Il Convivio

A. IV n. 3
Luglio - Settembre 2003

La dissoluzione e la morte: Una lapide in via del Babuino di Mario Pomilio (ed. Avagliano)

«Vi sono dei libri che ci toccano fisicamente, come la vicinanza del mare e del mattino», disse Borges. Una lapide in via del Babuino, racconto postumo di Mario Pomilio, è certamente uno di questi. L’editore Avagliano lo ha recentemente ripubblicato in graziosa veste nella collana “Il Melograno”, diretta Michele Prisco. La lettura del libro, se in parte ci ha confermato che la narrativa di Pomilio, pur variegata, è in effetti resa uniforme dalla corrispondenza fra scelte letterarie e scelte morali (così W. Rupolo in Umanità e stile, 1991), in altra ci ha sollecitato una riflessione, cioè a dire che nell’opera pomiliana, intanto è possibile affermare la centralità del personaggio in quanto nel farlo ci si riferisca a quel che scrisse Luigi Russo (di cui Pomilio fu peraltro allievo) ne I personaggi dei Promessi Sposi, ove affermò che in “un’opera d’arte e di poesia non esistono personaggi, ma stati d’animo lirici o oratori dello scrittore”, e ancor più quando aggiunse che “unico e solo protagonista è sempre il sentimento dello scrittore”. Ciò non solo perché Pomilio sempre mosse dalla realtà documentata per ricercare la verità attraverso il ricorso alla fantasia – dunque funzionalizzando la finzione letteraria a un’arte del linguaggio che “riduca a segni l’esistente – ma pure perchè egli fu un inquieto testimone della coscienza, un esploratore verticale della vicenda umana persuaso che il romanzo fosse il frutto di una tensione fra morale e vita”. E questo modo di Pomi-lio d’essere drammaturgo e moralista a un tempo, se in parte contribuisce a spiegare la problematizzazione del reale sempre presente nelle sue pagine, in altra ne motiva l’universo narrativo, caratterizzato da un’ininterrotta riflessione - svolta appunto dai vari personaggi - sulla vita e l’esistenza: riflessione che trova le proprie specificazioni in complesse e ponderose interrogazioni sulla dissoluzione, sulla morte, sul trascorrere del tempo, sul mistero del vivere e del morire, sul mistero del dolore e del male, e che sovente si è estrinsecata come criticismo o problematicismo cristiano. Aspetti tutti fortemente presenti in Una lapide in via del Babuino, ove il protagonista, malato, d’un tratto si accorge “d’essere stato felice senza saperlo”, e per ciò stesso si immerge in una ricognizione sul proprio percorso che significativamente s’interseca con quello di un suo personaggio romanzesco, sino a suscitare un discorso “tutto interiorizzato, posto sotto il segno di un tempo che si restringe, della precarietà, del decli-no” (Rupolo): la qual cosa acquisisce speciale consistenza in ragione della matrice autobiografica del racconto.

Simone Gambacorta