Ad introdurre il tema, Fabio Olmi
propone all'attenzione quello che, in questi anni, pare essere non solo il frutto della
sua lunga osservazione, ma una sensazione diffusa fra molti docenti: se fino a qualche
anno fa si registrava un decremento progressivo delle capacità cognitive degli studenti
rispetto alle aspettative che gli insegnanti formulavano in base all'esperienza delle
generazioni precedenti, negli ultimissimi anni si è osservato piuttosto un salto
'quantico' degli allievi rispetto alle attese degli insegnanti, una commutazione non più,
neppure, graduale che riguarda aspetti fondamentali dell'apprendimento:
1) lo studio da parte degli allievi viene concepito sempre più come attività che abbia
come scopo il mero ricordare, senza calarlo in una realtà problematica per meglio capirla
né problematicamente nella realtà; è questo un problema di ordine sociologico prima che
cognitivo, che ha grande influenza sull'apprendimento;
2) la crescente difficoltà a ragionare pare doversi ricondurre a più cause: da un lato,
riflettere sulle cose sembra poco utile (ancora un dato che viene dalla società), è poco
attraente, stanca e non paga, è poco richiesta (v. le sollecitazioni, contrarie, dei
media); dall'altro lato, i ragazzi hanno sempre maggiori difficoltà a spiegare, ad
argomentare, motivare, confrontarsi.
Alla scuola si chiede molto ma le si dà sempre meno
valore, non mettendola in grado di contrastare questi problemi, poiché finisce con
l'essere in controtendenza rispetto alla società. A questo si aggiungano i difetti
endemici del sistema scolastico, il quale spesso recepisce i problemi dei giovani poco e
male: per esempio, il team del consiglio di classe, che dovrebbe studiare insieme i
problemi comuni al gruppo classe, fatica a trovare una sinergia per affrontarli. Quali
strategie mettere in atto perché un insegnante, quali che siano le materie insegnate,
possa favorire nei ragazzi di l'acquisizione di capacità di ragionamento? Come renderle
così flessibili da adeguarsi ai tempi e persone e situazioni diverse?
LA PROPOSTA DI SILVANO TAGLIAGAMBE
(Filosofia della scienza a Roma la Sapienza, vicepresidente del CRS4 Sardegna per la
formazione a distanza)
A) Introduzione: la sperimentazione delle nuove tecnologie
da alcuni anni, ricorda, sta cercando di tradurre il proprio impegno teorico in formazione
concreta: in quest'ambito cita il progetto più recente, denominato M.A.R.T.E., che sta
per partire in Sardegna, prevede la costruzione di moduli di apprendimento a distanza di
materiale tecnoeducativo per la scuola e le cui linee d'azione fondamentali sono quattro:
1) la messa in rete delle oltre 500 scuole della Sardegna con una formazione capillare
perché gli insegnanti raggiungano la patente europea al primo livello e al secondo
livello divengano capaci di una produzione autonoma di interventi didattici multimediali;
2) la difesa delle piccole scuole - questione ora in discussione al senato - attraverso la
formazione di consorzi fra loro con forme di insegnamento nuove, miste, in presenza e a
distanza: questo progetto investe 350 comuni ca.;
3) la multimedialità in classe, cioè una sperimentazione dell'uso del PC in classe (non
in laboratorio), in 28 scuole medie inferiori e superiori, con apertura alle elementari
attraverso le medie che fanno parte degli istituti comprensivi); non si tratta solo di un
fatto tecnologico e della possibilità di avere a disposizione di ciascun alunno un PC,
poiché la novità consiste nell'uso e nella produzione di materiale didattico innovativo:
gli insegnanti, cioè, non saranno più destinatari di materiali preparati altrove, ma
collaboreranno alla stesura / all'integrazione di materiali semilavorati, concepiti come
frame, cioè come cornici (si tratta ora di un manuale di linguistica, uno di bioetica e
di un laboratorio virtuale di fisica), e trasformati in manuali veri e propri dagli
insegnanti stessi, che divengono così coautori;
4) l'ultima azione è il progetto H, che riguarda l'uso delle nuove tecnologie per
superare gli svantaggi.
Da settembre, per 3 anni, il progetto sarà operativo (con la collaborazione di Tiscali,
Deagostini, Compaq e altri): il tutto sarà consultabile all'URL progettomarte.it.
Crede molto nella didattica in rete, perché non la considera solo come sovrastruttura
tecnologica ma destinata a influire sugli stili cognitivi e percettivi dello studente,
come emerge dal punto B.
B) Il rapporto fra conoscenza e rappresentazione della conoscenza
La rappresentazione che è stata fornita della conoscenza fino a non molti anni fa era
centrata attorno a un paradigma che privilegiava sistemi chiusi, fondati su una
assiomatizzazione e una formalizzazione basate su un'idea di un punto di vista assoluto e
oggettivo sul mondo.
Il paradigma della rete ha molto cambiato questo modello, passando da un sistema chiuso ad
un sistema aperto, da un sistema gerarchico (orientato prevalentemente allo studio dei
fondamenti delle singole discipline) a un sistema aperto verso collegamenti non
gerarchici. Muovendo da premesse assunte come assiomatiche, non c'era bisogno di
comunicazione fra i soggetti o non c'era allo stesso modo, né era centrale), perché si
giungeva a conclusioni analoghe partendo da presupposti comuni. La comunicazione ora
diventa invece fondamentale. L'accordo sulle premesse va costruito, non è dato. Nella
logica, p. es., si stanno affermando i sistemi multiagenti: solo dopo aver raggiunto uno
sfondo condiviso può avvenire il calcolo. Alla ricerca contribuisce una pluralità di
soggetti in cui nessuno può rivendicare una posizione privilegiata.
Le due obiezioni più frequenti nei confronti di questo nuovo paradigma del sapere sono:
1) il riferimento al paradigma della rete rischia di frammentare l'unitarietà della
personalità, di avere una funzione disgregatrice rispetto alla unitarietà del soggetto;
2) il riferimento al paradigma della rete rischia di frammentare anche l'unitarietà del
sapere o meglio dei saperi.
Ma queste due obiezioni vanno respinte
SUL RISCHIO DELLA FRANTUMAZIONE DELL'UNITARIETÀ DEL SOGGETTO.
Pensa che l'identità personale non sia 'data', bensì che sia il frutto di un lavoro
continuo di ricomposizione e di un'interazione con l'altro da sé. Questo, ritiene,
dev'essere centrale nell'insegnamento. Cita a esempio lo studio di Parfit, Ragioni e
persone, in cui si sostiene che l'identità dei soggetti individuali non è dissimile da
quella dei soggetti collettivi, ed è risultato delle relazioni, delle riaggregazioni
ecc., delle diverse valorizzazioni delle esperienze, ricordi ecc.
Vengono a sostegno di questa tesi anche i recenti studi sul cervello, che definiscono la
coscienza attraverso la metafora della strozzatura di una clessidra: i processi cerebrali
infatti non sono sequenziali, ma paralleli, e richiedono l'intervento contemporaneo di
molte aree cerebrali, che sviluppano azioni differenti. Il passaggio alla coscienza
implica la serializzazione, cioè la sequenzializzazione di processi paralleli. Questo
crea la strozzatura, ma permette di dare un ordine. Dopo, in seguito all'elaborazione di
una decisione a livello di comportamenti dettati dall'attività della coscienza, si
ritorna a un'organizzazione parallela. Ecco perché si parla di strozzatura.
Oggi si sa che la nostra memoria si attiva attraverso operazioni con una durata che va da
25-30 millisecondi a 20 secondi al max., e che dunque la base della nostra identità
personale è il risultato di tante piccole 'finestre' temporali, che con grande sforzo noi
dobbiamo ricomporre e integrare. L'identità personale è dunque il frutto di un continuo
lavoro di integrazioni fra flash temporali diversi staccati fra loro.
Un paradigma che dà per scontata l'unitarietà personale non rispetta questa realtà. Il
paradigma della rete risponde meglio alla realtà oggi nota.
SUL RISCHIO DELLA FRANTUMAZIONE DELLE DISCIPLINE
Nella (prima) commissione Bertagna, il rapporto fra riforma degli ordinamenti e contenuti
era stato affrontato partendo dalla consapevolezza che ci troviamo di fronte a una
esplosione di contenuti (es. nella seconda metà del 900 sono stati prodotti più
contenuti scientifici che da Galilei alla prima metà del '900, senza parlare di storia,
antropologia ecc.); dall'altro lato, se si voleva dare il rigore che devono avere alle
discipline (per contenuti, statuti epistemologici ecc.), esse non possono essere
frammentate, e in un orario normale il numero delle discipline non può superare la
decina.
Che fare? Comprimere ancor più i contenuti, staccando ancor più la scuola dalla ricerca
e dalla società contemporanee? Moltiplicare le discipline? L'unica soluzione è un lavoro
interdisciplinare serio, in cui il concetto di arco abbia la meglio sul concetto di nodo.
Uscire dalle discipline diviene chiacchiericcio? Propone il prototipo di insegnamento a
rete, un modo diverso di fare le discipline stesse: a es., la filosofia non più come
storia - racconto - della filosofia, ma partendo da un testo e fornendo lemmario,
interpretazioni in-significative e riprese di quel testo o posizione da parte dei filosofi
successivi (fa l'esempio della Fenomenologia dello spirito di Hegel). Un altro esempio
può essere la macchina di Turing come tentativo di risolvere un problema specifico,
quello della decidibilità, per poi giungere al passaggio dal concetto di macchina come
organismo tecnologico e fisico a quello di macchina intesa in senso astratto, guidata
dalle discipline logico simboliche, e, in terzo luogo, alla rivoluzione che essa ha
portato nella metafora della mente come software, che ha segnato il passaggio dal
comportamentismo al mentalismo nel cognitivismo, e, ancora, alla diversa impostazione del
rapporto fra struttura e funzione che è venuto di qui, all'accentuazione del significato
della funzione rispetto alle strutture fisiche; per giungere da ultimo all'analisi delle
conseguenze sul rapporto fra mente e cervello, con gli aspetti funzionalistici in primo
piano. Un lavoro simile è possibile solo con un team di docenti, su percorsi strutturati
e ben definiti, ed un passaggio da una razionalità individuale a una razionalità
collettiva
L'importanza delle reti vale anche da un altro punto di vista, come addita Robert Patrem,
Le virtù civiche nelle regioni italiane, Il Mulino: in ciascun sistema sociale vengono
selezionati non i migliori valori eticosociali ma i più funzionali. La scuola è vittima
di questa selezione, non riesce a ribaltare la situazione esistente. Molti hanno studiato
questo fenomeno in società 'barbariche' tipo quella di Orgosolo in Sardegna.
Allargare il contesto di riferimento è allora fondamentale per non condannare la scuola
all'irrilevanza: mettere in contatto i bambini di Ottano e Orgosolo con quelli di Cagliari
oggi e domani, speriamo, con Parigi e il resto del mondo.
LA PROPOSTA DI PAOLO JEDLOWSKI
(Sociologia a Scienze politiche in Calabria, Sociologia della comunicazione a Lugano)
Il punto di vista di Jedlowski verte su aspetti della questione diversi e
complementari rispetto a quelli trattati da Tagliagambe.
A) Premessa: la percezione del mutamento
Partendo dall'osservazione di Olmi sui mutamenti non solo generazionali ma addirittura
epocali percepiti, Jedlowski osserva che, quand'anche ci siano, è difficile coglierli
mentre vi si è coinvolti. L'idea poi che elementi esterni (come i nuovi mezzi
comunicazione e le nuove tecnologie in particolare) possano provocarli è con noi da
almeno un secolo, come hanno messo in luce gli studi di Simmel, MacLuhan, Mumford e altri:
è ragionevole pensare a un loro profondo influsso sui sistemi di percezione e dunque di
pensiero e di apprendimento, ma è difficile scandire il passaggio mentre ci si trova in
re.
È poi un cattivo indicatore, fuorviante, porsi e pensarsi come 'adulti' diversi dai
'figli' in una maniera radicalmente diversa da ciò che accadeva 'prima': è sempre stato
così, sempre ogni generazione una volta divenuta adulta ha provato lo stesso senso di
differenza rispetto alla generazione più giovane. Proprio in relazione alle tecnologie
Walter Benjamin ha mostrato molto bene come ogni nuova generazione trovi naturale lo stato
delle tecnologie nel momento in cui nasce1. Considera naturale (per familiarità) ciò che
è invece storico. Ma chi appartiene a una generazione precedente non può farlo, perché
una volta sola nella vita si è in uno stato di familiarità con l'esistente. Scambiare
ciò che è immerso nella storia - lo stato delle cose che ci è familiare - per il
'naturale' non solo dà il senso del distacco (che è inevitabile), ma può impedire di
comprendere la 'naturalità' del processo, di vedere anche noi stessi come potenzialmente
'innaturali' agli occhi della generazione di chi ci ha preceduti. Di tutti questi
mutamenti ce n'è uno più epocale di un altro? Non è facile dirlo.
Certo è che la generazione dei giovani di cui stiamo parlando vive in una situazione di
incertezza piuttosto alto, come aveva sottolineato Fano nell'incontro del 14 marzo. E
questo è il secondo punto da affrontare.
B) L'incertezza come ambito entro cui si trovano i ragazzi che studiano
Nel VI capitolo di Rumore bianco2 Don De Lillo c'è un dialogo molto indicativo fra padre
(che è anche l'io narrrante) e figlio, quattordicenne "spesso evasivo e lunatico,
altre volte [....] fastidiosamente arrendevole":
- Questa sera piove [è il figlio che parla]
- Sta già piovendo, - precisai.
- La radio ha detto questa sera.
[...]
- Guarda il parabrezza, - replicai. - È pioggia o no?
- Sto soltanto dicendo quello che ho sentito.
- Il semplice fatto che l'abbiano detto alla radio non significa che dobbiamo sospendere
il giudizio sull'evidenza dei nostri sensi.
- I nostri sensi? Si sbagliano molto più spesso di quanto abbiano ragione. È stato
dimostrato in laboratorio. Non conosci tutti i teoremi secondo i quali nulla è come
appare? Non c'è passato, presente o futuro fuori della nostra mente. Le cosiddette leggi
del moto sono una grossa mistificazione. Anche il suono può ingannare la mente. Soltanto
perché non lo si sente, non significa che non ci sia. I cani lo sentono. E anche altri
animali. Ma sono sicuro che ci sono suoni che anche i cani non possono sentire. Tuttavia
nell'aria ci sono, in forma di onde. Forse non si fermano mai. In tonalità alte, più
alte sempre più alte. Arrivati da chissà dove.
- Piove, - replicai, - o no?
- Preferirei non dover rispondere.
- E se qualcuno ti puntasse una pistola alla tempia?
- Chi, tu?
- Qualcuno. Un uomo in trench e occhiali affumicati. Ti punta una pistola alla tempia e
dice: "Piove o no? Non devi far altro che dire la verità e io metto via la pistola e
sparisco".
- Che verità vuole? Quella di chi sta viaggiando quasi alla velocità della luce in
un'altra galassia? Quella di chi sta nell'orbita di una stella neutrone? [...]
- È contro la tua testa che quell'individuo sta puntando la pistola. Quindi vuole la tua,
di verità.
- A che cosa serve la mia verità? Non significa niente. E se invece questo tizio con
pistola venisse da un pianeta di un sistema solare tutto diverso? Ciò che noi chiamiamo
pioggia, lui lo chiama sapone. [...]
- Si chiama Frank J. Smalley ed è di St. Louis.
- Vuole sapere se sta piovendo adesso, esattamente in questo istante?
- Qui e adesso. Esatto.
- Esiste un adesso? L'"adesso" viene e ne va non appena si è pronunciato. Come
faccio a dire che adesso piove, se il tuo cosiddetto "adesso" diventa
"allora" non appena lo pronuncio?
- Ma se hai detto che non esiste né passato, né presente, né futuro.
- Soltanto nei nostri verbi. È l'unico posto dove li si trova.
- Pioggia è un sostantivo. C'è della pioggia qui, in questo preciso luogo, in qualsiasi
momento nell'ambito dei due minuti successivi a quello che sceglierai per rispondere alla
domanda?
- Se intendi parlare di un luogo preciso, mentre sei in una vettura in evidente movimento,
allora penso che il problema della discussione stia proprio lì.
[...]
- O piove o no, - ribattei.
- Esattamente. Proprio quello che intendo io. Si tirerebbe a indovinare. [...]
- Ma lo si vede che sta piovendo.
- Si vede anche il sole che si muove nel cielo. Ma è lui che si muove o la terra che
gira?
- Un'analogia che non accetto.
- Tu sei sicurissimo che si tratti di pioggia. Come fai a sapere che non è acido
solforico proveniente dalle fabbriche oltre il fiume? [...] E comunque, che cos'è la
pioggia?
- Quella cosa che cade dal cielo e ci - come si dice - bagna.
- Io non sono bagnato. E tu?
- D'accordo, - dissi. - Benissimo.
- No, davvero: sei bagnato?
- Ottimo, - risposi. - Vittoria dell'incertezza, del caso, del caos. L'ora più bella per
la scienza.
- Fa' il sarcastico.
[...]
Lo guardai procedere sotto il diluvio verso l'entrata della scuola. Si mosse con
deliberata lentezza, togliendosi il berretto mimetico a dieci metri dalla soglia. In
momenti simili scopro di volergli bene con una disperazione animale [...] Sembra attirare
su di sé un pericolo.
La discussione investe tutto: verità, essere nel tempo e nello spazio, tempo e spazio
stessi, sensazioni ecc. Questo dialogo mette in discussione la certezza del senso comune
fondandosi sui risultati delle scienze. Che sono incerti. "La lingua si sfaceva come
funghi ammuffiti", scriveva Hoffmanstahl nel 1901(Lettera di Lord Chandos): la crisi
dei fondamenti appare ora, prima nelle letterature poi nelle scienze. Così si esprime
Weber nella sua ultima conferenza, sulla razionalità delle scienze, nel 1918: ogni
assioma poggia su qualcosa che non lo è. Altre incertezze vengono dalla convenzionalità
e arbitrarietà dei valori, che possono indurre al relativismo morale (cfr. ancora il
personaggio di Ulrich, uomo delle possibilità, nell'Uomo senza qualità di Musil: il
mondo delle certezze è rimpianto ma non regge più). Tutto il Novecento mette in luce che
la realtà è polimorfica e forse anamorfica, e dipende dai diversi punti di vista.
Non tutti però hanno presente questo. Noi insegnanti però sì (come aveva indicato anche
Fano), ed il nostro problema allora è riscoprire il realismo (critico) dopo aver digerito
tutto questo, trovare il modo di dire che la realtà c'è, oltre il relativismo, senza
tornare indietro a un'ontologia ingenua. Il sapere di cui abbiamo bisogno ha che fare con
le relazioni (Feyerabend): dobbiamo provare a rispondere insieme, non è giusto fermarsi a
dire che siamo incerti, non è giusto per i ragazzi.
Anche l'eccedenza di informazioni può generare in chi non ha risorse per capire e non
sopporta l'incertezza un bisogno (aggressivo) di una realtà restrittiva (tradizioni
locali per esempio, molto asfittiche se concepite come sistemi chiusi). Ma i giovani, in
realtà, sono differenziatissimi, è difficile farne un soggetto collettivo. Quelli che
preoccupano di più sono quelli che né protestano né prendono in carico i problemi...
Nel romanzo di De Lillo il rumore bianco rinvia a un inquinamento misterioso, ma c'è la
percezione di un pericolo che non si capisce...: allude ad altre incertezze che ipotecano
il futuro e fanno comparire la morte nei pensieri quotidiani. Nello stesso anno (1984)
esce Beck, La società del rischio. Con il progresso, scrive, cresce di pari passo
l'incalcolabilità delle conseguenze: il mito positivo del progresso comincia a
incrinarsi. Per chi ha più di 40 anni il futuro sembrava votato al progresso e certo. Chi
ne ha meno ha una percezione contraria. Il futuro appare incerto anche sul piano
biografico: lavoro... (come se tutti, scrive Dal Lago, dovessimo essere bohémien per
forza). I giovani nascono già in questa prospettiva, ma che costi ha? Noi da qualche
parte forse siamo molto certi, ma se uno nasce nell'incertezza? Avranno più risorse di
quanto immaginiamo ma bisogna essere corretti rispetto a questa dimensione nella quale
sono costretti a vivere.
C) Televisione, anzi neotelevisione
La generazione giovane (al di là della sua interna differenziazione) è figlia non ancora
dei computer, bensì della neotelevisione, cioè della televisione commerciale, qui da noi
dagli anni '80 (ancor prima negli USA e altrove).
Questo ha conseguenze precise: la scienza, lo abbiamo ripetuto, è dubbio metodico, ma per
parlare dell'incertezza ci vogliono determinate condizioni. Oggi però nel discorso
pubblico non ci sono. Esso si trasforma in discorso seduttivo. Il suo carattere di flusso
che ignora l'intervallo. Inoltre, questa televisione è quella finanziata dalle inserzioni
pubblicitarie: la vera merce siamo noi (non i programmi) e i programmi l'esca per la
pubblicità.
Quest'ultima è pervasiva anche perché diventa uno stile comunicativo: chiediamo anche ad
altri generi la stessa velocità, ritmo, andamento (per associazioni, sintesi ecc.): la
funzione conativa (come la chiamava Jakobson) è prevalente
Se un discorso diviene (quasi) tutto conativo si perde la possibilità di parlare di
verità e falsità: "Amami", "Compra questo"... sono frasi
indecodificabili forse come false o vere. Il discorso seduttivo esula da queste categorie.
Noi invece (insegnanti, studiosi ecc.) parliamo in una dimensione linguistica
eminentemente refererenziale (vero/falso, fondamentale per le scienze): ma se si cresce in
un mondo prevalentemente seduttivo, si tende a non accorgersi del problema. Infatti, come
è stato osservato, chi convive col/nel discorso seduttivo convive benissimo con la
contraddizione (a esempio) e l'acriticità.
L'insegnare la capacità di critica deve allora spostarsi di piano, nella dimensione
metacomunicativa, svelare cioè il meccanismo seduttivo: è inutile dire "questo non
è vero", mentre può essere utile rivelare il processo, l'intenzione recondita (o
esplicita) e chiedere: "ci stai a essere sedotto? Cosa vorresti davvero"?
Giovani si è quando il tempo davanti è, o piuttosto appare lungo, illimitato, anche se
vago (solo verso i 15 anni si attraversa il mondo della morte come mondo di mostri poi si
mette da parte). Questi giovani sono di fronte a eventi (catastrofe nucleare ecc.) che
sembrano dire che il tempo non è illimitato: glielo diciamo sempre, e li defraudiamo.
Alcuni riescono a trovare gli strumenti per stare dentro a questa cosa, altri lo avvertono
più confusamente: il loro orizzonte cognitivo qual è? Per questi dobbiamo trovare
l'atteggiamento giusto.
Il dibattito
Il dibattito, assai nutrito, ha
toccato vari punti:
- molti condividono l'idea della costruzione del sapere come rete, giacché il
momento interpersonale vale come antidoto all'incertezza (Fano). E il superamento del
relativismo è fondamentale: anche a tal fine anche la categoria della provvisorietà,
così come la intendeva C. E. Gadda, sarebbe più funzionale rispetto a quella
dell'incertezza (Ferratini).
- A esempio, nella pratica della lettura, che accomuna tutte o molte discipline,
l'incontro con il testo non è mai esercizio puramente soggettivo (o, peggio, arbitrario),
poiché l'attenzione al testo, a come è, alle sue strutture come alle dinamiche che
intrattiene con il sistema letterario e culturale in genere (nel senso dato da Lotman),
alla scoperta delle sue intenzionalità è garanzia non di una (presunta) oggettività, ma
del non arbitrio: la centralità del testo, pur entro la fitta rete delle relazioni
esplicite o implicite che intrattiene, è l'argine. Se poi la lettura diviene occasione di
comunicazione, sia fra insegnante e studente, sia fra studenti (come tra studiosi, poi, e
lettori 'comuni'), l'interazione e il confronto fra le dimensioni soggettive (non
arbitrarie) e fra queste e il testo medesimo salvaguarda dal relativismo pur assegnando lo
spazio che merita alla centralità del lettore. Non sarà molto diverso se infine a
"testo" sostituiamo oggetto della conoscenza, e a leggere "osservare"
, come nelle scienze sperimentali, e così via (D'Alfonso).
- Tornando tuttavia alle nuove tecnologie, queste comportano un ampliamento percettivo,
non astrattivo. Il modello di insegnamento a rete non è allora limitato in quei ragazzi
che sono già in qualche modo in questa dimensione? Il dubbio, la sua dimensione come
stimolo alla curiosità, va costruito. (Rosso).
- Ma su quale sensibilità della struttura scolastica possiamo contare per realizzarla? È
difficilissimo modificare qualcosa, anche perché l'insegnante ha bisogno di agganciare il
nuovo a quanto conosce, è conservatore di suo (Fano), ha scarsa propensione al lavoro
d'équipe, poiché una didattica in team richiede una diversa razionalità (Ferratini,
Olmi) e l'organizzazione scolastica stessa non coadiuva questa interazione (vari
interventi sui tagli a fondi, compresenze ecc.).
- Quanto al linguaggio seduttivo, il nostro linguaggio è soprattutto così (lo sapeva
Aristotele): usiamo la lingua per convincere (o altre funzioni) più che per descrivere
(Fano). Il motivo per cui il linguaggio seduttivo è antagonista rispetto alla costruzione
del pensiero è il problema didattico con cui un insegnante si scontra. Il prevalere di
questo ha influenze etiche e cognitive: il mondo della seduzione e persuasione non esiste
l'aut aut., vi domina la reversibilità. Scelta, verità, libertà e così via sono valori
che vengono meno (Pinotti). Così viene meno quel senso di identità forte la cui perdita
osserviamo (Pinotti, Olmi). Questo va combattuto con il valore formativo dei nostri
saperi, fondati sì sul dubbio ma volti alla ricerca della verità. È infatti importante
distinguere fra dimensione descrittiva e dimensione normativa nella elaborazione della
conoscenza. Anche l'insegnante è in situazione, fa parte della rete. Il terzo soggetto è
il sapere. Esistono in essi elementi di certezza (Sissa).
- L'identità epistemica dei saperi possiede una sua forza: ma, poiché non possiamo
svelare l'intrinseco dei saperi ai ragazzi, come ovviare? Le due metafore di Tagliagambe
sono nodali: clessidra e arco. L'arco permette criteri selettivi rispetto all'eccedenza
culturale e dei contenuti e la clessidra dà luce al processo dell'unitarietà della
coscienza. L'interdisciplinarietà va reinterpretata, respingendo la già tentata miseria
del trovare convergenze solo tematiche o solo metodologiche. Nella ricerca degli ultimi
anni di molti di noi la riflessione sui nuclei fondanti voleva assolvere a questo: trovare
le intersezioni categoriali. Come può concorrere la scuola? La parola chiave era
competenze, liberata da astrattezze e tecnicismo: funzioni del pensiero rispetto a
pensieri dati (Pinotti).
- Un altro aspetto è che nell'insegnamento la relazione è fondamentale. Pur detentori di
sistemi di saperi, noi insegnanti non possiamo ignorare i loro, dobbiamo saper mediare tra
le conoscenze che non possiedono e sono oggetto di insegnamento e il loro mondo, il che è
sempre più difficile, sia perché i bambini stranieri sempre più numerosi e sono
portatori di mondi che ci sono ignoti, sia perché soprattutto con i bambini più piccoli,
della fascia della scuola dell'infanzia, svelare i meccanismi delle pubblicità (per
esempio) è sempre più difficile (Calzolari).
- La difficoltà di descrivere e spiegare la si vede già all'università, nei corsi di
laurea come nei tirocini (Calzolari, Olmi, altri). Essa è certamente riconducibile al
linguaggio seduttivo della neotelevisione, in cui, poi, il flusso è continuo, fatto di
segmenti che procedono per giustapposizione e non consentono né la possibilità di
interagire, come noto, né di ritornare indietro, approfondire, cercare e dare
spiegazioni: impedisce insomma quella ricorsività che è propria invece della lettura,
della scrittura, dell'osservazione, che solo in un secondo momento, dopo un più o meno
lungo processo di rielaborazione, diviene sequenziale e direzionale. Nel flusso infatti
mancano anche la pausa, della profondità, il tempo della descrizione e della riflessione
(D'Alfonso).
Silvano Tagliagambe conclude sottolineando la centralità del rapporto fra certezza e
incertezza3. Ma quanti manuali non riflettono un'immagine dogmatica? Non tutti sono come
quelli di cui parlava Fano. A questo proposito Carlo Bernardini diceva che tra la scienza
della ricerca e la scienza di molti manuali e di molti insegnanti c'è la stessa
differenza che fra Fellini e le telenovelas. Certo è un giudizio assai forte, ma bisogna
rifletterci. Altro è insegnare puntando sui soli contenuti, altro insegnare mettendo in
luce l'organizzazione del sapere, le relazioni. Quella carenza di capacità di argomentare
di tanti giovani non dipende anche dalla carenza di attenzione alla dimensione relazionale
di manuali e insegnanti?
L'attenzione alle competenze è condivisibile, poiché hanno le caratteristiche della
trasferibilità e della strutturazione, e rimandano così all'organizzazione e quindi alla
dimensione relazionale. Una costruzione reticolare delle conoscenze come quella accennata
(rammentando che il paradigma della rete è diverso dal computer) mette in evidenza questo
aspetto, ben esemplificabile attraverso l'esempio della lettura: il testo è difficile da
confinare, vive, diceva Bachtin, in un tempo e uno spazio grande; e ha bisogno di tempo.
Importante riappropriarsi del tempo come risorsa (è favorevole a es. anche al tempo della
ricreazione computato come tempo scolastico nella scuola italiana, che invece è
criminalizzato dall'OCSE, poiché la pausa rende anche i rapporti col docente più
amichevoli, consente scambi).
Su questo concorda anche Paolo Jedlowski, che si dice d'accordo con Fano sulla funzione
prevalentemente persuasiva del linguaggio, di cui però molti sociologi non si rendono
conto.
Rispetto poi a come cautelare i giovane intornoal rischio di restare vittime
dell'incertezza, pensa che vada mostrata loro, con le graduazioni necessarie nelle diverse
età, l'utilità del dubbio, perché scoprirlo è importante: senza di esso non c'è
curiosità. Il nostro compito, condiviso da tutti i presenti, è sconfiggere il
relativismo, ma in modo critico.
Le ultime riflessioni riguardano il linguaggio: 1) parliamo sempre di quello verbale, ma
la nostra generazione è scarsamente preparata sui linguaggi audiovisivi., cui i giovani
sono più esposti e che sono molto asimmetrici (pochi emittenti, molti riceventi). Un
esempio possibile allora potrebbero essere i fumetti, esperibili da tutti, anche senza
particolari cognizioni tecniche. 2) Che relazione c'è fra il mondo attuale e la
difficoltà di argomentare? Molta, perché il linguaggio della pubblicità (per esempio)
di cui si è parlato sfrutta legami paralogici. Quanto a descrivere, anche questa
capacità si perde man mano e varrebbe la pena di ritornarvi.
(sintesi di Rossella D'Alfonso, Associazione Progetto per la scuola)
1 Questo, fra le altre cose, aveva contribuito a mostrare anche la relazione di Mioni
nell'incontro del 14/3/03 [N.d.R.].
2 uscito negli Stati Uniti nel 1984 e tradotto in Italia solo nel 1999 [N.d.R.].
3 Cfr. il suo ultimo libro sulla mente come teatro delle credenze soggettive.
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