- Le feci sedere
intorno a me, parlai loro di chi fossi, senza chiedere nulla. L’impatto fu
stupendo perché man mano che i minuti passavano gli sguardi mi diventavano
amici. Organizzai i primi lavori, ricordandomi quelli che facevo da
bambina. Insegnavo a tenere l’ago a mani rozze e a quelle raffinate. Tutte
uguali nell’incertezza del delicato lavoro manuale. Ogni volta che le
ritrovavo avevano voglia di dimostrare la nuova capacità. I lavori
progredivano, venivano finiti. Non so come sia stato possibile passare in
breve dal primo punto croce all’intaglio inglese. Affascinate dai colori
dei cotoni e dai disegni realizzati, avrebbero voluto non finissero mai
quelle due ore di lavoro. A me piaceva l’atmosfera assidua, il parlare
libero, il via vai della stanza che faceva dimenticare il luogo di pena se
non vi fosse stato, puntualmente, il momento della “battitura”. Un suono
metallico alle sbarre delle finestre che riportava alla realtà. E tutte, a
turno, vicine a me, parlando della loro vita, degli amori mancati e
dell’infanzia quasi sempre smarrita. Quasi tutte, anzi tutte, con gravi
problemi familiari. Disaccordi, miseria, solitudine, un denominatore
comune che dovrebbe interessare gli psicologi e, meglio, la nostra
società, così poco propensa a realizzare ciò di cui molto parla. Racconti
di abbandoni, promiscuità, vagabondare per il mondo, senza un punto fermo
e il problema dei nomadi che si trovano a dover rubare per tirare avanti,
un’esistenza che nessuno ha insegnato loro. Di generazione in generazione
nelle baracche provvisorie. Giovani che hanno dozzine di figli
senza sapere il perché, senza nessuna volontà e capacità di amore. Quasi
sempre le saluto baciandole. Alcune mi confermano non aver mai
avuto un bacio affettuoso di amicizia. Al mio arrivo vengono incontro per
quel saluto inconsueto. Qualcuna mi ha mostrato l’ordine della cella,
altre non si avvicinano, restano sdraiate sulla branda,
lo sguardo al soffitto che segue il fumo della sigaretta. Vi sono
giovani straniere. Di paesi lontanissimi che l’avventura ha portate in
Italia. Avventura di miseria sempre. Ora sono state trasferite. Mi
scrivono parole dolcissime di affetto, accompagnate da poesie. Perché la
poesia è un’arte intima, sociale ed è figlia del raccoglimento e del
dolore. Così come può esserlo la gioia. Nell’espressione di queste donne
non riesco a leggervi come possa avvenire, in quelle
condizioni, un serio ravvedimento. Così le ore passate nella
noia non possono avere una positiva rieducazione della loro esistenza. Se
domando cosa pensano nel chiuso della cella, mi dicono quasi tutte della
mamma, del primo amore, quelle che lo hanno provato anche se non
realizzato. Vi è nell’animo di queste persone che sembrano perdute,
l’amarezza di non essere mai state capite nel momento più delicato e
difficile. Si perdono sovente per questo smarrimento sociale all’impatto
con la realtà esistenziale. Credono di amare, ed incontrano il
“protettore”. Credono nella solidarietà del prossimo, quando hanno
bisogno, e trovano indifferenza. La perdizione morale credo io essere un
momento di grande dolore affrontato senza sicurezza di un
prossimo capace di aiutarti. Chi di noi può essere sicuro di non aver
avuto tristi soluzioni di vita, se i genitori o gli amici non ci avessero
aiutato? La mamma, i nonni gli amici di scuola! Quanti coloro che sono in
carcere, hanno potuto contare su questo? Ecco perché il mio carcere e
vorrei che altri riuscissero a capirmi per arrivare un giorno a provare la
gioia di questa esperienza che io non immaginavo mai fosse così grande.