Questo articolo è un'intervista di Daniela Condorelli a Marcello Bernardi, noto pediatra e cintura nera di Judo, molto interessante per i genitori dei piccoli judoka e per i judoka stessi.

Marcello Bernardi non è solo il guru della pediatria italiana, è un "judoista di rango" che ha imparato il primo comandamento del judo: dare, senza alcuna contropartita. Oggi, molti anni dopo aver segnato una svolta storica nella scienza dell'infanzia liberando il bambino dalle superstizioni che lo costringevano, vuole trasmettere un'esperienza meno nota ai genitori. L'esperienza di Marcello Bernardi judoka. Di fronte a una società che si regge sulla trinità "successo, potere, soldi", Bernardi riflette sulla necessità di cambiare il mondo e propone uno strumento: l'arte del judo. Con la sua trinità: "corpo, mente, cuore". L'uomo ha percorso, da sempre, la strada dell'avidità, dell'idolatria del denaro. Da quando l'umanità ha scelto il vitello d'oro, la parola d'ordine è "badare al sodo", all'imitazione di padroni e campioni, a far conti, a rafforzare la propria immagine, a guadagnare e a prendere. Il nostra corpo è diventato merce, la nostra mente si è trasformata in un registratore di cassa, il nostra cuore è stato imbavagliato. E il prezzo da pagare è la paura. Abbiamo paura di tutto: della sofferenza, della malattia, della morte, della povertà, della solitudine, del mondo. Il cuore è lo spirito, l'anima, il centro di coscienza che può essere seppellito da un'educazione tendenziosa. La mente è un magazzino/strumento che archivia immagini; dovrebbe essere al servizio del cuore, ma in realtà è spesso influenzata dal corpo. Quest'ultimo è una comunità di cellule sotto il controllo del cuore. Nel judo, cuore, mente e corpo si unificano, cioè si concentrano su un principio morale che si sintetizza nel "migliore impiego delle energie"

In che senso il Judo è uno strumento per educare?

L'idea fondamentale alla base del judo è arrivare a dare incondizionatamente, senza nulla in cambio. "Tutti insieme per progredire", affermava il suo fondatore. Perché facendo judo miglioro me stesso per essere utile agli altri. Il judo è una strada per arrivare a questo, perché permette di conquistare il vuoto della mente e quindi di entrare in sintonia con il cuore. Dopo anni di parcellizzazione del bambino e della pediatria, la nuova generazione di pediatri sta recuperando il senso clinico, cioè l'impiego della ragione. Sta recuperando la visione di insieme del suo piccolo paziente. E in questo sarebbe facilitata dalla pratica del judo, che io suggerisco a tutti i giovani pediatri.

Lei scrive: "nella mia vita ho imparato metà dai bambini e metà dal Judo. Il bello è che ho imparato le stesse cose da entrambe le parti".

É vero. Da quando ho iniziato a fare il pediatra, cinquant'anni fa, avrò visto venti, trentamila bambini. Ho cercato di osservarli, di capire la loro realtà, la profondità del loro dolore, la loro benevolenza. Ho vista un bambino rincorrere uno scorpione per accarezzarlo, e un altro (era maggio del '45 in un paesino di rifugiati prima dell'arrivo degli americani) dare del pane ad un cane de!le SS addestrato ad uccidere. I bambini sono leali, sinceri, generosi, non hanno paura, non conoscono la viltà; siamo noi che con la pretesa di "educarli", insegnamo loro ad aver paura, ad essere vili, a diventare furbi. Dal judo ho appreso la sincerità, l'armonia, la decisione, il coraggio, il rispetto. Pensiamo al senso del colore della cintura: non è un grado, una gerarchia, ma un segnale di rispetto, un avvertimento sulla preparazione di chi la indossa. Di fronte ad una cintura gialla o marrone, so come comportarmi, cosa posso o non posso fare. Il judo insegna la generosità, elimina l'astio, il rancore, l'ansia di vincere.

Il bambino prima di tutto, il bambino al centro. È questa la grande svolta della pediatria di cui Marcello Bernardi è stato promotore.

Quarant'anni fa il bambino era un oggetto. Lo è ancora, ma c'è una differenza: è cambiata la collocazione. Era un oggetto da tutelare e far crescere uguale agli altri, omologato; ora è esattamente la stessa cosa, ma è stato messo su un piedistallo come.un feticcio. Il bambino di oggi è uno status symbol: per lui si vogliono i migliori vestiti e le migliori scuole, lui deve essere il più nutrito, il più bello. Si può essere disposti a dare la vita per lui, ma rimane pur sempre un oggetto. L'idea che sia una persona con diritti più grandi di quelli degli adulti e con doveri irrilevanti (perché ha pochi strumenti a disposizione), non ci sfiora. I genitori dimenticano troppo spesso di essere solo la "freccia che lancia i propri figli verso case future che neppure in sogno potranno visitare". Dimenticano che il mestiere del bambino è andare verso il mondo e il loro è aiutarlo ad andarsene.

Come svolgerlo, allora, questo difficile mestiere?

Fare i genitori significa uscire da se stessi, non contare più come persona. Abbiamo dato vita a un nuovo essere e siamo totalmente al suo servizio. Il genitore è prima di tutto un modello di cui il bambino ha bisogno, in cui crede ciecamente (gli esperti parlano di "fiducia primaria"). Per il bambino, tutto quello che il genitore fa è sacrosanto, "deve" essere fatto così. Ma sono i comportamenti quotidiani che contano: le nostre amicizie, i nostri gusti, i nostri atteggiamenti educano. Non ho mai vista un maestro di judo mettersi in cattedra a emanare leggi e regolamenti. No, vive sulla materassina, mostra, fa vedere.

Che ruolo hanna l'obbedienza, le regole?

Nessuno. Aveva ragione Don Milani: l'obbedienza non è una virtù. Mi pare piuttosto che sia un'abdicazione alla propria dignità, alla qualità di esseri umani. Una forma di alienazione da se stessi. Perché quando c'è è suggerita dalla paura. Di essere abbandonati, disapprovati, puniti. L'obbedienza implica omologazione, un mostro che incombe anche sulla scuola dove sopravvive la convinzione che l'obbedienza sia una virtù. L'educazione è uno scambio, un modo di esistere, di fare, di affrontare la vita. La vera scuola non è quella, grottesca, fatta di programmi uguali per tutti e dl classificazione, in cui non si va per ricevere, ma per diventare primo della classe. Il sistema scolastico, così come è strutturato oggi, è valido solo per creare egoisti. Non dimentichiamo che il mondo sociale del bambino non è per lui uno dei mondi possibili, ma l'unico. Così il primo della classe o l'asino dovranno mantenere con ogni mezzo il loro rango. Il primo sarà perciò indotto a recitare sempre la parte del "superiore" e il secondo a ricorrere a ogni truffa pur di sopravvivere. É la cosiddetta teoria dell'etichettamento in cui tutte le energie sono convogliate per tenere in vita il personaggio definito dall'etichetta. Un'ottima introduzione al più spietato egoismo. Passiamo alle regole. Sono uno strumento per convivere civilmente, ma non vedo come possano avere a che fare qualcosa con l'educazione che si vale di ben altri strumenti come l'affetto, il rispetto, la libertà. Questo non vuol dire che le norme vadano escluse, ma che ne vada esclusa l'imposizione, questo sì. Ci sono alcune norme tecniche inevitabili (il bambino non può giocare sul davanzale del balcone all'ottavo piano), ma non educative. L'importante è che non diventino antieducative. Che non costituiscano cioè una minaccia, un ricatto affettivo, un'imposizione e, soprattutto, che non siano troppe o ripetute troppo spesso. Anche di parole ci può essere inflazione: quando sono troppe, non valgono più nulla.