Il Convivio

A. IV n. 3
Luglio - Settembre 2003

Gianni Rescigno, poesia astrale e meditativa in Dove il sole brucia le vigne (Genesi editrice, Torino 2003)

L’ultima silloge di Gianni Rescigno, “Dove il sole brucia le vigne”, è un segmento del lungo percorso poetico che, partendo dalla prima silloge pubblicata nel lontano 1969 dal titolo “Credere”, prende le mosse dal ‘credere’, cioè dalla fiducia che l’uomo ha nei suoi simili, nella vita e nel pensiero umano, per giungere ad una catarsi, ad una purificazione, attraverso un linguaggio metaforico e simbolico fatto di luce, di sole e di emozioni. La chiave di tutto il volume, a mio avviso, può trovarsi nei tre versi posti ad epigrafe: «La morte dietro il sogno. / Dietro la morte il sole. / Dietro il sole il ricordo». Ed in effetti la poesia di questa silloge, come pure delle ultime di Rescigno che abbiamo avuto il piacere di ospitare sulle colonne del “Convivio”, ha come punto essenziale la morte, il sogno, il sole, il ricordo. I quattro elementi sono concatenati in una successione concettuale e mitica. La morte è certo idea da demonizzare, ma su cui bisogna riflettere. La morte sta dietro le quinte di un sogno, conclusione di ogni pensiero. Se non fosse per la morte l’uomo diventerebbe abulico. Ma dietro la morte c’è il sole, quindi la luce del pensiero e dell’emozionalità. Il sole è vita e luce, pregno com’è di una miriade di valenze simboliche. E dietro il sole c’è il sogno: la funzione onirica e pensante dell’uomo che tende alla libertà, alla vita e alla felicità. Dietro il sogno c’è il ricordo, cioè la perpetuazione dell’Essere, la sutura tra passato e futuro, il punto di unione tra l’essere e il divenire. In questa consequenzialità ideale Gianni Rescigno privilegia, tra gli altri elementi, il sole, simbolo di spiritualità panteistica ed elemento creativo, ma pure elemento devastante. Esso è il fuoco primordiale dei presocratici dal quale nasce la vita, è la primordialità spirituale dell’uomo. Emblema dell’intera silloge è la poesia, che apre la raccolta, dal titolo appunto “Il sole”. «Ti domandavo cosa fosse il sole / quando si tornava dai campi / e lo vedevo cadere dietro i pioppi / dove frinivano le cicale». Il poeta conduce per mano il suo lettore nell’interpretazione del ‘suo’ elemento epifanico. Il sole è pietra, è cuore di grano, è cristallo dei nostri occhi. Dal fuoco primordiale, residuo di quel big bang iniziale, nascono il ricordo e l’emozione, persino l’amore. La contemplazione e l’analisi si trasformano allora in una preghiera dell’uomo verso il creato, attraverso «la consapevolezza della morte che ferisce la natura, l’estate, il sole e la luna come figure supreme della durata e della ripetizione del ciclo vitale» scrive nella prefazione Giorgio Barberi Squarotti, mentre quasi di fronte «ci sono i molti dolori e le sommesse eppure profonde ferite della vecchiaia, che segnano, contemporaneamente con gli eventi e le figure di vecchi, la perdita del passato che in un’altra prospettiva, è stata oggetto di memoria». «Il sole in tal senso – scrive Francesco D’Episcopo – accende sogni, visioni, diventando la luce che arde il mondo. Sostanza profonda dell’essere, infonde calore all’avventura terrena e guai se viene a mancare il suo alito rigeneratore». «Il sole – aggiunge Marina Caracciolo – è visto sia nella sua concretezza di materia siderale... sia nella sua realtà simbolica e metafisica, in quanto principio di perenne avvicendamento, elemento primordiale che è luce-giorno-essere».

L’altro elemento siderale che accompagna il sole sono le stelle. Le stelle, quasi indicatori della notte, conducono alla campagna piena di vita, mentre la natura diventa momento di riflessione e di introspezione. In questa fusione tra elementi siderali ed elementi naturali, quasi una simbolica unione tra cielo e terra, la campagna diventa lo spazio nel quale l’uomo opera la sua ricerca. Dal sole, attraverso le stelle, si giunge alla luna: terzo momento astrale, passando dal microcosmo al macrocosmo, cioè dall’osservazione empirica al pensiero. Il cielo-universo diventa il grande contenitore, quasi riflesso universale dell’uomo. In questo percorso si passa quindi al mondo vegetale, e poi a quello animale, lasciando emergere l’universalità del pensiero: «Tira il vento / così freddo dai tuoi occhi. / Non è strazio vederti morire. / Insopportabile è invece pensare». Ed è proprio il fluire delle immagini che si imprimono nella mente, che porta alla ricerca del mistero. La fragilità dell’uomo appare evidente nel suo confronto con il cosmo. In questo modo di pensare e di vedere le cose, egli appare allora di carta, come appunto suona il titolo di una lirica: “Siamo di carta”. E l’uomo è inghiottito da un vortice di assoluto che gli permette di fondere il dolore, la felicità, la vita, la debolezza. «Specchio di memorie il cielo. / E noi sotto la volta sempre più piccoli / fino ad essere punti. Punti neri / nella schiarita delle stelle. La parole / voce di lacrima rappresa sulle labbra. / E i canti lamenti inghiottiti dal vento. / Siamo di carta e la carta assorbe dolore».

 
Angelo Manitta