Il Convivio

A. IV n. 3
Luglio - Settembre 2003

Petronilla Paolini Massimi in arte Fidalma Partenide
di Bruna Tamburrini


 

Il monastero diventa spesso nell’antichità luogo di meditazione e di riflessione ed è anche un’opportunità per molte donne, deluse dalla società, di entrare in contatto profondo con se stesse e con la sacralità, riuscendo così a coltivare quel bisogno di poesia e di letteratura, utili per la loro  sopravvivenza. È il caso anche di Petronilla Paolini Massimi, costretta a rifugiarsi in un convento per affermare la sua individualità letteraria e sociale, un’individualità mortificata dall’ambiente e dalla società.

Nata a Tagliacozzo nel 1663 da una nobile famiglia, Petronilla riesce ad avere un’istruzione colta, ma, ancora bambina, perde il padre, il Barone Francesco, assassinato in un agguato e viene così accolta sotto la protezione del papa Clemente X. Il suo benefattore la conduce, per obblighi politici e diplomatici, a sposare il marchese Francesco Massimi. Da questa unione Petronilla ricaverà solo dolori e delusioni e, come lei stessa afferma, viene relegata nel “chiuso orrore” di Castel Sant’Angelo. Solo dopo la morte del figlio, la poetessa si rifugerà in un convento dove troverà la pace necessaria per le sue meditazioni e le sue elevazioni spirituali. Morirà nel 1726 a Roma.

È poetessa dell’Arcadia ma, rispetto alle altre letterate, si distingue per le vive esperienze, «singolarmente amare» che la segnano, ma che, nello stesso tempo, la fanno diventare più forte nella personalità. Jolanda De Blasi, nel suo studio sulle poetesse dell’Arcadia, riconosce a Petronilla, in arte Fidalma Partenide, la prerogativa di essere l’unica meritevole di una certa attenzione. [1]

Ma perché lo pseudonimo Fidalma Partenide? Per mettere in evidenza le caratteristiche morali che la contraddistinguono e che sono la fedeltà, la capacità di lottare e di resistere alle avversità della vita. Il nome è anche un simbolo che va oltre le sfere celesti, proprio perché la poetessa ha vissuto l’aspetto più amaro dell’amore, la sua avidità, il desiderio di possesso. “Partenide” indica la purezza interiore, vale a dire la verginità di spirito che le fa attraversare, incontaminata, tanti travagli combattendo con fierezza la sua battaglia. Nelle sue liriche traspare l’autobiografia e la sua esperienza di vita assume un significato importante soprattutto nella concezione dell’amore. Fidalma si pone il quesito se l’amore possa dare perfezione all’anima e la sua risposta è questa: «Come riceva perfezione l’anima nostra non è leggier cosa da investigare, siccome nemmeno qual sia questo Amore, e in qual modo abbia virtù di rischiarar maggiormente gl’interni lumi dell’Anima: il che dovrà altresì vedersi, per conoscer poi qual proporzione abbia la Risposta colla Proposta medesima…Viene l’Anima, creata dalla mano onnipotente di Dio, ad informare il corpo; e come di gran lunga superiore, ne prende il governo per mezzo della luce, cioè del fuoco, e dell’aria, che più degli altri elementi di spiriti abbondano, come disse un gran Savio». Il corpo, quindi, conduce l’anima verso l’ignoranza e verso la cupidità, mentre la ragione la innalza oltre i confini della materia, fino a farla diventare Idea tra le Idee. Ella stessa aggiunge: «Tre cose sono in noi: Anima, spirito e corpo. L’anima e il corpo si congiungono per mezzo dello spirito… che è vapore sottilissimo lavorato nella fucina del cuore».

In questo rapporto tra Anima e Spirito nasce l’Amore che altro non è che «desiderio di godere nel bello». Ma quello che è più importante è che le idee e la vita di Petronilla non sono solo peculiarità della sua persona, ma diventano, nelle sue opere, una testimonianza per altre donne e stanno ad evidenziare la realtà ingiusta in cui spesso viene a trovarsi il mondo femminile. In un celebre sonetto la poetessa riesce ad uscire dalla propria esperienza per evidenziare, infatti,  la condizione di tutte le donne:

Sdegna Clorinda ai femminili uffici

chinar la testa, e sotto l’elmo accoglie

i biondi crini e con guerriere voglie

fa del proprio valor pompa ai nemici.

Così gli alti natali e i lieti auspici

e gli aurei fatti e le ragli spoglie

nulla curando, Amalasonta coglie

de’  fecondi Licei lauri felici.

Mente capace d’ogni nobil cura

ha il nostro sesso: or qual potente inganno

all’impresa d’onor l’alme ne fura?

Se ben che i fati a noi guerra non fanno,

 né i suoi doni contende a noi natura:

sol del nostro valor l’uomo è tiranno.

Ecco, Petronilla diventa in questo modo la voce  di tutto il mondo femminile, pur utilizzando forme di poesia classiche e il suo simbolo primo, che è anche  la sua aspirazione, non è la madre naturale, ma la madre di tutti: Maria, L’alta reina, colei che riscatta il genere femminile dalla colpa di Eva. Così si esprime nell’ultima terzina di un sonetto che fa parte di quell’insieme di scritti dedicati al Papa Clemente XI:

Né sa qual è MARIA, né quanto appare

 sua sembianza nel Ciel, chi qui non mira

questa, che veneriam su sacro Altare.

La sua fede religiosa è intrisa del desiderio di giustizia, un desiderio che Fidalma non riesce a trovare nel mondo degli uomini ed allora lo stesso convento, come già affermato, diventa simbolo di elevazione, di pace, è il luogo in cui l’anima della poetessa può innalzarsi e dove può acquistare dignità intellettuale e morale, ma soprattutto è il luogo dove può «convertire in canto» la fatica di vivere. Dovendo esaminare a fondo la sua personalità, dobbiamo anche dire che in lei è evidente  il conflitto tra essere e dover essere, tra convenzioni sociali e aspirazioni personali e questo è il travaglio quotidiano, un travaglio quasi petrarchesco che la conduce alla rinuncia di ogni forma di mondanità e quindi ancora una volta il monastero le dona la pace proteggendola da quello che lei chiama «rio timore». Il suo conflitto si nota in questo sonetto:

Pugnar ben spesso entro il mio petto io sento

bella Speranza, e rio timore insieme;

e vorrai l’uno eterno il mio tormento,

l’altra già spento il duol, che il cor mi preme.

Temi, quel fier mi dice; e s’io consento,

tosto, Spera, gridar s’ode la Speme;

ma se sperare io vo solo un momento,

nella stessa speranza il mio Cor teme.

Mie sventure per l’uno escono in campo,

mia costanza per l’altra, e fan battaglia

aspra così, che indarno io cerco scampo.

Dir non so che mai di lor prevaglia:

so ben, ch’or gelo, ahi lassa, ed ora avvampo;

e sempre un rio pensier m’ange, e travaglia.

La stessa Petronilla afferma, però, che non bisogna mai cedere alla fragilità, non bisogna essere deboli d’animo, perché questa è «cieca viltà», ma si deve percorrere un cammino di purificazione per ricercare la perfezione che è anche l’emblema del divino e la poesia è in grado di trasportarci verso un’elevazione morale. Concludo con le rime di una canzone: sono rime dedicate al figlio morto e denotano una sofferenza interiore, ma è una sofferenza che appare equilibrata, poiché l’amarezza si unisce alla dolcezza del ricordo e si conclude con  un desiderio di speranza.

D’un mio tenero figlio,

ch’era di questo sen parte migliore,

morte recise il fiore;

e al materno dolor non fu concesso

darli nel suo morir l’ultimo amplesso.

Volea ben l’alma forte

seguir l’orma del figlio e sulle sfere

indivisa da lui posar le piante;

me rifiuto di morte

giacque sull’egre piume anco il volere,

ch’a costringere il ciel non è bastante…

La canzone continua e alla fine la ragione sembra avere il sopravvento e «spesso al dolor si vede seguir la gioia... e pria che la tarda età c’imbianchi il crine, con moderato cuore i dì godiamo e sien sparse d’obblio le nostre cure»[2].


 


[1] J DE BLASI, Le scrittrici italiane dalle origini al 1800, Firenze, 1930.

[2] Bibliografia: J.DE BLASI, Les scrittrici italiane dalle origini al 1800, Firenze, 1930. Principale testo di riferimento: ILEANA TOZZI, Petronilla Paolini Massimi: una donna in Arcadia, Ed. Nova Italica , Pescara, 1991.