un po’».

        «Eccomi a te - sorrise lui. - Dimmi tutto!».

        «Perché?» chiese.

        «Perché, cosa?» rispose Nicola.

        «Perché ti sei ridotto così?» chiese lei, timorosa.

        «È una vecchia storia di libertà...» fece lui, con una dolcezza mai vista.

        «Libertà?» domandò la ragazza.

        «Un tempo ero... cosa importa chi io ero? Adesso sono qui. Faccio ridere i tuoi simili, o li faccio piangere. Forse riflettere. Gioco il mio ruolo, piccola. Recito la mia parte. So solo che sono libero, bevo vino, faccio guerra ai tappi. Di questi oggetti ne è pieno il mondo. Pensano di essere vino e invece sono banali tappi o volgari bottiglie!».

        La ragazza si turbò, stava per piangere quando il fidanzatino le si avvicinò:

        «Ti ha offesa questo buzzurro?» chiese.

        «No, Nicola non offende nessuno» disse l’uomo.

        «Ti spacco la faccia, se dai fastidio alla mia ragazza!».

        «Tappo! - fece lui. - Tu farai sempre il tappo nella tua vita».

        «Va all’inferno!» rispose il ragazzo.

        E Nicola:

        «Io abito all’inferno, piccolo!». E bevve.

        «Questo è il nettare della libertà. Inferno e libertà sono fratelli bastardi. Salute!».

        I due ragazzi se ne andarono delusi. Nicola restò solo. La piazza della chiesa era vuota.

        Da lontano si sentirono le sirene. Sempre più forti. Arrivarono quattro macchine della polizia. Il commissario andò verso Nicola.

        La gente curiosa voleva vedere per l’ultima volta il Principe straccione. Il commissario si avvicinò, egli tese le mani. Scattarono le manette ai polsi.

        «Finalmente! T’ho beccato!» disse il commissario.

        «Oh, chi si vede! Il primo tappo!».

        Ingoiò l’ultimo sorso di vino. Cadde il fiasco dalle sue mani.

        «Addio libertà! – ridacchiò. - Altre prigioni ci attendono!». Poi sparì dentro la volante della polizia.

        La gente guardò sgomenta. Incredula.

        «E adesso?» chiese un vecchio.

        «Che faremo senza Nicola?» fece un giovane.

        «Chi parlerà come sapeva fare il Principe dei tappi?» domandò una ragazza.

        «Senza lui saremo poveri!» aggiunse una donna.

        «Per sempre più infelici!» disse un bambino.

        Qualche tempo dopo si venne a sapere che Nicola altro non era che un evaso condannato per omicidio.

        Aveva ucciso per la libertà. Per non essere prigioniero. Per amore, si disse, o per dignità.

        Si uccide per non morire. Ci sono tante ragioni per farlo incomprensibili e sfuggenti.