Il Convivio

A. IV n. 3
Luglio - Settembre 2003

Perché ho scelto il carcere
di Athe Gracci Biasci


 

Perché il carcere? mi domandano gli amici. Non esiste un vero perché, se non quella di convincere me stessa con prove morali che vanno più al cuore che allo spirito. Cominciare un qualcosa per dare ancora te stesso, al momento che tutto sembra finire. Mentre insegnavo dinanzi al silenzio degli studenti, sovente pensavo dove poter ritrovare, un giorno, la profondità dell’abisso interiore. Cercare una verità. Sradicare l’anima dalla pigrizia della solitudine all’abbandono. Pensavo a come poter sapere se l’anima è immortale. Per non perdere, in vecchiaia, ogni sentimento per l’umanità. Quella sola che soffre, senza poter più nulla. Il primo colloquio. E poi il grande cancello. Il primo giorno. Tremando dimenticavo il mio coraggio, la mia sicurezza. Ma non la volontà di scoprire un mondo quasi inaccessibile. Studiarlo ed amarlo perché lì, veramente, l’uomo è con se stesso. Il carcere, ecco. Scelgo il reparto femminile. Per segreta solidarietà. Non conoscevo né età, né capacità di quelle persone dietro le sbarre. Ma le trovo in una stanza, squallida, povera, fredda. «Vi insegnerò a ricamare» dissi a queste donne che tutto si sarebbero aspettate meno che questo programma.

Le feci sedere intorno a me, parlai loro di chi fossi, senza chiedere nulla. L’impatto fu stupendo perché man mano che i minuti passavano gli sguardi mi diventavano amici. Organizzai i primi lavori, ricordandomi quelli che facevo da bambina. Insegnavo a tenere l’ago a mani rozze e a quelle raffinate. Tutte uguali nell’incertezza del delicato lavoro manuale. Ogni volta che le ritrovavo avevano voglia di dimostrare la nuova capacità. I lavori progredivano, venivano finiti. Non so come sia stato possibile passare in breve dal primo punto croce all’intaglio inglese. Affascinate dai colori dei cotoni e dai disegni realizzati, avrebbero voluto non finissero mai quelle due ore di lavoro. A me piaceva l’atmosfera assidua, il parlare libero, il via vai della stanza che faceva dimenticare il luogo di pena se non vi fosse stato, puntualmente, il momento della “battitura”. Un suono metallico alle sbarre delle finestre che riportava alla realtà. E tutte, a turno, vicine a me, parlando della loro vita, degli amori mancati e dell’infanzia quasi sempre smarrita. Quasi tutte, anzi tutte, con gravi problemi familiari. Disaccordi, miseria, solitudine, un denominatore comune che dovrebbe interessare gli psicologi e, meglio, la nostra società, così poco propensa a realizzare ciò di cui molto parla. Racconti di abbandoni, promiscuità, vagabondare per il mondo, senza un punto fermo e il problema dei nomadi che si trovano a dover rubare per tirare avanti, un’esistenza che nessuno ha insegnato loro. Di generazione in generazione nelle baracche provvisorie. Giovani che hanno dozzine di figli senza sapere il perché, senza nessuna volontà e capacità di amore. Quasi sempre le saluto baciandole. Alcune mi confermano non aver mai avuto un bacio affettuoso di amicizia. Al mio arrivo vengono incontro per quel saluto inconsueto. Qualcuna mi ha mostrato l’ordine della cella, altre non si avvicinano, restano sdraiate sulla branda, lo sguardo al soffitto che segue il fumo della sigaretta. Vi sono giovani straniere. Di paesi lontanissimi che l’avventura ha portate in Italia. Avventura di miseria sempre. Ora sono state trasferite. Mi scrivono parole dolcissime di affetto, accompagnate da poesie. Perché la poesia è un’arte intima, sociale ed è figlia del raccoglimento e del dolore. Così come può esserlo la gioia. Nell’espressione di queste donne non riesco a leggervi come possa avvenire, in quelle condizioni, un serio ravvedimento. Così le ore passate nella noia non possono avere una positiva rieducazione della loro esistenza. Se domando cosa pensano nel chiuso della cella, mi dicono quasi tutte della mamma, del primo amore, quelle che lo hanno provato anche se non realizzato. Vi è nell’animo di queste persone che sembrano perdute, l’amarezza di non essere mai state capite nel momento più delicato e difficile. Si perdono sovente per questo smarrimento sociale all’impatto con la realtà esistenziale. Credono di amare, ed incontrano il “protettore”. Credono nella solidarietà del prossimo, quando hanno bisogno, e trovano indifferenza. La perdizione morale credo io essere un momento di grande dolore affrontato senza sicurezza di un prossimo capace di aiutarti. Chi di noi può essere sicuro di non aver avuto tristi soluzioni di vita, se i genitori o gli amici non ci avessero aiutato? La mamma, i nonni gli amici di scuola! Quanti coloro che sono in carcere, hanno potuto contare su questo? Ecco perché il mio carcere e vorrei che altri riuscissero a capirmi per arrivare un giorno a provare la gioia di questa esperienza che io non immaginavo mai fosse così grande.