Il conduttore sottolinea
il tema della dialettica fra certezza e incertezza come filo conduttore del
ciclo seminariale dello scorso anno e dei primi due incontri di quest’anno:
incertezza non solo dei saperi ma anche del loro apprendimento. Vanno ricercate
qui, attorno a questi problemi, le ragioni del malessere profondo sofferto
dalla scuola nel tempo presente.
Rispetto a questo, finora su questo tavolo si sono
confrontate due letture. Quella ottimistica (attribuibile tra gli altri a
S. Tagliagambe) vede nell’incertezza la condizione naturale con cui l’uomo
apprende, un processo efficacemente raffigurato attraverso la metafora della
rete. La visione pessimistica (in gran parte espressa dai dibattiti precedenti)
insiste affermando che i ragazzi, davanti all’”incertezza” critica e problematica
proposta dalla scuola, cercano la “certezza” lontano dalla scuola, là dove
è facile incontrare certezze assunte acriticamente, dogmaticamente. Spia di
questo atteggiamento sarebbe l’accentuazione dell’uso meramente funzionale
del linguaggio e il declino dei suoi caratteri referenziale e connotativo.
Anche l’insegnante soffre di questo “spaesamento” e va ad aggiungersi ai soggetti
che patiscono la crisi delle certezze.
Di fronte a queste diverse letture della complessità
del presente la domanda che sottende questo confronto è una domanda radicale:
questo orizzonte di incertezze è indice di una discontinuità epocale?
LA PROPOSTA DI ROBERTO MARAGLIANO (università di Roma 3)
E’ sua intenzione affrontare non sistematicamente
le sollecitazioni dei temi finora posti. Egli parte enunciando una tesi in
forma estrema: siamo in presenza di una profonda, radicale discontinuità.
Siamo davanti a qualcosa di paragonabile al passaggio che avvenne a partire
dal XV secolo, quando cominciò ad affermarsi la scrittura a stampa in sostituzione
della scrittura manuale. A sua volta questa discontinuità ha un precedente
cruciale nel passaggio, antichissimo, dalla cultura orale alla cultura scritta.
In cosa consiste, allora, la discontinuità epocale
che stiamo vivendo? Egli non fa riferimento alla rivoluzione di internet,
dal momento che a suo vedere internet si inscrive in una rivoluzione di lunga
durata che ha inizio alla fine dell’Ottocento: la vera e propria discontinuità
è rappresentata, essenzialmente, dalla riproduzione del suono. In precedenza
questa possibilità era stata evocata solo dai miti che attribuivano questa
esperienza esclusivamente agli dei o agli eventi soprannaturali. Il disco
fonico, la radio hanno sonorizzato il mondo: questo cessa di essere silenzioso,
il suono entra nella cultura, fa cultura. Emblematica è l’esperienza della
percezione musicale. La riproducibilità del suono nei salotti o mentre si
viaggia trasforma irreversibilmente, p. es. il nostro rapporto con la musica.
E’ sotto gli occhi di tutti l’’implicazione forse
più macroscopica di questo fenomeno. Il nuovo sistema percettivo e fruitorio
produce grandi effetti sulle nuove generazioni. Queste imparano quindi attraverso
il suono; nella pratica si radica un apprendimento attraverso l’udito che
soppianta quello visivo, fondamento delle tradizionali forme di apprendimento.
L’insegnamento delle lingue straniere risente in modo particolare di questa
egemonia “sonora”: esso fomenta la pratica dell’”immersione”, inconsueta per
l’ordinaria prassi didattica.
Avviene così un decentramento rispetto alla centralità
dell’insegnamento ed entra in crisi l’idea che l’apprendimento dipenda solo
dall’insegnamento. Anzi, si moltiplicano le esperienze in cui l’apprendimento
si realizza più compiutamente lontano dall’insegnamento. Il campo linguistico
è l’avanguardia di questa “diaspora”. Mai come in questo momento si investe
sull’educazione, sull’apprendimento, ma i “capitali” non si concentrano sulle
istituzioni che fino ad ieri ne avevano il monopolio: il learning ha la meglio
sul teaching, che è al suo servizio.
Questa diagnosi non implica necessariamente né una
valutazione pessimistica, né una valutazione ottimistica dei nuovi elementi
che risultano oggi fondamentali nell’apprendimento, le nuove conquiste tecnologico-mediatiche.
Certo è che il modello piagetiano, invalso per molto
tempo, appare troppo schematico. Maragliano condivide pertanto la critica
a Piaget mossa da Papert, un professore di matematica sudafricano che incontrò
Piaget e in una prima fase del suo lavoro cercò una soluzione cibernetica
alla teoria di Piaget: fabbricare cioè una macchina che accumulasse le proprie
conoscenze attraverso l’esperienza. La riuscita di questa impresa avrebbe
incontestabilmente dimostrato la supremazia del pensiero operatorio astratto
dando alla visione piagetiana un suggello formidabile. Ma l’impresa non gli
riuscì. Papert, deluso da questo insuccesso, andò negli USA ed diventò Lego-professor
(presso la ditta omonima) allo scopo di far ricerche sul rapporto che il computer
può avere rispetto all’apprendimento dei bambini. Egli, oggi, sostiene la
predominanza del pensiero operatorio concreto.
Questa intelligenza non è affatto in conflitto con l’intelligenza operatrice
astratta, né semplicemente la precede, ma ne diventa il presupposto e continua
ad affiancarla.
L’intelligenza concreta ha avuto, grazie alle nuove macchine, un grande sviluppo:
in particolare, attraverso la pratica della simulazione. Una teoria fisica,
ad esempio, trasformata in un software, riesce ad essere rivestita materialmente
mostrando “concretamente” le relazioni che enuncia. Insomma, l’intelligenza
si costruisce attraverso i ‘mattoncini’ sociali (scuola, consumi, giochi,
…) a cui noi aggiungiamo i link, le relazioni. La differenza pertanto consiste
in chi sa fare o in chi non sa fare questi collegamenti. Davanti a questo
scenario la scuola è tagliata fuori: lo indica il fatto che molti insegnanti
percepiscono questa età come declino, come caduta da un mitico tempo dell’oro.
Maragliano si dice preoccupato dal fatto che questa visione pessimistica può
tradursi in aggressività (dell’istituzione, non dei singoli) nei confronti
dei ragazzi. Questo è negativo poiché si mette in discussione non chi non
apprende, ma chi apprende altre cose e in altri modi.
La famigliarità che il ragazzo ha con la tecnologia
dipende dalla predominanza del pensiero logico-concreto: attraverso la navigazione
l’adolescente elude il sistema dei segni. Per questo l’adulto a scuola dovrebbe
apprendere il computer in modo non formale e comprenderne, invece, questa
intima ratio. L’idea di preparare gli insegnanti all’uso dei computer attraverso
l’apprendimento sistematico e formalistico significa esporre questa buona
intenzione al fallimento. Nel mondo del lavoro si punta molto invece sull’apprendimento
attraverso il gioco proprio per il carattere operatorio concreto che l’attività
ludica comporta.
La scuola, invece, pensa che tutto questo sia sbagliato,
che essa possieda la vera conoscenza, e per questa via va incontro al fallimento
delle sue finalità. La misura di questo divario è indicata da un esempio.
La scuola dice che i giovani leggono di meno, gli editori dicono che si legge
di più. La scuola iperverbale non ha futuro ed è condannata all’isolamento.
In questa scuola l’ingresso del computer potrebbe
essere un’opportunità importantissima; ma, se la scuola la affronterà come
se fosse una specializzazione da apprendere formalisticamente, avrà sprecato
questa occasione. Il computer non è uno strumento specialistico, ma una macchina
generica. Per esempio, è ingenuo credere, rispetto alla scrittura attraverso
il computer, che la riproduzione dei file sia un’operazione puramente meccanica,
l’esecutiva riproduzione di una copia. Ogni file è un originale.
In generale, la scuola deve riuscire ad andare incontro
ai saperi che i giovani apprendono fuori dalla scuola e deve, soprattutto,
saperli valutare. Anche il sistema di valutazione, se tende a verificare le
competenze di riproduzione corretta di ciò che è stato insegnato, va contro
al fallimento, sia come metodo, sia perché le verifiche sono solo individuali,
mentre nel mondo del lavoro è fondamentale l’efficienza del gruppo. E’ paradossale
che il taylorismo come dogma resista ancora solo nella scuola. Come rifondare
il sistema valutativo? Ecco alcune idee:
1) mettere in crisi la corrispondenza classe-materia-età;
2) valutare l’apprendimento attraverso il lavoro dei gruppi dando importanza
allo scambio, riconoscendo come si possa imparare vedendo e condividendo (metafora
della bottega);
3) usare più linguaggi.
LA PROPOSTA DI FELICE CARUGATI (università di Bologna)
Cosa c’è di nuovo nel mondo delle conoscenze
rispetto allo sviluppo delle abilità cognitive in rapporto alle varie fasce
d’età? Gli strumenti percettivi sono il risultato di una costruzione specifica
per ogni fase dello sviluppo psicologico: in particolare negli adolescenti
questo processo di costruzione rappresentativa è il prodotto della socializzazione,
cioè delle diverse tappe biografiche vissute nelle istituzioni scolastiche.
L’adolescente si costruisce un mondo filtrato da una molteplicità di punti
di vista. La grande capacità che viene riconosciuta ai bambini che sono passati
dalle scuole materne dove va a finire nel corso del tempo? I passaggi (materna,
elementare, …) implicano un arricchimento, una stabilizzazione, o una dissipazione
di queste capacità?
L’iter istituzionale sembrerebbe omogeneizzare: i
percorsi individuali mostrerebbero invece una distinzione, una individualizzazione.
La scuola produrrebbe differenza sia come effetto della socializzazione sia
come effetto di compensazione, ma la produzione di differenza ha un carattere
duplice. Assistiamo a ragazzi che entrano in condizione di svantaggio nella
scuola e che concludono migliorando la posizione di partenza, ma assistiamo
anche a casi inversi. Insomma, la scuola non solo produce differenza in positivo,
ma anche rischio. La scuola può fare molto male. Il percorso individuale è
dunque segnato in ogni caso profondamente dalla scuola, per cui dobbiamo essere
consapevoli di questa impronta.
Carugati non crede, allora, che siamo di fronte ad
un cambiamento dal punto di vista delle potenzialità strutturali dei nostri
adolescenti, non crede che siamo in presenza di un degrado del patrimonio
biologico della specie umana. Di più, ritiene inaccettabile l’idea, molto
diffusa nel mondo (fuori e dentro la scuola), che pone di fronte a un mal
posto aut aut: l’intelligenza è innata o acquisita?
La stessa biologia respinge l’idea che l’intelligenza abbia una sorta di carattere
innato. A fronte di questa tesi Carugati sostiene che non si può dimenticare
che i giovani vivono in condizioni in cui si apprende secondo modelli che
non sono quelli che corrispondono ai tradizionali modelli cognitivisti. Non
si deve credere che i processi operatori fondamentali sorgano dal nulla nelle
fasi di sviluppo corrispondenti. La capacità di compiere sillogismi, per esempio,
è presente fin dalla tenerissima età, cioè nella cosiddetta fase logico-intuitiva,
ma per favorirla e riconoscerla non teniamo conto delle strategie adeguate
e subiamo modelli d’insegnamento e di valutazione tradizionali che trascurano
le diversità qualitative delle varie fasi evolutive per non parlare delle
biografie individuali.
Non sempre chi conosce la logica sa trasferire i
procedimenti logici appresi nei nuovi contesti applicativi. Da Piaget in poi
questo processo è stato capito e, in qualche modo, smascherato. Bisogna che
chi insegna sappia decentrarsi e proporre un compito nei modi che corrispondano
alle aspettative e stili di chi deve apprendere.
Questo compito didattico è potenzialmente alla portata
di tutti. Infatti, il pensiero adulto, quello che esercitiamo nel quotidiano
non ragiona, per fortuna, secondo un modello logico-formale, verifica e non
falsifica le ipotesi: questo accade perché nel mondo la logica formale non
ci aiuta ad affrontare tutte le situazioni che esso ci pone. Ciò non significa
escludere l’insegnamento del “ragionamento logico”, ma invita a non aspirare
ad esso in modo esclusivo. Forse sarebbe sufficiente far elaborare ai ragazzi
procedimenti conoscitivi diversi a cui sono cognitivamente pronti.
A sostegno di questo, accenna alla propria esperienza
nelle scuole elementari e medie, per studiare e controllare se il modello
di insegnamento fosse coerente con lo scopo prefissato (l’apprendimento),
affinché non ci fossero interferenze (trappole semantiche o sintattiche che
possono rendere le richieste ambigue o caratterizzate dal punto di vista di
un solo stile cognitivo) col compito stabilito. Per il successo nell’esecuzione
di un compito, conta molto non solo cosa si chiede e rappresenta, ma come
lo si fa: a domande in un primo tempo inevase sono state fornite poi risposte
corrette una volta che sono state riformulate.
Anche all’università, le lacune che constata nei
suoi studenti non le attribuisce a lacune individuali ma ad incidenti di percorso
biografico. Troppo spesso essi non sono consapevoli del sapere “diverso” di
cui sono portatori e che non viene loro riconosciuto. E’ per ragioni sociali
che ritengono che il loro sapere sia svalutato: è un problema di autoriconoscimento,
e, di conseguenza, di rimessa in moto di biografie che si autodefiniscono
come incapacità.
Condivide anch’egli, perciò, la metafora della bottega
come proposta di un modello di apprendimento. Tra il mastro e l’apprendista
si instaura un rapporto che aiuta anche il mastro a diventare migliore. Si
instaura un rapporto in cui il beneficio è comune: conflitto dei punti di
vista, riconoscimento delle reciproche posizioni, uso delle diversità per
risolvere un compito non risolvibile da soli.
Infine osserva che nella scuola (anche nella famiglia)
assistiamo al conflitto tra la realtà adolescenziale e il ruolo della professione
studente. Come si può aiutare a superare questa contraddizione? Per il ragazzino
il sapere è un sottoprodotto della sua vita quotidiana: il suo problema è
invece come sta a scuola. Che senso ha questa sua vita? Sono queste le domande
che l’adolescente si pone.
La riforma universitaria, in questa ottica, è stata
una grande avventura. Lui e i suoi colleghi hanno dovuto affrontare la questione
didattica e questa frontiera ha fatto scaturire nel corpo docente risorse
nascoste.
IL DIBATTITO
Il dibattito si è sviluppato attorno
a due temi centrali: la sottolineatura delle difficoltà profonde che incontra
l’insegnamento, anche se la visione negativa espressa non è condivisa dalla
maggioranza, e il richiamo a forme di intelligenza e potenzialità cognitive
che andrebbero assolutamente valorizzate nella scuola italiana.
Per quanto riguarda il primo punto Sandra Grulli,
docente di italiano e latino in un liceo, sente l’esigenza di riflettere su
alcuni facili ottimismi relativi ai processi di apprendimento. E’ consapevole
che l’età dell’oro non è quella della scuola da lei frequentata, una generazione
fa, come studentessa. Riconosce la grande curiosità e la molteplicità di interessi
degli adolescenti in ingresso nel liceo, ma sottolinea anche che, qualche
anno dopo, questa vitale “caoticità” si è trasformata nel suo contrario: timore
dell’incertezza, paura a cercare i “link”, i ponti tra ambiti culturali “lontani”.
Questa situazione presenta compiti diversi per l’insegnante: da un lato bisogna
orientare la curiosità multidirezionale, aiutarla a trovare criteri di selezione,
dall’altra incoraggiare la navigazione in mare aperto.
Il quadro generale, quindi, non è catastrofico, ma
non nasconde elementi di preoccupazione. Lo conferma il problematico rapporto
tra giovani e libro. La lettura giovanile è in diminuzione anche se paradossalmente
le vendite sono in aumento: si compera ma non si legge (valutazione condivisa
anche da Massimo Manzoni, editore) e si sconta una rottura con l’età infantile
dove invece la lettura è in espansione.
Dialettico è stato anche l’intervento di Ivana Summa,
dirigente scolastica comandata all’IRRE, per la quale la separatezza della
scuola dalla società ne rappresenta il punto di forza e di debolezza ad un
tempo. Di forza perché consente alla scuola di non subire indiscriminatamente
tutti i processi sociali che si manifestano; di debolezza perché la tengono
lontana dai luoghi sempre più diffusi dell’apprendimento. Bisogna fare i conti,
quindi, con il problema di una nuova negoziazione didattica, problema segnalato
anche in sede OCSE.
In particolare, va considerata la centralità della
relazione tra coetanei, sulla scorta delle osservazioni di Felice Carugati
che ha ricordato quanto l’adolescente ritenga esistenzialmente prioritario
il rapporto tra compagni più che l’apprendimento di ciò che gli viene insegnato
a scuola.
Come esplorare a fondo un quadro che presenta questi aspetti così dialettici?
E’ stato questo il secondo tema del dibattito.
Stefano Capatti, ricercatore di sociologia, sottolinea
la diversità delle competenze cognitive esistenti tra gli indirizzi liceali
e quelli professionali. In quest’ultimo tipo di scuola vengono valorizzati
insegnamenti. di tipo manuale in un contesto che vede sacrificata la cultura
linguistico-letteraria. Molti di questi ragazzi diventano, nonostante queste
lacune, bravissimi tecnici. Come si chiama questa “incapacità” che riescono
a sviluppare?
E ancora: lavoratori di 45-50 anni, a rischio di
espulsione dal processo produttivo, hanno un sapere tacito, fatto di pratica,
un sapere che può essere trasferito, insegnato. Come si può chiamare questa
capacità? Gran parte di questo sapere, tuttavia, viene dissipato perché questi
lavoratori spesso non sono sufficientemente consapevoli della propria potenzialità.
Essi potrebbero insegnare ai neoassunti la loro “cultura”, ed evitare che
i giovani, in possesso di una grande potenzialità ad apprendere, debbano imparare
tutto da soli. Sarebbe socialmente molto vantaggioso risolvere questo problema
e per farlo occorre riconoscere il valore di questo sapere. Chiede spiegazione
su come definire questi saperi e come si potrebbe realizzare questo trasferimento
Maria Luisa Lolli, docente di lingua inglese in un
liceo, giudica prioritaria una riflessione sulle intelligenze multiple, e
su come questi ragazzi imparano. Sulla prima questione utili possono essere
Sternberg (benché un po’ schematico) e Gardner. Per quanto riguarda come gli
alunni apprendano importante è la riflessione di Johnson e Johnson sull’apprendimento
cooperativo. La scuola non è avulsa da questa ricerca e da questa pratica
didattica. La centralità del presente come prospettiva per conoscere il passato
si sta affermando.
Per Mario Pinotti, docente di storia e filosofia
in un liceo, il massimo sforzo deve essere dedicato alla comprensione dei
saperi di cui ha parlato Capatti. Il libro di Primo Levi, “La chiave a stella”,
mostra quanto “sapere generico” e non specialistico c’è nel fondo delle competenze
tecniche. Scoprire questo fondamento comporta scoprire l’”umanità” profonda
del sapere poietico. La stessa riflessione filosofica (Platone e Cartesio
per es.) hanno affidato all’allegoria ed alla metafora la rappresentazione
delle più elevate concettualizzazioni intellettive. E’ la via per capire quanto
i vari modelli di razionalità siano più vicini e, quindi, più intercomunicanti,
di quanto siamo soliti pensare. La ricerca in una direzione quindi (le intelligenze
operatorio concrete) non deve essere vissuta come una ricerca che escluda
l’intelligenza logico-formale (preoccupazione di Teresa Auddino), ma come
una ricerca che ne può svelare i limiti e la unilateralità e al tempo stesso
valorizzarne la fecondità irrinunciabile.
(sintesi di Mario Pinotti, Associazione Progetto per la scuola e Istituto
Storico Parri)
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