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Progetto scuola

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Biblioteca del Mulino - Bologna
Associazione "Progetto per la scuola" – Bologna

Fondazione della Cassa di Risparmio di Forlì
Liceo F.Paulucci da Calboli - Forlì

Ciclo di seminari per l’aggiornamento e la formazione dei docenti
"Governo della scuola e nuovi sistemi formativi.
L’incontro dei saperi e l’insegnamento nella scuola"
A.S. 2001 - 1° Semestre

 

     Sintesi
di Mario Pinotti e Rossella D'Alfonso:

      5 aprile 2001:
"Educare alle lingue e alle letterature: per la costruzione di un curricolo verticale"
      18 aprile 2001:
"
I nodi dell’educazione linguistica e letteraria fra presente e passato"
      9 maggio 2001
"
Quando il presente interrroga il passato"
      22 maggio 2001:
"Verso una nuova identità del sapere storiografico"

 


 

Bologna, Emeroteca del Mulino, 5 aprile 2001

R. Di Donato, R. Ceserani, G. Cavinato
"Educare alle lingue e alle letterature: per la costruzione di un curricolo verticale"
(condotto da R. D’Alfonso)

Il 5 aprile 2001 si è tenuto a Bologna, presso l’Emeroteca de "Il Mulino", un seminario sui nodi dell’educazione linguistica e letteraria. Si è trattato del primo di quattro incontri, tutti dedicati all’esplorazione dei nuclei fondanti del sapere linguistico-letterario e storico-antropologico.
Una tale ricognizione ha il suo senso profondo in presenza del grande processo di trasformazione che sta conoscendo la scuola italiana da qualche anno. Basti ricordare la legge sull’autonomia scolastica ed il riordino dei cicli, anche se la legge n. 30 del febbraio 2000 sta conoscendo, con l’avvicendamento di una nuova maggioranza politica al governo del paese, un futuro incerto.
Al di là dell’inquadramento legislativo che riceverà la scuola italiana, tuttavia, la grande trasformazione è in atto nella quotidianità della prassi didattica. Troppe ragioni la impongono: una per tutte è la profonda "modernizzazione" tecnologica, ambientale, culturale, economica, politica, demografica che sta conoscendo la società contemporanea.
Gli insegnanti, i genitori, gli studenti sono investiti molecolarmente da questo processo generale e avvertono contemporaneamente il bisogno di ancorarsi ad una identità culturale, ad una tradizione, e l’esigenza di un’apertura ad un mondo che diversamente risulterebbe indecifrabile.
Davanti a simili problemi, quale sarà il destino della nostra tradizionale cultura, scientifica e letteraria, storica e persino linguistica? E’ da abbandonare come reperto inservibile di un passato che ha perso ogni contatto col presente? E’ da riproporre con forza confidando nella sua perenne attualità? E’ da ridefinire nell’incontro con altre culture? E, in rapporto a queste domande, come proporre nella scuola un sapere fecondo e comprensibile al tempo stesso, motivante e non residuale?

LA RISPOSTA DI RICCARDO DI DONATO

Riccardo Di Donato (Università di Pisa), grecista ed antropologo del mondo antico, ha sottolineato con forza l’urgenza di salvare il sapere "antico", termine che egli preferisce a "classico", perché più precisamente circoscrivibile da un punto di vista diacronico.
La cultura e la civiltà antiche rappresentano un patrimonio irrinunciabile per l’Europa contemporanea, dal momento che esse esprimono le radici della sua tradizione.
Nel tempo della scienza e della tecnica non ci si può permettere di dimenticare le origini, di cui esse sono figlie; la rimozione del "sapere antico", pertanto, esporrebbe l’Europa, indifesa e disarmata, alle temibili sfide rappresentate, nel sistema della globalizzazione, da altre grandi tradizioni culturali, molto più consapevoli di noi della rilevanza della tradizione.
Come salvare questa tradizione? Come mantenerla patrimonio comune di massa?
La scuola ha un compito ben preciso da assolvere. Nel primo ciclo (scuola elementare e media) la cultura antica deve essere insegnata come educazione alla civiltà antica.
Questo insegnamento avrebbe una profonda valenza educativa: favorirebbe la formazione dell’immaginario, faciliterebbe la conoscenza e la valorizzazione del territorio, ricco di fonti archeologiche di quell’epoca (musei, monumenti, scavi), agevolerebbe l’apprendimento di quel lessico essenziale per dare parole alla cultura antica.
Il radicamento profondo della civiltà antica nel territorio italiano fornisce molte occasioni per un approccio affettivo alla sua conoscenza da parte dei bambini consegnando alla storia locale una funzione formativa di grande rilievo.
Al biennio del secondo ciclo (superiore), l’antico dovrà continuare ad essere presente nella sua accezione più ampia di cultura e civiltà e non solo di lingua. L’insegnamento del greco e del latino dovrà essere preceduto da un periodo significativamente lungo (quaranta giorni almeno), in cui gli alunni si formeranno il quadro contestualizzante a cui ricondurre tutto ciò che apprenderanno attraverso la lettura dei testi in lingua.
E’ un’esigenza ineludibile, prima di tutto per coloro che dopo il biennio si orienteranno verso i percorsi professionalizzanti della formazione integrata. Sono i più "semplici" che hanno più bisogno di riconoscersi in una chiara identità culturale, di cui l’"antico" è fondamento.
Insomma, l’insegnamento della "grammatica" non può continuare ad essere il focus dei docenti di greco e di latino: senza la comprensione dei valori e delle categorie fondanti della civiltà antica l’insegnamento della lingua rimane un puro esercizio tecnico-erudito.
E’ questa mappa che permetterà la selezione dei nuclei tematici prioritari, è questa mappa che consentirà il riconoscimento della cultura antica nei testi petrarcheschi, ariosteschi, pavesiani, è questa mappa che rappresenta la chiave della decifrabilità del nostro tempo.
Questa disamina consegna alla nostra attenzione due pericoli da cui guardarsi: la cultura tecnica, senza memoria e corrosa dal pericolo della ripetitività, e il grammaticismo, anch’esso affetto dagli stessi mali ed, in fondo, forma particolare di cultura tecnica ed esecutiva.

LA PROPOSTA DI REMO CESERANI

Anche per Remo Ceserani (Università di Bologna), italianista e comparatista, il tecnicismo è responsabile del degrado culturale della scuola italiana. E’ un tecnicismo, di cui sono colpevoli tutti coloro che hanno sostenuto la distinzione e la separazione tra educazione linguistica ed educazione storico-letteraria. A quest’ultima, infatti, va il grande merito di formare l’immaginario individuale e collettivo, vera fonte delle forme creative del pensiero umano.
Senza la dimensione dell’educazione all’immaginario, che l’educazione linguistica ha cancellato nel suo culto dell’analisi formale, si va incontro alla generazione di un pensiero sempre più povero.
La preponderanza dell’educazione linguistica rispetto all’educazione letteraria, tuttavia, è l’indizio del successo che determinati ambiti disciplinari (semiotica, scienze della comunicazione) hanno conseguito in questi tempi: l’approccio formalistico, in altri termini, ha radici profonde estranee alla tradizione culturale europea e sono un segno della subalternità di quest’ultima ad altri modelli culturali.
Come può intervenire la scuola davanti a questo problema? Ceserani propone l’introduzione di una nuova materia, "Educazione all’immaginario", che riunisca in un grande ambito disciplinare l’insegnamento delle letterature, delle arti, della musica, della storia, della filosofia.
Inoltre, l’"antico" deve riproporsi non solo come linea culturale della classicità greco-romana ma anche come recupero della tradizione giudaica, altro grande filone della cultura europea occidentale.
In questa proposta si vede la consapevolezza di raccogliere la sfida delle culture del tecnicismo in nome della storicità e dell’immaginario, ma l’indicazione di riunire tutti i saperi umanistici ci avverte di qualcosa di più. Evidentemente Ceserani pensa che l’incontro dei linguaggi dell’humanitas sia ormai ineludibile, chiave di volta per dare alla cultura della multimedialità quella fondazione e dignità storica senza la quale è destinata a diventare mera espressione di una operatività senza creatività.

LA RISPOSTA DI GIANCARLO CAVINATO

Un ruolo fondante nella scuola di base ha la narrazione. Essa può concorrere in modo decisivo alla valorizzazione della memoria ed alla strutturazione dell’identità personale, proprio a partire dal racconto dell’esperienza vissuta.
Narrando e insegnando a narrare si esplora il rapporto che ognuno di noi ha con la narrazione: rassicurazione, conferma, piacere, modificazione dell’altro…
Comunicare con gli altri è un raccontare e raccontarsi.
In questo movimento dell’io verso il tu sta la funzione sociale della narrazione; Infatti, una delle caratteristiche del racconto è la sua universalità, la sua presenza in tutte le culture, tempi ed età; in particolare è presente nell’età infantile come modo privilegiato di comunicazione e come bisogno di raccontare e di sentir raccontare.
Narrando si parla di SÉ, degli ALTRI, del MONDO, di MONDI FANTASTICI: sono le quattro dimensioni di sviluppo della scrittura cui fa riferimento G. Perec.

  • IL FANTASTICO

L’educazione all’immaginario porta con sé una grande ricchezza formativa:
"aiuto a ricostruire l’identità; rafforzamento di se stessi, proiezione nel futuro, mezzo per affrontare la propria realtà senza disorientarsi, allontanamento per ritornare con maggior forza a sé.
Un viaggio nel regno di Fantasia. permette un ritorno più consapevole alla propria realtà, un cambiamento di se stessi e della propria realtà.

  • RACCONTARE DI SÉ

Il narrare, attraverso il racconto di se stessi, è la scoperta del valore della quotidianità come scambio, in quanto essa ha di diverso rispetto agli altri e di specifico, ma anche di comune a tutti gli altri.
Valorizzando, riscoprendo, ‘sbanalizzando’ aspetti della quotidianità (il bagno serale come ‘avventura’ e tanti altri episodi della vita d’ogni giorno del bambino), si offre ai bambini un aggancio per la strutturazione di una personalità democratica; il lavoro sul quotidiano non discrimina gli individui in quanto ci si riferisce a ciò che accomuna e non a ciò che separa.
Per questo è necessario riflettere su piccoli fatti, micro-interazioni, non sull’avvenimento eccezionale (il gioco, il rapporto con i coetanei, con gli adulti, il modo di vivere la scuola, la solitudine, il rapporto con gli animali).

  • RACCONTARE DEGLI ALTRI

E’ un momento importante della relazione interpersonale, la ‘prova’ che la relazione ha acquisito un determinato livello di profondità: rispecchiarsi nell’altro, provare reciprocità. Il racconto apre a prospettive di educazione alla pace, alla scoperta di se stessi come partecipi in molte cose a tutti gli esseri umani (empatia), ma, nello stesso tempo, come diversi.

  • RACCONTARE DEL MONDO

Sono in gioco i modi e i tramiti dell’accesso dal proprio ‘guscio’, dalla bolla personale, a tanti mondi possibili. Da questo punto di vista la narrazione schiude più di una potenzialità.
La narrazione, nel momento in cui è cura del sé, è attraverso le nostre narrazioni che costruisce una versione di noi stessi nel mondo, ed è attraverso la sua narrativa che una cultura fornisce ai suoi membri modelli di identità e di capacità d’azione.
Essa è espressione dell’identità, del progetto personale di realizzazione.
E, al tempo stesso, è connessione di parti diverse, separate, dell’esperienza; un puzzle, una combinazione di pezzi in un disegno, uno sfondo.
La narrazione è anche attribuzione di significato, tanti significati possibili combinando i pezzi in vari modi). La negoziazione di significati avviene in un gruppo. Pertanto, essa consente una rielaborazione e rappresentazione della realtà scegliendo un punto di vista.

(sintesi a cura di Mario Pinotti)

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Bologna, Emeroteca del Mulino, 18 aprile 2001

A.Battistini, V.Citti, A.Grillini, L.Stupazzini
"I nodi dell’educazione linguistica e letteraria fra presente e passato"
(condotto da R. D’Alfonso)

Il secondo seminario del ciclo è stato dedicato fondamentalmente alla questione della trasmissione della cultura linguistico-letteraria della nostra tradizione classica. Il fatto stesso di sussumere il problema della trasmissione didattica come problema ha rappresentato l’interesse più profondo di questo confronto seminariale.
Non sarà difficile vedere dai resoconti che seguiranno come la questione della trasmissione della cultura linguistico-letteraria sia un nodo cruciale non solo della didattica ma anche del sistema dei valori che orienta il vivere civile e dei fondamenti epistemologici di questo sapere.

LA PROPOSTA DI ANDREA BATTISTINI

Fino alla fine degli anni Settanta il manuale, il compendio cioè della storia della letteratura italiana, è stato lo strumento principe attraverso il quale nella scuola veniva trasmessa alle giovani generazioni la cultura classico-letteraria. Il 1979, l’anno dell’entrata in vigore dei nuovi programmi della scuola media inferiore, può essere considerato come l’anno di aperta contestazione del primato didattico del manuale tradizionale. Ad esso si sono progressivamente sostituite le raccolte antologiche ad un punto che spesso gli insegnanti si sono divisi nel dilemma: manuale o antologia? Primato del testo o del contesto? La fortuna dell’antologia ed il declino del manuale vanno associati a due fattori culturalmente diversi ma convergenti nelle loro effettive conseguenze: il successo dello strutturalismo anticontestualizzante e la permanenza della lezione crociana sull’autonomia del testo rispetto all’autore.
Il dibattito e le proposte, sviluppatesi attorno alla riforma dei curricoli per competenze, hanno indicato una strada che sembra prendere atto dei più evidenti limiti di cui si sono trovati affetti sia l’opzione didattica del manuale tradizionale sia quella dell’antologia.
L’opzione manualistica implicava, più o meno esplicitamente, il modello storicistico hegeliano, che vuol dire riconoscimento di una direzione nel cammino della storia, scelta di priorità, gerarchia attorno alla quale costituire l’ordine del tutto, dell’insieme.
La lezione hegeliana fu fatta propria dal più autorevole dei ministri della pubblica istruzione dell’Italia risorgimentale. Francesco De Sanctis negli anni Sessanta del XIX secolo compì le proprie scelte, ispirate da altrettanto chiare opzioni politiche: Alessandro Manzoni contro Ippolito Nievo, il centralismo unitario contro il federalismo regionale. L’impianto di una simile impostazione è sopravvissuto per più di un secolo, ma negli ultimi decenni del secolo XX è entrata diffusamente in crisi la fiducia nel cammino della storia, nell’"oggettività" delle scelte, nella indiscutibilità delle gerarchie che privilegiano autori e correnti letterarie rispetto ad altre. Il manuale tradizionale, insomma, ha mostrato tutta la soggettività che presiedeva alla sua compilazione e non è in grado di rispondere all’accusa di presentare come "evidenti" scelte che sono il frutto di una consapevole intenzionalità.
L’opzione antologica, dal canto suo, sorta con l’ambizione di riconsegnare il testo al lettore senza mediazioni interpretative precostituite dagli autori dei manuali, ha finito con lo scontrarsi contro numerose difficoltà. La rinuncia al criterio della scelta, della gerarchia, del senso complessivo del cammino della storia hanno promosso l’ingresso nella scuola italiana di nuovi autori, nuovi generi letterari, di nuove culture, di nuovi linguaggi. La prova concreta di questa espansione è visibile nella dimensione delle antologie, sempre più voluminose ed enciclopediche. Ma il tempo scolastico è limitato, i processi cognitivi degli alunni complessi e non è possibile imparare tutto. Come selezionare i contenuti?
Il sillabo, espressione della cultura didattica britannica, è lo strumento che più si è prestato a venire incontro a questa esigenza. Esso fornisce una cornice entro cui la libera scelta dell’insegnante si può esercitare. L’effetto di questo indirizzo è stata la frammentazione delle conoscenze, la mancanza di una visione d’insieme, la rinuncia alla comprensione contestuale.
La costruzione dei curricoli (riformati o meno, N. d. R.) pone comunque la questione dei nuclei prioritari delle conoscenze e ripropone con forza il problema della scelta – del ‘canone’ - come categoria irrinunciabile, pur nella consapevolezza che non è possibile ritornare, come se nulla fosse accaduto, al punto di vista dello storicismo.
A che condizioni, allora, è possibile selezionare? Bisogna accompagnare la lettura e l’analisi del testo ad una educazione culturale e valoriale che non sia solo ancella occasionale dell’educazione linguistica.
Più in particolare, per conseguire tale prospettiva occorrono alcune condizioni ben chiare:

  • educare l’immaginazione: la lettura dei testi letterari deve prefiggersi, compatibilmente con le diverse età degli alunni, lo sviluppo dell’immaginazione, del piacere di esplorare nuovi mondi vicini e lontani;
  • conoscere il mondo di cui parla ed è espressione il testo letterario: le istituzioni politiche e culturali sono una conoscenza irrinunciabile per poter collocare nel proprio contesto l’opera d’arte che si vuole far studiare;
  • avvicinarsi ad altre letterature contemporanee e far incontrare la letteratura italiana con altre arti;
  • rivelare le scelte intenzionali che stanno dietro ogni proposta interpretativa del testo letterario e del movimento culturale che lo accompagna.

La strategia didattica che dovrebbe scaturire da queste indicazioni si dovrebbe risolvere in una trasmissione culturale rappresentabile dalla metafora della fisarmonica: brevi sintesi manualistici per assicurare la visione culturale d’insieme ed approfondimenti, temporalmente più dilatati, sulla base di criteri interpretativi di cui occorre dar conto preliminarmente.

LA PROPOSTA DI VITTORIO CITTI

Oggi assistiamo alla grande difficoltà che la nostra cultura, la cultura occidentale, la cultura classica, sta vivendo in seguito all’aggressione della cultura dell’indifferenziato, progressivamente sempre più capace di conquistare il dominio mondiale.
Deve allarmare tutte le coscienze il declino della nostra cultura non perché essa sia superiore ad altre culture, ma perché è la nostra cultura. Lo smarrimento della sua memoria è lo smarrimento della nostra memoria, collettiva ed individuale.
La nostra cultura è la cultura del principio di contraddizione, la cultura del conflitto, dell’individuale, della libertà; le altre culture (si pensi a quella buddista) sono culture della non contraddizione, della subordinazione delle parti alla superiore armonia del tutto, dell’indifferenziato come valore da anteporre a quello dell’individualità.
L’attacco, tuttavia, alla nostra memoria, alla nostra identità, alla nostra storia, non proviene solo dalle antiche culture dell’indifferenziato, ma soprattutto dalla pervasiva cultura tecnologica. Essa è la principale portatrice dell’omologazione e della massificazione, come stanno a dimostrare gli effetti che l’informatica produce sulla creatività immaginifica e sulla comunicazione linguistica.
Se le giovani generazioni non sapranno più nutrire la loro capacità di pensare il mondo con le suggestioni del mito classico, di riconoscerne e utilizzarne gli archetipi, come potranno difendersi dall’appiattimento globalizzante?
Se nelle scuole italiane sarà perduta la lezione di Montaigne, la coscienza della dignità individuale e della fiducia nell’esercizio critico della ragione ed al tempo stesso la consapevolezza dei suoi limiti, come potranno i giovani sfuggire alla massificazione in atto?
Questo è l’universo problematico in cui collocare tutte le questioni culturali e didattiche inerenti alla riforma dei curricoli.
La didattica del primato del testo ha già mostrato i suoi limiti e le sue illusioni. Il contatto diretto con la complessità testuale espone lo studente, sprovveduto di strumenti critici adeguati, al rischio di banalizzarne la ricchezza semantica e la sapienza sintattica (si pensi all’osticità di testi quali le Operette morali di Leopardi, alla sestina provenzale, al genitivo in -then nella Medea di Euripide).
Questo pericolo è strettamente connesso al declino della nostra identità culturale. Sempre più rimossa dalle case che abitava (scuola, università, editoria scolastica, mezzi di comunicazione di massa), essa non è più in grado di orientare gli alunni nel loro approccio alle grandi opere ed ai grandi autori della nostra storia.
Ci si è dimenticati del fatto che la storia è ontologicamente lineare e che, pertanto, senza la linea consequenziale che muove dal passato verso il presente si smarrisce la comprensione di ogni fenomeno sociale, politico o culturale che esso sia.

LA PROPOSTA DI ANDREA GRILLINI

La consapevolezza dei limiti impliciti nel manuale di impianto storicistico rappresenta una diffusa consapevolezza nella scuola italiana: non è più possibile prescindere da quelle aporie. L’approccio al testo deve rimanere la caratteristica centrale della didattica dell’educazione linguistica e dell’educazione letteraria.
D’altra parte, un’esperienza, ormai ventennale, di analisi testuale rende oggi avvertiti gli insegnanti di alcuni evidenti problemi: le crescenti difficoltà linguistiche e la tentazione di un approccio troppo tecnico, troppo analitico. L’insufficienza linguistica rende problematico anche il primo livello di avvicinamento al testo, la comprensione del suo significato manifesto; la tentazione tecnicistica, incoraggiata anche dalla tipologia delle prove richieste dal nuovo esame di stato, fa smarrire il senso dell’unitarietà dell’opera riducendola ad arida collezione di osservazioni dettagliate e classificazioni vuote.
Per questo va accolta la sollecitazione di Battistini che indica nella combinazione di profili sintetici di inquadramento e approfondimenti testuali l’opportuna strategia didattica.
È però necessario non fermare qui la riflessione. La centralità dei testi non deve avere come obiettivo prioritario quello della formazione del "piccolo critico letterario", bensì quello della formazione del "piccolo scrittore" (si rivedano in proposito anche le osservazioni di Cavinato nell’incontro scorso). È possibile dunque percorrere una terza via: al primato dell’autore e al primato del testo è possibile anteporre il primato del lettore.
Fuor di metafora questa affermazione significa che prima di tutto bisogna porre al centro dell’intervento didattico l’alunno, con le sue conoscenze della realtà attuale, le uniche a cui può attingere per interrogare il testo che legge. Non serve un rapporto tecnicistico con il testo se non in quanto fornisce conoscenze che concorrono a meglio contestualizzarlo. Questo percorso didattico, in altri termini, muove dalla consapevolezza che lo sviluppo di un fecondo rapporto con la cultura si può stabilire solo muovendo dalla capacità che ha l’alunno di "guardare al testo". Questa attenzione al testo può essere fortemente potenziata non dalla lettura tecnicistica (effettivamente feconda, nella sua autonomia, solo in presenza di buone conoscenze e solide competenze), né dalle motivazioni personali e sociali a conoscere (troppo legate all’individualità spontanea delle persone), ma alla produzione di testi da parte degli alunni.
Nel momento in cui si attiva il laboratorio di scrittura, nel momento in cui lo studente si accinge a scrivere, egli fa esperienza dello "scrivere" e ne scopre progressivamente la profonda ricchezza formativa. Più saranno tentati modelli di scrittura, più ricchi saranno gli stimoli formativi. Ogni modello di scrittura implica specifiche intenzionalità, modalità espressive determinate, contesti comunicativi riconoscibili, regole normative codificate e rispettate. Al di là delle specifiche forme linguistiche e letterarie, insomma, gli alunni si imbatteranno nei "vincoli sintattici, intenzionali, contestualizzanti" della competenza dello scrivere. Le aule saranno trasformate in scuole d’arte (nel senso di ‘botteghe’); in esse si insegnerà ad imitare opere, a manipolarle, ad integrarle senza fare violenza al modello linguistico che si è avuto in consegna.
Questo discorso non vale solo per i testi letterari o per i comuni generi tipici della comunicazione mediatica; esso ha valore anche per i testi scientifici.
Secondo questa proposta didattica l’alunno viene indotto a percorrere i momenti costitutivi della competenza dello scrivere. Non si tratta di affidarsi alla spontaneità dell’impulso comunicativo, ma di guidare questo impulso secondo gli schemi e le impostazioni di modelli di scrittura già codificati, frequentati da tutte le forme del sapere. Una nuova totalità si intravede sullo sfondo: non è più la totalità dell’organizzazione delle conoscenze, fondate sul criterio ordinatore dei valori dello sviluppo storico, ma della totalità che detta i propri valori centrali dall’universo problematico ed attualizzato da cui parte e ritorna lo studente.
Questa totalità si può costruire a partire dall’ottica del presente; non è arbitraria poiché le conoscenze e le competenze che la sostanziano derivano dal dialogo con gli autori di tutti i tempi e dalla "scoperta" dei loro modelli comunicativi; non è senza interni criteri ordinatori poiché essi sono rintracciabili nelle domande che maturano nel presente e che ne rappresentano il baricentro.

LA PROPOSTA DI LUCIANO STUPAZZINI

Il problema della trasmissione della cultura classica alle giovani generazioni va affrontato nella sua reale complessità.
Prima di tutto dobbiamo interrogarci sul rapporto tra presente e memoria, questa memoria della cultura classica che sembra in via di dissoluzione. Come si fa a convincere dei ragazzi di 15 anni che la cultura dell’antico è una cultura indispensabile per la loro formazione?
Fino alla fine degli anni Sessanta questa domanda era informulabile. La cultura classica parlava da sola, rivelava immediatamente il proprio senso, perché esso non era disgiunto dal senso del presente.
Le grandi trasformazioni sociali, politiche, economiche, tecnologiche dell’ultimo trentennio hanno sicuramente modificato la mappa valoriale della nostra esistenza, ma questi rivolgimenti sono giunti al punto da recidere ogni legame con l’universo semantico della classicità?
Non lo credo. Le innovazioni tecnologiche, ad es., rappresentano un tema che può connettere fortemente il presente col passato e, più precisamente, il presente con il passato remoto, il passato dell’età antica. La rivoluzione telematica, che presiede alla trasmissione delle informazioni, si presta opportunamente ad una riflessione sulle modalità con cui le società umane nel corso del tempo hanno affrontato questo problema, come l’hanno risolto, come ne sono state condizionate dal punto di vista organizzativo e culturale. In un’ottica di lungo periodo si scoprirà, allora, che la civiltà umana sta vivendo oggi una trasformazione (l’affermazione della cultura multimediale) paragonabile a quella conosciuta nel mondo greco, nel quinto secolo, con l’affermazione della cultura scritta rispetto alla cultura orale.
Questo è solo un esempio tematico che mostra come sia possibile riscoprire uno scambio fecondo tra presente e passato. Se letto ed interrogato alla luce di una concezione storiografica epistemologicamente più ricca di quella tradizionalmente appresa sui banchi di scuola, il passato svela la propria vicinanza al presente in una molteplice varietà di campi del sapere e dell’agire umano.
La seconda condizione per far parlare il presente con il passato è la centralità del testo nell’attività didattica.
Tutti i limiti, già denunciati a proposito del manuale tradizionale, sono più che sufficienti per aspirare ad un nuovo tipo di manuale e ad un nuovo uso. Il manuale dovrebbe diventare una specie di reference book, una sorta di tavola mendeleviana, per dirla con Umberto Eco. Esso dovrebbe servire come strumento di consultazione, di inquadramento, un deposito di informazioni a cui attingere quando la comprensione del testo non può prescindere dalla conoscenza del contesto.
Precisato l’atteggiamento che dovrebbe avere l’insegnante e lo studente davanti al manuale, occorre chiarire quale debba essere l’atteggiamento davanti al testo. Anche in questa sede è stato denunciato più volte l’approccio tecnicistico alla lettura testuale: come ci si può liberare da un simile pericolo?
Credo che il modo migliore sia quello di riconoscere il fine che deve avere l’educazione linguistica nella scuola italiana. Se per l’insegnamento dell’italiano è stato riconosciuto che il fine principale debba essere produttivo, se per l’insegnamento delle lingue straniere moderne il fine è comunicativo, per il greco ed il latino il fine deve essere metalinguistico. Le lingue classiche, insomma, devono concorrere essenzialmente alla comprensione delle strutture linguistiche, cosa a cui sono particolarmente portate avendo perso le altre due funzioni succitate.
La funzione metalinguistica, però, richiede uno studio della lingua diverso da quello garantito ordinariamente da una grammatica normativa. La comprensione della struttura linguistica, p. es., è resa più agevole dall’assunzione del principio di dipendenza che fa del verbo la parte costitutiva del discorso. la sua variabile valenza (zero, mono, bi, trivalente) apre alla comprensione delle funzioni delle altre parti del discorso.
Secondariamente e in virtù dello stesso principio di dipendenza, lo studio della sintassi non può prescindere dalle sue connessioni semantiche, cosa che fornisce al lessico una posizione centrale nell’educazione linguistica.
Centralità del lessico vuol dire anche attenzione alla storia della lingua, cosa che ordinariamente manca insegnando secondo i principi della grammatica normativa, la quale presuppone una fissità atemporale della lingua.
A sua volta storia della lingua vuol dire storia delle idee e, quindi, apertura al piano culturale.
In altri termini, questa proposta didattica implica una circolarità tra contesto (prospettiva semantica del presente e suo riconoscimento nel passato), testo (studio della lingua) e contesto (storicizzazione della lingua) e per questa via recupera un approccio d’insieme che l’impostazione storicistica possedeva solo apparentemente nel mondo vuoto delle conoscenze senza competenze.

(sintesi a cura di Mario Pinotti)

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Bologna, Emeroteca del Mulino, 9 maggio 2001

I.Dionigi, A.De Bernardi
"Quando il presente interrroga il passato"
(conduce M.Pinotti)
Il terzo seminario ha allargato la riflessione all’insegnamento della storia ed ai problemi fondativi che lo accompagnano. In particolare è stato il nesso fra storia contemporanea e storia antica ad essere dibattuto e, ancora una volta, ci si è confrontati sul destino, sul ruolo, sull’importanza della storia e della cultura antica in presenza dei profondi processi di modernizzazione e di globalizzazione che stanno sconvolgendo il tempo presente. Sotto un altro versante, insomma, si è continuato a discutere sul tema privilegiato dei due incontri precedenti.

LA PROPOSTA DI IVANO DIONIGI

Il passato bisogna conoscerlo. Da questo assunto, assolutamente prioritario, bisogna trarre tutte le conseguenze che implica. La prima conseguenza è di natura didattica e può essere condensata nella formula "signoria del che cosa sul come", delle conoscenze sulle competenze. Questa drastica asserzione si giustifica in nome della peculiare caratteristica del sapere umanistico: esso richiede una conoscenza più complessa di quella scientifica e tecnica che si incrementa sul paradigma della sostituzione; al discorso umanistico, invece, non si può applicare che il paradigma dell’addizione, su cui fondare memoria e storia. Studiamo Dante anche attraverso tutti gli esegeti antichi, laddove del sistema tolemaico, per es., non ci occupiamo più. Secondariamente, la scuola deve mettere al primo posto ciò che non fa parte dell’esperienza quotidiana, che può essere insegnata, come l’inglese e internet, più efficacemente in altre sedi, in fretta, come ha sostenuto anche M. Fumaroli.
Quale valore ha la cultura antica? Perché essa deve rappresentare la principale preoccupazione della scuola? Per dirla con Curtius, l’uomo europeo consiste di antico e di moderno. Ora l’antico si è fatto Europa e il moderno si è fatto mondo. Questa è una crux. Proprio ora che l’Unione Europea ambisce a svolgere un ruolo politico al di sopra delle singole sovranità nazionali, la memoria della propria identità culturale non deve andare dissolta. Due sono i barbari alle porte della nostra civiltà, in senso etimologico: uno infra moenia ed uno extra moenia.
Mentre in passato il conquistato ha egemonizzato culturalmente il conquistatore (Grecia conquistata da Roma, Roma conquistata dai Barbari), nel tempo presente il conquistatore impone la propria grammatica culturale. La prima classe di barbari, intra moenia, è rappresentata dalla simultaneità, dalla sincronia, dalla mancanza di conoscenza storica. Qui non sono in ballo il greco o il latino, ma il concetto di storia, come continuum fra antico e moderno. La seconda classe di barbari, extra moenia, è rappresentata dai flussi immigratori. Quando avremo fatto l’Europa forse gli europei non ci saranno più.
Queste considerazioni servono per chiarire quale possa essere oggi il ruolo del classico. Il classico non è più il criterio risolutore, il centro irradiatore: siamo in presenza di una catastrofe, da intendersi come rovesciamento, come perdita del senso del passato in quanto continuum.
Il latino, che è stato a difesa del potere, oggi potrà avere un ruolo di difesa dal potere. In gioco, dunque, c’è la difesa dalla dissoluzione dell’identità culturale europea, un’identità che affonda le proprie radici in due antichissime sorgenti, Atene e Gerusalemme, attraverso Roma: il futuro dell’Occidente non può essere perduto.
Che fare, dunque? Un esempio concreto: nel suo ruolo di Direttore del Dipartimento di filologia classica e medievale presso l’Università di Bologna, Ivano Dionigi ha dato vita a due iniziative, volte a valorizzare la cultura classica e a mostrarne (non a di-mostrarne la vitalità attualizzante: il Centro studi "La ricerca del classico" e il corso "Interrogare i classici". Il Centro ha lo scopo di promuovere ricerche e tesi sulla ricezione del classico nei diversi periodi della storia europea e sullo studio delle traduzioni; studio dei linguaggi tecnici, della comunicazione attraverso i classici, sulla strada aperta dai Sofisti, "molto tempo prima di Umberto Eco." Il corso "Interrogare i classici" (cinque incontri, condotti da Cacciari, Traina, Fedeli, Canfora ecc.…), si è interrogato sull’esistenza di un canone della classicità. Perché è mancata una riflessione sui classici nel paese? Una terza iniziativa va ancora ascritta all’impegno di chi parla: la costruzione di un corso / percorso che raccolga il meglio di lettere moderne: "Modelli e linguaggi della tradizione", dall’oralità omerica alla sociologia dei processi di comunicazione, attraverso varie discipline (linguistica, letteratura Italiana, latino, letterature comparate, storia della filosofia).

LA PROPOSTA DI ALBERTO DE BERNARDI

La riflessione deve muovere dalla presa d’atto della contrapposizione fra gli avversari e i sostenitori della riforma dei curricoli così come è stata redatta per il primo ciclo dalla commissione ministeriale istituita dal ministro della Pubblica Istruzione, Tullio De Mauro.
Gli avversari ritengono che debba essere insegnato un preciso canone di conoscenze storiche e sono convinti che esso sia insegnabile attraverso la trasmissione di una storia narrata. I sostenitori pensano che non ci sia il canone delle conoscenze storiche, ma un canone possibile tra tanti canoni, e affermano che esso sia insegnabile attraverso il ricorso alle fonti, pur ricorrendo alla necessaria mediazione didattica.
Questo articolato dibattito, tuttavia, va preceduto da una chiarificazione preliminare: a che scuola si pensa quando si prende posizione rispetto alla riforma? Essa è partita dall’assunto di dare solidi fondamenti culturali alla scuola di massa e di lasciarsi alle spalle la stagione della scuola elitaria.
Ebbene, nella prospettiva della scuola di massa, quale storia dovrà essere insegnata?
La prima scelta, compiuta dalla commissione ministeriale De Mauro, è stata quella di non insegnare la storia generale più di una volta. Infatti, non c’è un solo canone dei contenuti storici e, quindi, non c’è la necessità di reiterarne la trasmissione.
I contenuti che scegliamo hanno un fondamento storico culturale non epistemologico e non si impongono nella loro oggettività storiografica. Gli avversari della riforma non si rendono conto che i luoghi identitari politico-culturali che essi invocano si insegnano senza più nemmeno capire che NON sono luoghi privilegiati della storia come disciplina, ma della nostra cultura.
In realtà, a proposito della riforma dei curricoli, non si assiste alla contrapposizione tra chi privilegia il che cosa al come e chi si pronuncia per il primato del come rispetto al che cosa; la contrapposizione è tra due diversi che cosa.
Cos’è il che cosa del XX secolo? Il ‘canone’, nel nuovo progetto, non viene cancellato, ma ricollocato. E una operazione come questa è ineludibile anche se si blocca ogni riforma, nella storia come nelle altre discipline. Accanto a questo sforzo di ricollocazione, bisogna modificare anche la dimensione cognitiva dell’apprendimento storico, non utilizzando più la chiave della narrazione (apprendimento di universi definiti ed esposti nella loro compiutezza), ma l’approccio alla disciplina storica nella sua natura ermeneutica e procedurale.
Proprio questo approccio consentirà di svelare che la storia è interrogazione che il presente muove al passato, molteplicità di interrogazioni. La disintegrazione del tradizionale canone dei contenuti storici, allora, anziché comportare la liquidazione della conoscenza del passato, la ripropone in una prospettiva cognitivamente più viva.
Avevamo introiettato una trasmissione dei saperi umanistici in un quadro fortemente storicistico. Insegnavamo la storia della letteratura italiana secondo un canone desanctisiano (alto basso alto basso…) finalistico. Poi tutto è saltato e il secolo ventesimo si è mostrato irriducibile a questo schema interpretativo. Perché ha conquistato il potere Mussolini sopprimendo lo stato liberale dopo la prima guerra mondiale, se essa è stata interpretata come la quarta guerra d’indipendenza? Già Croce si chiedeva cos’era questo Novecento che non obbediva a nessun canone… Questa riflessione, ora, non è più solo un problema di interpretazione storiografica, ma una questione di vasta portata culturale e, pertanto, ricade sulla scuola.
L’esperienza storiografica delle Annales ha insegnato che gli eventi non contano, ma sono la morte, l’immaginario, ed altri fenomeni di lunga durata a contare. Gli storici hanno dovuto fare i conti con un profondo rivolgimento dei campi d’indagine; L’insegnante ha dovuto scegliere, "inventarsi un canone".
Come ci sta, in questa ottica, la preoccupazione per il riconoscimento dell’identità? La costruzione della storia nazionale non è più un modello. Tutto è messo in discussione. Dati, fonti ecc. NON devono essere decontestualizzati, ma la linearità non serve più: essa è stata un paradigma temporale costruito a posteriori, nell’Ottocento, che ha relato storia nazionale e antichità obbedendo all’esigenza primaria allora di rafforzare una storia identitaria debole. Al centro della riflessione siamo invece noi contemporanei: non dobbiamo perdere la storia nazionale, ma questa non ha relazione diretta con l’antichità, e il loro legame va indagato semmai sotto altre prospettive.

Come affrontare allora la scommessa culturale implicata dalla necessità di modificare la scuola?
L’idea che la scuola di massa livelli per forza verso il basso non emerge da nessuna parte, così come non emerge per l’università di massa. Distinguiamo i rischi, che ci sono sempre nei cambiamenti, dalla necessità del risultato negativo. Pensare che si peggiora farà peggiorare. Bisogna cercare di migliorare il risultato formativo. Anche gli universitari devono preoccuparsi del come, per la prima volta nella loro vita. Analogo esito negativo avremo, se si continua a pensare che nelle SIS si mandano i ricercatori considerati di serie B.
La scuola d’élite aveva finalità socialmente riconosciute, ma oggi i punti di partenza sono diversificati, rispetto a cui dobbiamo modellare linguaggi, contenuti, strumenti ecc. in vista dell’obiettivo ambizioso di una scuola di qualità.
Questo obiettivo richiede, per prima cosa, che la formazione degli insegnanti debba essere continua, non data una volta per tutte. È un programma che comporta denaro, anni sabbatici, …. Queste risorse le riforme avviate finora non le prevedono, ma il successo formativo della scuola non può prescindere dalla qualificazione degli insegnanti.
Inoltre, l’autonomia serve per governare le indicazioni di curricoli (non programmi), lacune, eccellenze, quel che serve nelle singole scuole / università: rendere trasparenti le opzioni e decidere dove mettere le risorse. La scuola di massa è quella che garantisce un’offerta formativa di qualità per tutti.

(sintesi a cura di Rossella D’Alfonso)

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Bologna, Emeroteca del Mulino, 22 maggio 2001

A.Brusa, G. Poma, P.Pombeni
"Verso una nuova identità del sapere storiografico
(conduce M.Pinotti)

Il quarto e conclusivo incontro seminariale ha continuato ad interrogarsi sul rapporto fra storia contemporanea e storia non contemporanea, ma ha anche affrontato temi più strettamente didattici concernenti il rapporto tra didattica trasmissiva e didattica laboratoriale.
In particolare la presenza di Antonio Brusa, uno degli estensori del curricolo di storia del primo ciclo, licenziato dalla commissione ministeriale nel febbraio del 2001, ha consentito di dar voce alle ragioni ed alle obiezioni che hanno accompagnato, fin dal suo nascere, questo testo. Quali che siano gli esiti della riforma, tali riflessioni non perdono nulla della loro pregnanza, perché toccano questione che interessano chi nella scuola opera ogni giorno. 

LA RISPOSTA DI ANTONIO BRUSA

Il nuovo curricolo di storia della scuola di base è stato letto come se fosse un indice di contenuti prescrittivi, mentre la sua chiave di lettura riposa in tutti quei provvedimenti legislativi, recentemente varati dal Parlamento, che si possono sintetizzare nella formula: istituzione della scuola dell’autonomia.
Solo alla luce di questo quadro generale si può comprendere la riflessione che è stata a fondamento dei lavori della commissione e in generale la riflessione che accompagna il ripensamento dell’insegnamento della storia nella scuola. Ogni anno il quaranta per cento degli alunni tra i 13 e i 15 anni lascia i banchi di scuola. È una tragedia sociale, un male strutturale che colpisce tutte le nazioni democratiche. Davanti a questa emergenza la scelta di proporre la storia generale tra i 10 e i 15 anni rivela tutto il suo senso: è un’opportunità fornita dalla scuola italiana a tutti i suoi alunni, prima che quasi la metà la abbandoni. A tutti coloro che, preoccupati del ridimensionamento inflitto allo studio della storia antica e medievale, si risponde ipotizzando la frequentazione di moduli di cultura antica per tutti quegli allievi che, durante l’ultimo biennio dell’obbligo, intendano proseguire gli studi nell’indirizzo classico.
Gli attacchi rivolti al testo della commissione, tuttavia, non hanno scaturiscono da generiche istanze ideali, ma derivano da interessi concreti che è bene richiamare.
La decisione di unire la scuola di base in un settennio comune fa saltare l’antica distinzione tra insegnanti, destinati alle elementari, preparati genericamente da un punto di vista disciplinare e specificamente in senso pedagogico (antica facoltà di Magistero) e insegnanti, destinati alla secondaria inferiore e superiore, formatisi nelle altre facoltà.
Con il nuovo settennio della scuola di base, si punta invece alla formazione di un insegnante pedagogicamente e disciplinarmente competente al tempo stesso.
Un secondo ordine di problemi riguarda che cosa insegnare. Non a caso questa è una frontiera che divide le opinioni in ogni paese in cui sia possibile discutere di simili temi. Ci sono i sostenitori della centralità della storia italiana e del cristianesimo e ci sono i sostenitori della centralità della storia mondiale: è un nodo che riguarda l’identità e le relazioni tra sé e gli altri.
Un terzo ordine di questioni, infine, riguarda come insegnare. Molta pubblicistica si è pronunciata drasticamente con la tesi per cui sono gli storiografi che devono dire che cosa gli insegnanti devono insegnare; c’è invece chi sostiene (Recuperati ad es.) che è il processo della ricerca che deve essere insegnato.

LA PROPOSTA DI GABRIELLA POMA

Gli storici dell’antico stanno vivendo momenti di profonda inquietudine (come è risultato dai precedenti interventi di Ivano Dionigi, Vittorio Citti e Riccardo Di Donato).
Uno studente su tre non conclude il corso degli studi, uno su cento si laurea in corso, ma tutti questi insuccessi non stanno ad indicare che il livello culturale medio degli studenti universitari sia alto. Il guaio è che si sta progressivamente abbassando.
L’evaporazione della cultura classica di base, espressa dalla sempre più incerta padronanza di una lingua antica, latina o greca, da parte delle matricole, ha già determinato modificazioni profonde nella didattica universitaria. Venti, trenta anni fa ci si stupiva del fatto che le università francesi o inglesi facessero studiare i loro allievi su traduzioni senza testo originale a fronte; questa prassi è diventata una realtà anche per noi.
Sono numerosi gli aneddoti, della quotidiana vita universitaria, che si potrebbero citare a dimostrazione della deprivazione linguistica degli studenti dei corsi di storia antica.
Che fare? Da dove ripartire davanti ad una simile situazione?

La domanda "Quale storia insegnare", non è la domanda prioritaria: la domanda prioritaria è "Quali finalità educative attribuiamo all’insegnamento della storia?". La storia greco-latina, compresa la storia italica pre-romana, contiene gli elementi di identificazione importanti nella formazione del cittadino dall’unità d’Italia in avanti. Il confronto con gli altri, il misurarsi con le altre culture non può prescindere dal bisogno di assicurare una forte identità culturale ai nostri cittadini: i moduli all’università su "I greci e gli altri" e simili rispondono al modello antropologico già erodoteo (cfr. studi di Herzog), per il quale la storia deve contribuire a far recuperare quei valori civili fondanti della polis, nella comunità.
Nell’affrontare lo studio della storia greco-romana, tuttavia, bisogna rendersi conto della sua specifica complessità. La rarefazione e la qualità delle fonti richiedono una metodologia molto rigorosa, regole stringenti: la storia antica è quella che ha il maggior tasso di ipotesi e il minor numero di ‘certezze’, per cui è destinata a essere sempre e continuamente riscritta, rimessa in discussione. Si pensi, ad es., al "dramma" storiografico rappresentato dall’impero romano. Mommsen rinunciò a tentarne una interpretazione generale perché esso non poteva essere capito in una prospettiva diversa, che avrebbe richiesto una vasta ricerca sulle province. Oggi, la ricerca storiografica è giunta a infinite storie territoriali, ma non c’è possibilità di una sintesi credibile. Da un punto di vista didattico questo significa che nei manuali di scuola e universitarie girano ‘certezze’ che non sono più tali: si pensi, ad es. alla crisi delle città, presentata come una realtà indiscutibile nel III secolo. Negli anni ’80 gli studi di Jacques per le città occidentali e quelli di Sartre per quelle orientali hanno mostrato andamenti molto diversificati. L’editoria scolastica andrebbe riqualificata: l’alto numero di pagine (manuali di 800 pagine) è indice di incertezza nel riconoscere i momenti essenziali della storia antica e di trasmetterli con chiarezza; la frammentazione degli indirizzi nel corso di laurea va nella stessa direzione.
La prevista riforma dei cicli aggraverà questa situazione. La storia antica (quattro millenni) sarà insegnata per soli due anni, in quinta e in sesta classe: che tipo di conoscenze e strumenti possono esser dati? Dall’elenco degli argomenti (lunghissimo) del nuovo programma risultano molti temi assai complessi e di scarsa chiarezza. Come insegnarli con qualche profitto ragionevolmente prevedibile ad alunni così piccoli? È vero che la storia antica ritorna poi nei percorsi tematici del triennio, ma su che fondamenta conoscitive potrà contare?
Anche l’organizzazione degli studi all’università non è funzionale all’acquisizione di una specifica competenza storiografica antichistica. Undici corsi triennali provocano una netta divaricazione fra impostazione cronologica e impostazione tematica. Se non riduciamo a "tabelle" la prima, lo studio della seconda su quale prospettiva diacronica può fondarsi? E poi vero che la dimensione "cronologica" significa solo storia di accadimenti? Fino ad ora si era riusciti a tenere questi due piani collegati.

LA PROPOSTA DI PAOLO POMBENI

Anche per lui la domanda vera da cui partire è "Perché insegnare storia". Pensa che la storia sia un ambito di conoscenze che interessi sempre meno e che il curricolo di educazione antropologica della riforma dei cicli abbia poco che fare con la storia. Questo curricolo si distingue per due caratteristiche, entrambe non condivisibili: l’aspirazione ad una concezione enciclopedica delle conoscenze e l’enfasi sull’età contemporanea. L’aspirazione enciclopedica, riconoscibile nella dilatazione dei contenuti (cita l’es. della civiltà sudsahariana), è irragionevole: gli insegnanti sarebbero chiamati ad insegnare ciò che non sanno e gli alunni a studiare troppe nozioni senza riconoscerne le priorità.
L’insistenza sulla storia contemporanea, d’altro canto, propria del curricolo della scuola dei cicli, non ha senso né la giustifica l’allarme lanciato per il dissolvimento della memoria. La memoria non va confusa con la conoscenza storiografica.
Che compito ha l’insegnamento della storia? Tre possono essere le possibili risposte:

  1. Storia come memoria delle res gestae.

    Questa accezione ha veramente poco senso. La nostra società ha smarrito la propria tradizione e non si riconoscerebbe in alcuna "grande impresa" del passato, proprio perché nessuna impresa del tempo andato saprebbe "parlare", comunicare alcunché all’uomo dei nostri giorni.

  2. Storia come educazione alla convivenza civile.

    Questa idea avrebbe anche un senso in presenza di una contemporaneità che vede dissolvere gravemente i fondamenti civici della communitas, ma è sull’idea di civitas che si dividono le coscienze e le opinioni.

  3. Storia come ausilio per la comprensione della complessità.

È un obiettivo altissimo, ma non è alla portata di tutti, né gli stessi docenti, mediamente parlando, sembrano in grado di dominare tutti i vasti campi delle scienze sociali o delle culture che non appartengono alla nostra.
Per questo bisogna che la scuola abbia un obiettivo realistico e sappia selezionare chiaramente ciò che deve essere conosciuto.
È molto più importante studiare Giulio Cesare che il governo democristiano nel secondo dopoguerra; Cesare e il suo tempo sono gli archetipi dei regimi dittatoriali e populisti e, studiando la vicenda di cui furono protagonista e scenario, si possiede il codice di lettura di tutte le società che fanno parte di quel genere di società. Lo studio dell’esperienza democristiana di governo, al contrario, rappresenterebbe lo studio di una vicenda ben lontana dal possedere lo stesso grado di generalità.
Attraverso questo esempio si capisce quale debba essere il carattere di un curricolo di storia, capace di aiutare gli studenti a decifrare la società in cui vivono; le scelte tematiche non devono dare il senso di un cumulo di conoscenze disorganiche, ma la mappa con cui orientarsi in questo nostro tempo.
Il curricolo elaborato dalla commissione ministeriale, invece, è malato di enciclopedismo, non si preoccupa degli alunni, trascura i limiti di formazione degli insegnanti, sogna di costituire una koiné comune che, al di sopra delle varie culture, fondi una civiltà planetaria su valori da tutti riconosciuti.
La scuola italiana deve insegnare l’identità e la cultura italiana, l’identità e la cultura europea anche agliextracomunitari per integrarli nel sistema di vita della società occidentale. Diversamente, saremo proprio noi a soccombere, a smarrire la nostra identità, a subire l’egemonia di altre culture.

(sintesi a cura di Rossella D’Alfonso)


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