Il Convivio

A. IV n. 3
Luglio - Settembre 2003

Lettera a Matteo Menendez, romanzo storico di Rina Pandolfo (Bastogi, Foggia 2002)

Il mondo medievale è certo misterioso e pieno di contraddizioni. Ma se l’alto medioevo si caratterizza per la sua rigida religiosità e per lo spirito di accettazione, il basso medioevo è certo una delle epoche più affascinanti per la rinascita culturale dell’Europa, per le scoperte geografiche che si intraprendevano, per lo spirito di conoscenza e soprattutto per il mondo nuovo che stava nascendo e che avrebbe raggiunto il suo culmine nel Rinascimento. Proprio in quest’epoca, in pieno ‘400, viene ambientato il romanzo storico di Rina Pandolfo, “Lettere a Matteo Menendez”, pubblicato di recente con la casa editrice Bastogi. La scrittrice è nata e vive a Messina, e da circa vent’anni svolge attività letteraria ed associativa. Ha al suo attivo numerose pubblicazioni, ma certo “Lettere a Matteo Menendez” è il suo capolavoro per tanti motivi: per il linguaggio nuovo ed originale, per la trama avvincente, per la profondità psicologica dei personaggi, per le descrizioni accurate degli ambienti. Il romanzo è esposto sotto forma di una lunga lettera indirizzata dal protagonista, Jacopo Mirulla, a padre Matteo Menendez.
Si tratta di una storia personale che riverbera una vicenda collettiva. Il protagonista, dopo un’infanzia infelice trascorsa a Venezia presso uno zio disonesto che si è impadronito dei suoi beni, ritorna da adulto nella sua città natale, Messina, alla ricerca della madre e della sorella per riannodare i fili di una personale vicenda spezzata da una separazione forzata. Nella quattrocentesca città dello Stretto, nota in Europa per il suo porto di primaria importanza e di transito verso i mercati del Mediterraneo, Jacopo conoscerà la verità sul proprio destino, consapevole dell’avvento di un tempo nuovo in cui il mutamento del senso della vita, che già si avvertiva nei fermenti culturali messinesi, dovrà contenere anche la realtà della fede. In questa lunga lettera-confessione il giovane siciliano, personaggio emblematico del trapasso di un’epoca, dal mondo medievale con le sue regole e i suoi dogmi al mondo moderno in cui all’uomo è data autonomia etica e dominio della terra, capirà che è la coscienza dell’individuo, l’uomo come misura e centro di ogni cosa, il fattore virtuoso delle scelte morali. In un tale scenario ruotano e si muovono i vari personaggi, ma soprattutto si snoda la riflessione interiore di chi prende coscienza delle contraddizioni di una società in evoluzione. Rina Pandolfo riproduce e descrive il mondo tardo medievale con molto realismo ed accuratezza. Il linguaggio è bene adeguato alla realtà culturale e linguistica siciliana del Quattrocento. È aulico, ma non ridondante. Si veda ad esempio l’incipit: «A te, eccelso e venerabile uomo di Dio, io Jacopo Mirulla, uomo vicino et ultra gli anni di Christo, niente tacerò di me, ché molto peccai per superbia et ira. Possa la luce della ragione e la tua carità, patre, condurre colui che narra in questa lectera nella via della verità». La capacità della scrittrice di calare il pensiero antico nel moderno e fondere le emozioni e le sensazioni personali dell’uomo medievale con quello di oggi è mirabile. La narrazione psicologica e letteraria della vicenda si presenta credibile. La lingua è viva e gradevole. La fusione tra parlata fiorentina, dialetto siciliano ed italiano moderno è così sapiente che rende la lettura accattivante. E i numerosi termini siciliani che spesso saltano all’occhio, come attisare, cagnazzo, troffe, ficazzane, fuiva, non sono per nulla avulsi dal loro contesto. A parte queste notazioni linguistiche, ovviamente è lo scandaglio interiore del personaggio che rende vivo il romanzo. Il protagonista va alla ricerca della verità. Ed è quella “via della verità” dell’esordio che, dopo un lungo percorso, spinge il protagonista a prendere coscienza di aver rivelato al padre Menendez e a se stesso «sin le cogitazioni più recondite e le azioni più detestabili, le vicende occorse a me dalla puerizia alla maturità, le passioni, le omissioni, e non enarrai per diletto di fabulazione o per liberazione dell’agritudine, bensì per intendere chi io sia, la mia verità. Dura cosa è stata per me sentire nel centro della fede il tarlo dell’empietà».
 
Angelo Manitta