Il Convivio

A. IV n. 3
Luglio - Settembre 2003

Imperia Tognacci, musicalità e ricordo di Traiettoria di uno stelo, (System Graphic, 2001).

Questo volume di liriche vive nell’atmosfera pascoliana non solo perché la poetessa è nativa di S. Mauro Pascoli (comune chiamato fino al 1863 semplicemente S. Mauro e da allora al 1923 S. Mauro di Romagna), ma soprattutto perché - grazie alla sua famiglia - essa ha assimilato la poesia, il clima e i sentimenti «di quel grande / che come noi si nutrì / alla terra di Romagna» e ora si muove nell’orbita da lui tracciata. Questo non significa però che essa non riesca a staccarsi da tale orbita e ad assumere una fisionomia personale: infatti, della poesia pascoliana in questa silloge troviamo paesaggi, lingua, costumi, tradizioni, animus, cioè quel senso doloroso della vita che è la caratteristica dominante del Pascoli; ma troviamo anche la capacità d’un avanzamento e d’un superamento, in una visione e tecnica propria che dal decadentismo simbolistico sembra sporgersi verso quello crepuscolare.

Già la dedica ai genitori e alla sorella è una dichiarazione d’intenti, ponendo il lavoro nell’alveo della familiarità, in cui la memoria va alla scoperta di «musiche lontane / che si perdono su percorse strade» e che presto si trasformano in echi, costituendo anche delle diafore. E sulla musicalità vale la pena di soffermarsi, perché c’è nella silloge una musica sottesa che la pervade e che ne costituisce un’incessante colonna sonora, percependosi ad ogni verso: sicché per la recitazione non ci sarebbe bisogno d’altri strumenti musicali se non dei soli versi.

Romagna vuol dire Pianura Padana: distese, prati, greggi, «filari di alberi in trine», aratri, zappe, madie, telai, orci, focolari, infanzia, affetti e memorie familiari, fragranza del pane appena sfornato dal forno a legna, piadina, sangiovese, feste e preghiere d’una volta (come quelle della settimana santa), usanze tipiche (come il falò della vigilia di S. Giuseppe, le cui faville costringevano gli spettatori ad un inseguimento dei sogni suscitati): e la poetessa ci tiene ad esternare la sua «fedeltà a questa terra feconda», nonostante il fascino della metropoli, che è una «medusa dagli occhi di cemento / cui, se t’abbandoni / diventi pietra». La poetessa sembra bearsi in quell’ambiente romagnolo, descritto in tutti i suoi dettagli, come ad esempio nelle ginestre di Zollara, il paese delle vacanze estive in casa dei nonni: e il ricordo è di per sé stesso fonte d’esaltazione ed eccitazione. Ma Romagna vuol dire anche alluvioni (tremenda quella del 1951, detta “alluvione del Polesine”), povertà, sofferenza, treni come gabbiani che portano via le persone tra la nebbia: e, quando «rampicanti ricordi s’attorcigliano all’animo», la poetessa, quasi al chiarore del lume a petrolio che richiama il pascoliano «piccoletto grande presepe», rivede «volti che la sofferenza sublima». E su tutto aleggia, cercato e gradito, il fantasma del Pascoli, la cui immanenza può scoprirsi già in certe parole-spia, con le ingiustizie che subì (uccisione del padre, povertà, carcere) e col suo dolore.

Ecco perché la poetessa, ora residente a Roma, dal grigiore metropolitano rivolge al Tevere questo mesto “canto dell’esule”, la cui fruibilità è agevolata dalla pertinente e compartecipe prefazione di Francesco Fiumara. Questo della Tognacci è un canto apprezzabile, oltre che per la musicalità, anche per la struttura dei versi, il lessico, la chiarezza e la correttezza linguistica. I vari refusi di stampa non ne inficiano il valore, che sicuramente s’attesta su un alto livello.

Carmelo Ciccia