Il Convivio

A. IV n. 3
Luglio - Settembre 2003

L’epica di Fenoglio: Langa e resistenza

di Giorgio Bàrberi Squarotti


 

È troppo facile e perfino banale parlare di Fenoglio come lo scrittore specificamente tipico delle Langhe, nello spazio molto ristretto fra Alba e San Benedetto Belbo, Murazzano e il Tanaro, le colline che più si inerpicano in alto e più sono aspre, ardue, difficili, faticose.

Al confronto, si pensi alle alternative che, invece, l’altro grande scrittore piemontese del Novecento, Pavese, offre: Torino, le colline torinesi, quelle del Monferrato, oltre Santo Stefano Belbo e i dintorni; e lo spazio è, anche sociologicamente, molto più vario e avventuroso rispetto a quello di Fenoglio. Il fatto è che quanto più lo spazio fenogliano è limitato, tanto più esemplarmente si rivela come un modello, un’allegoria.

Non c’è nulla di veristico e naturalistico nella rappresentazione di eventi, personaggi, vicende, comportamenti della narrativa di Fenoglio (e, ai loro tempi, né Vittorini, né Calvino lo capirono, con notevoli danni e disperazioni per lui). C’è un’eccessiva sproporzione fra la scrittura e gli argomenti delle opere di Fenoglio e i luoghi reali che egli descrive.

Se ci si ferma a questo punto, non si comprende il valore altissimo dello scrittore, e si rischierebbe di vederlo come un autore locale, sì tanto amato e ammirato per ragioni affettive di langaroli e di piemontesi in genere, ma in tale misura rapidamente sarebbe dimenticato e non apparirebbe quale è, come uno dei sommi autori del ‘900 in assoluto (non soltanto italiano, naturalmente).

Non si dimentichi, anzitutto, la profonda e raffinata alternativa culturale della scrittura di Fenoglio accanto alla lingua colma di forme langarole in modo anche clamoroso: l’inglese, con la traduzione, per esempio, da Coleridge e con l’uso di tale linguaggio come rinforzo, innalzamento e migliore dignità della narrazione epica de Il partigiano Johnny. E ci sono anche le versioni e i rifacimenti di poeti latini.

In questo modo, Fenoglio ha voluto dimostrare, con discrezione ma con chiarezza, le sue ambizioni di scrittore, anche il rapporto e il contrasto con Pavese così anch’egli attento alla cultura angloamericana, ma in un ambito molto lontano rispetto all’inglese di Fenoglio, e anch’egli legato con le Langhe e con i modi del suo dialetto, ma come fondamentali strumenti di reinvenzioni e interpretazioni dei miti classici ed etnologici.

L’opera narrativa di Fenoglio è divisa in due fondamentali vicende, nello stesso spazio langarolo, ma in tempi diversi: le colline faticose e povere, con il lavoro accanito e disperato, senza luce e senza pace se non nella morte, e la Resistenza, queste ultime racchiuse in un periodo di tempo rapidissimo ed essenziale. Le Langhe de La malora e dei racconti (e anche, in qualche modo, de La paga del sabato nella sua stesura completa e, dopo la morte di Fenoglio, restaurata) propongono una varietà diffusa di situazioni, di tempi, di eventi: le morti familiari, le malattie, le necessità del lavoro misero e feroce, un matrimonio sotto la pioggia di San Benedetto, l’esplosione della violenza nella disperazione estrema dei luoghi così chiusi e lontani, nella valle della Bormida (e il racconto Un giorno di fuoco può essere messo a confronto all’altro evento tragico di Pavese, ne La luna e i falò, quello del Valino che uccide quasi l’intera famiglia e brucia la casa dove faticosamente lavorò sotto la tirannia del padrone della terra). La malora è, nell’ambito della vicenda langarola, non un romanzo naturalistico, ma epico. È l’epica dello scontro fra l’uomo e la Natura ostile e crudele (con un che anche di leopardiano). Non è fondamentale il fatto che il protagonista con la sua famiglia sia vittima della disgrazia, secondo il modello naturalistico: la malora è il termine che designa l’evento misterioso di derivazione divina, del culmine di malattia, miseria, impotenza d’agire, così come il Giobbe biblico. Il protagonista è come Giobbe: la successiva morte dei genitori, la perdita della casa e della famiglia, la riduzione a servo oppresso, l’impossibilità d’amore e di pace del cuore, il fratello malato a morte.

E come Giobbe, alla fine Agostino vede la luce della speranza: non il ritorno, a opera di Dio, come accade al personaggio biblico, nelle sue condizioni felici di prima, ma l’inizio della ripresa di conforto e di ordine dell’anima e della vita. E, proprio nella conclusione de La malora, c’è l’allusione pudica e pura dell’intervento della madre morta a soccorrere Agostino e a ricomporre la famiglia come per l’intercessione presso Dio.

L’altro blocco, molto più corposo, della scrittura fenogliana è costituito dalle vicende che vanno dallo scoppio della Seconda Guerra Mondiale alla resistenza, che ne è, poi, la sezione fondamentale. Il gruppo di romanzi che vanno da Primavera di bellezza a Una questione privata fino a Il partigiano Johnny è fortemente unitario, come un grandioso poema epico, quale la letteratura del Novecento non ha conosciuto. Fenoglio ha davanti a sé i sommi modelli di epicità: Omero, ma soprattutto il Tasso della Gerusalemme liberata e Milton, l’autore del poema epico della guerra del Bene contro il Male, di Dio contro Lucifero, gli Angeli fedeli contro gli Angeli ribelli. Non per nulla il protagonista di Una questione privata ha come nome di partigiano Milton e Johnny è il diminutivo inglese di John Milton. La “questione privata” non riguarda una semplice situazione di vero o falso amore, ma il protagonista deve sapere se gli è o non gli è fedele, cioè se è o no partecipe del tradimento, che è la colpa fondamentale (anche per Dante), soprattutto, poi, in una lotta fra gli uomini che credono nell’onestà, nella fedeltà, nell’obbedienza ai valori spirituali e morali, e gli altri uomini che, invece, hanno tradito e si sono voltati verso il Male della storia (il Fascismo e il Nazismo).

La lotta fra il Bene e il Male non è storica, ma ideale, accade e continua al di là del tempo (e il modello del poema epico di Milton ne è la dimostrazione). Per questo, i personaggi di Fenoglio coinvolti nella Resistenza, chiunque essi siano, di qualunque parte politica siano, sono costantemente sconfitti e si trovano, in ogni caso, nelle condizioni più avverse, male armati, sottoposti alle difficoltà peggiori della natura, Si pensi, a questo proposito, all’infinita pioggia fra la fine dell’ottobre e l’inizio del novembre quando i fascisti intervengono per riprendersi Alba conquistata e liberata dai partigiani: il Tanaro è disastrosamente in piena, i campi e le colline sono marce d’acqua, e in questo caso i trecento partigiani rimasti a difendere la città si trovano, già tanto pochi e con poche armi, nelle condizioni di assoluto svantaggio, mentre i fascisti sembra che non si accorgano neppure delle difficoltà del clima. Il giovane calvo, che è con Johnny ed è rimasto a combattere, mentre suo fratello è tranquillo in Svizzera ed egli, in ogni caso, potrebbe, ricco com’è, vivere nascosto in attesa che finisca la guerra, è rovinosamente raffreddato, e prende tuttavia con ironia l’ulteriore difficoltà personale, aggiuntasi a quella comune. Alla fine, muore come l’eroe glorioso e sconfitto quale esemplarmente è, perché ha raggiunto il culmine del danno fisico e della presunzione della natura nell’affrontare, il nemico, il Male. E muore anche il sergente che è con il mitragliatore, e allora, come esaltazione più pura e sublime del trionfo della sconfitta, Johnny ne spinge il corpo al di là del fosso, al riparo del condotto, perché il suo volto non sia sfigurato dalla pioggia e dal fango.

Nell’alba, prima della battaglia, Johnny si volge a contemplare la città amata, che sembra sollevata in alto, al di sopra della nebbia sottile, e piange perché la sa irrimediabilmente perduta, e inutile sarà la difesa. Alba è come la Gerusalemme sacra, che Assiri e Romani hanno conquistato e distrutto. L’elegia di Johnny su Alba come Gerusalemme antica è quella stessa di Argante, quando, prima del combattimento estremo, si volta a guardarla con la consapevolezza di non averla potuta salvare, calmo e disperato. Questa è l’epica di Fenoglio. Anche l’agguato dei fascisti nella villa di Fulvia avviene nel fango, e la fuga di Milton avviene emblematicamente come l’estrema salvezza, nella corsa bestiale, come compete ai combattenti del Bene, che assolutamente non possono trovare dietro, intorno, davanti se non difficoltà, svantaggi, ostacoli.

Si ricordi la lunghissima fuga di Johnny e dei pochi superstiti dopo la perdita di Alba, per le rive delle Langhe, fra le non nominate colline, in mezzo all’eterna pioggia e nel fango, che sono allegorie dell’esemplare destino dei combattenti del Bene, mentre i combattenti del Male hanno tutti i vantaggi possibili, e neppure patiscono le fatiche e gli ostacoli naturali, immuni (come se li proteggesse il Maligno, il protettore e l’incitatore dei Male). Pressoché tutti i combattenti fra i partigiani e i fascisti o i tedeschi si concludono con le loro sconfitte, anche l’ultimo narrato ne Il partigiano Johnny, anche quando pare che possano avere la meglio. Non è una vicenda storica, reale, ma esemplare e allegorica.

La Resistenza è un evento, sì, storico, ma Fenoglio lo ha trasformato nella rappresentazione dell’eterna lotta fra il Bene e il Male, e le Langhe sono il luogo più adeguato per questa battaglia, perché è una regione ardua, difficilissima, remota, lontana dalla civiltà moderna (come, d’altra parte, anche Pavese aveva voluto fare), e lì, allora, Bene e Male possono affrontarsi ancora una volta, come all’origine della creazione accade fra gli Angeli ribelli e gli Angeli fedeli per la gloria di Dio. Primavera di bellezza è il preludio (narrativamente minore) della rappresentazione della lotta fra Male e Bene nell’occasione della Resistenza, ma è anch’essa il racconto di una doppia sconfitta, quella dell’Italia nella guerra e, dopo, quella nel primo scontro fra partigiani e tedeschi, con la feroce rappresaglia di Boves. Ma soprattutto Una questione privata e Il partigiano Johnny sono, nel risvolto della guerra e della Resistenza, gli esempi letterariamente e concettualmente supremi dell’epica moderna, garantita dalle citazioni antiche. Le Langhe ne sono l’ideale spazio, non soltanto il luogo concreto e reale. Se fosse soltanto questo, Fenoglio non sarebbe lo scrittore sublime che è.