Il Convivio

A. IV n. 3
Luglio - Settembre 2003

Filosofia poetica e poesia filosofica: Empedocle e Lucrezio
di Maria Pina Natale


 

Passando dal monismo al pluralismo Empedocle è il primo filosofo dell’antichità a gettare le basi di una cultura più aperta, più solida, più moderna, che resisterà al volgere dei secoli fino al Medio Evo. La sua accettazione di tutti e quattro gli elementi costitutivi dell’Universo, teoria creata dai presocratici che egli fa sua, rende più elastica e dinamica la concezione stessa, ne abbassa la portata a un livello più accessibile, ne rende più credibili genesi ed effetti. L’opera di Empedocle, intitolata Perì physeos, di cui rimangono lunghi preziosi frammenti e che egli, poeta oltre che pensatore, preferisce scrivere in versi, è quella che maggiormente ci illumina su taluni aspetti del suo tutt’altro che semplicistico pensiero. Il titolo, tanto simile a quello che sceglierà quattro secoli dopo Lucrezio per il suo poema, ci induce a valutare tale scelta e soprattutto a vederne i punti di contatto e non.

Non a caso, a mio parere, il “De rerum naturae” lucreziano si apre con quel sublime inno a Venere che è uno dei brani più liricamente vibratili della poesia universale. Con molta probabilità, che rasenta quasi la certezza, allorché Lucrezio scriveva di Venere versi come: «Tu Venere bellissima / e madre dei Romani / delizia degli uomini e degli dei / tu che rendi fecondi terre e mari / e fai fiorir le piante / e il cielo fai risplendere / di stelle fiamme e pianti», non poteva non avere presente l’antica descrizione empedoclea che esaltava con il medesimo amore e con la medesima ammirazione la dea di quell’antropomorfismo raziocinante, creato non solo dalla fantasia ma anche dal pensiero dei più antichi Elleni e dagli stessi preposta alla bellezza, all’amore, alla perpetuazione di ogni specie vivente, quella stessa Afrodite, così cantata da Empedocle: «Mai malcerta sia / la tua fede su qualcosa tra queste: / come dall’acque e dalla terra / dall’etere e dal sole / mescolate sian nate tante forme / e colori di sì grande armonia / quanti piacque crearne ad Afrodite.

Del resto Lucrezio della simpatia che nutrì nei confronti di Empedocle non fece mai mistero. E non tanto per una sorta di revival, che ai suoi tempi si era diffuso in Roma verso la figura e il pensiero di Empedocle da parte di dotti e di letterati nei vari cenacoli romani, quanto piuttosto per un bisogno suo personale di manifestare a un così grande maestro dell’antichità quel rispetto, freddo e formale, dei circoli arcaicizzanti, bensì un rispetto e un’ammirazione che scaturivano da misteriose rispondenze psicologiche fra i due grandi pensatori e poeti, pur a così grande distanza di tempo.

Lucrezio fa sua la tradizione di un “Empelocledio di prima grandezza”. Certo, il pensiero lucreziano ha ben altre matrici, che è inutile citare, ben nota a tutti essendo la passione di Lucrezio per la filosofia epicurea con tutte le implicazioni che tale matrice comporta, anche e soprattutto a causa dell’imponente fiume di dottrina intercorrente fra Empedocle ed Epicuro e, di conseguenza, fra Empedocle e Lucrezio. Tuttavia alcuni accostamenti che si rilevano a piene mani sembra abbiano alcunché di misterioso, per non dire di miracoloso, fatte sempre salve le debite distanze tra il valore delle due poetiche; differenze peraltro scontate in partenza, essendo Empedocle più filosofo che poeta e Lucrezio più poeta che filosofo.

E sottolineiamo ancora dei due: l’amore per le rispettive patrie, da entrambi nutrito per tutta la vita, anche se in condizioni dissimili di tempo e di governo; le amarezze che a entrambi procurò la politica dei rispettivi Stati e delle rispettive epoche storiche; e infine la morte suicida di entrambi, anche se per motivi e in condizioni del tutto differenti. Non si può trascurare inoltre un dato tutt’altro che effimero, se é vero, come è vero, che quasi contemporaneamente gli atomisti, con in testa Democrito, portando alle estreme conseguenze le conclusioni dei naturalisti precedenti, cominciarono, per primi, a impostare la filosofia dell’atomo, ripresa e fatta propria, alcuni secoli dopo, da Epicuro, la linea ascendentale Lucrezio-Epicuro-Empedocle appare del tutto scontata e, direi quasi, fatale.

Ma torniamo ai due poemi: «Del Tutto nessuna cosa è priva» afferma Empedocle. «Nulla nasce dal nulla» riecheggia Lucrezio. Anche se quest’ultima frase è più agile, più concettosa, dal canto suo la frase di Empedocle, pur nella sua sofferta espressione, ha un che di ieratico e di definitivo: che ogni sia pur minima cosa del Creato faccia parte di un Tutto assoluto e primordiale è quasi liberatorio e consolatorio. E qui il discorso si allaccia a quella che fu una delle più impegnative campagne che Lucrezio volle combattere nel suo poema, attraverso il tentativo di liberare l’uomo da tutte le religioni e paure, da tutti i tormenti interiori, le superstizioni e le false credenze ancestrali. Ma nemmeno Empedocle è immune da tali velleità, anche se, nel risolvere un problema così delicato e complicato, egli si serve di sistemi molto più grossolani che dimostrano, più che altro, la sua vanagloria di mago, di iniziato ai misteri e - perché no? – anche di uomo politico attivo, tronfio dei suoi poteri.

Rimane comunque anche qui il problema della sofferenza psichica e del dolore umano. Basterà ad Empedocle liberare il proprio simile dal dolore e dalla paura con la teoria della “metensomatosi”? In conclusione, è più consolatorio o più tragico sapere che l’individuo, sotto qualsiasi forma o specie, non morrà mai e assumerà diverse vite e impiegherà moltissimi anni prima di avere scontato in pieno il suo neikos (cioè il suo odio o il suo male), che lo ha detronizzato dalla sede degli dei, prima di ricondurvelo definitivamente? È un interrogativo che rimane sospeso, al quale ciascuno potrà dare la risposta che riterrà più confacente.

Viceversa Lucrezio concluderà il suo bel poema con la descrizione della peste di Atene, alla quale, secondo alcuni studiosi, sarebbe seguita la descrizione del ritorno dei morti alle sedi degli dei, naturalmente non quei medesimi dèi dalla cui fede Lucrezio aveva voluto allontanare gli uomini, bensì una sede metacosmica, dentro la quale gli dèi godrebbero, beati, il loro stato di grazia senza prendersi cura degli uomini e del divenire del mondo. Ma anche senza ragionare per assurdo, il poema di Lucrezio dimostra ugualmente che tale sede esiste, anzi lo stesso Lucrezio la chiamerà intermundia, e la assegna agli uomini dopo aver fatto cadere dalle loro menti le muraglie dell’ignoranza e della superstizione.

A questo punto non è nostra intenzione forzare comparazioni o similitudini che non esistono, bensì sottolineare un particolare assai sintomatico e importante: che di una sede tartarea Lucrezio non fa mai cenno nella sua opera. Il risultato pertanto mi sembra simile nei due Autori solo per quanto concerne la rispettiva difesa dell’amore verso l’uomo, attraverso il tentativo di rendere l’umanità quanto più serena e fiduciosa possibile nel proprio destino di vita e di morte.