Il dibattito su questo problema ha visto contributi significativi
provenienti da aree disciplinari diverse, quella linguistico-letteraria,
relativa sia all’Italianistica, sia alle lingue straniere, quella storico
antropologica, quella matematico scientifica.
Ciò che è emerso in maniera decisiva sono stati alcuni criteri
fondamentali:
- il problema della storicità dei saperi e di come darne conto
nell’insegnamento non è appannaggio esclusivo delle discipline dell’area
così detta umanistica, ma investe tutte le scienze;
- allo stesso modo, anche la dimensione della sistematicità (paradigmi,
codici) innerva tutte le discipline, sia scientifiche (modelli, leggi,
regole, procedure, …) sia storico letterarie (si pensi all’educazione
linguistica);
- il ripensamento del canone muove in tutte le aree da una revisione
dell’epistemologia stessa sottesa a ciascuna disciplina e dalla
riflessione su quale sapere sia significativo oggi.
Ha introdotto il dibattito Rossella D’Alfonso (Liceo Scientifico Statale
Fermi di Bologna, Associazione Progetto per la Scuola): sul versante delle
materie linguistiche e storico-letterarie (ma non solo), occorre chiedersi
quale “canone”, quale tradizione cioè è possibile e opportuno proporre a
fronte di una rottura generazionale fra chi insegna e chi apprende che ad
alcuni studiosi appare non congiunturale, inerente a ciascun cambio di
generazione, ma più profonda, specifica dei nostri tempi, già intimamente
differente da quella della fine degli anni ’60 e degli anni Settanta del
XX secolo.
Globalizzazione, mescolanze etniche, crisi dell’eurocentrismo ed altri
eventi e situazioni di portata planetaria hanno modificato in modo deciso
l’immaginario, la percezione di sé nel paese, nell’Europa allargata e nel
mondo medesimo, e messo in crisi la tradizione
classico-cristiana-risorgimentale che aveva sorretto fin qui l’identità
nazionale e che ora deve ritrovare le proprie ragioni e la propria
validità nel dialogo con altre culture.
Ogni epoca di profonda trasformazione ha mostrato, nel passato, questa
necessità di rifondarsi. Si deve muovere allora dall’esame e dalla scelta
rigorosa di ciò che è fondamentale per ciascuna disciplina – ciò che
permane – dal punto di vista estetico, etico, strutturale, nonché da una
selezione fondata su una disamina impregiudicata di quanto è altrettanto
importante perché chi apprende impari a vivere più consapevolezza nel
tempo della sua vita, sia come individuo, sia come partecipe di una
comunità civile e politica.
(Vedi negli Approfondimenti
1: Rossella D’Alfonso, Criteri per un canone)
Andrea Battistini (Università di Bologna, Associazione Progetto per la
Scuola) parte dalla considerazione che un canone non è che una lista, che,
in assenza di problemi dati da cambiamenti culturali profondi, non si
mette in discussione: i problemi sorgono infatti quando c’è un trapasso di
paradigma che porta disorientamento e richiede la rifondazione di un
canone.
Nella fattispecie dell’italiano, questa disciplina subisce le
“aggressioni”, anche da campi vicini, come la letteratura comparata. Anche
questo aspetto rende molto delicata la questione della scelta.
Ma vediamo alcuni esempi esteri. In Gran Bretagna sono usati i sillabi,
con un elenco di quindici fra temi e autori, tra cui l’insegnante deve
sceglierne due; oltre a ciò, per il 25% del suo programma l’insegnante può
scegliere un suo percorso, ma l’esame verrà condotto sui sillabi canonici.
Per l’inglese, Shakespeare è ineludibile e viene suddiviso su tre anni,
secondo i generi; poi si studia, del ‘600, Milton o Dreiden o i poeti
metafisici. Questo sistema elimina però la storia letteraria, che l’Italia
invece ancora cura (ed è l’unico paese), provocando inoltre l’ignoranza
totale su tutto ciò che esula dagli argomenti scelti. L’insegnamento
dell’italiano è più centrato sulla cultura generale che sulla letteratura.
Per esempio, fra gli ultimi programmi si prevedevano lo studio dell’Italia
degli anni ’90, una regione, due film di Rosi, il Risorgimento, alcuni
libri (spesso poco significativi): fra i nove autori da studiare, accanto
a Dante (di cui bisogna segnalare quali 10 canti si leggeranno
dell’Inferno), figurano non solo Il giorno della civetta di Sciascia, Il
sentiero dei nidi di ragno di Calvino, quindici Racconti romani di
Moravia, ma anche la Bossi Fedrigotti. Il criterio di scelta pare poco
meditato.
Negli Stati Uniti vigono sillabi simili. Sul canone c’è anzi un dibattito
tanto acceso che si gioca sul termine e si chiama la discussione “can(n)onate”.
Nel corso degli anni si è passati qui da un canone eurocentrico a un
canone policentrico: sono presenti documenti tupamaro, testi dell’America
latina, dell’Africa; le scelte dipendono molto dalla posizione geografica
dello Stato: i più conservatori sono gli stati che si affacciano
sull’Atlantico, e questo è un fenomeno interessante anche per noi.
Veniamo all’Italia di oggi, che vede l’immigrazione, tanti altri
cambiamenti sociali e il mutamento del concetto stesso di letteratura.
Nella tradizione la scelta è stata operata fondamentalmente su un criterio
di ordine estetico. Oggi si sta cambiando direzione: la vita civile e
morale ha più importanza nelle scelte che si fanno, e questo è un fenomeno
cui assistiamo parallelamente negli U.S.A., dove la letteratura di
testimonianza è molto importante.
Questo induce:
- un superamento del canone desanctisiano, traduzione della dialettica
hegeliana (tesi, antitesi, sintesi) che dimenticava i conflitti e i
sommersi;
- una rivalutazione del canone tiraboschiano, che valorizzava scienza,
storiografia ecc.
In conclusione, pare capitale oggi adottare questi orientamenti:
- dare l’idea del conflitto sempre immanente al canone;
- evitare l’idea di valori assoluti (come ha fatto invece di recente Harold Bloom, Il canone occidentale, Milano, Bompiani, 1996);
- evitare l’altro estremo del decostruzionismo: si possono utilizzare le
sintesi dei manuali per il raccordo fra gli argomenti approfonditi;
- scegliere autori e opere secondo una valorizzazione non solo estetica ma
civile;
- far vedere il sistema dei generi legati all’evoluzione della società: in
una società aristocratica prevale la tragedia, in contrasto con generi
eversivi come la satira o con il romanzo tipico della società borghese;
- affidare il canone a una responsabilità condivisa: esso non può essere
tutto ‘autoritario’, dall’alto;
- in quest’ottica, le scelte del singolo insegnante sono fondamentali, ma
non devono essere né subite né fatte passivamente, costretti
dall’incalzare della fine dell’anno: vanno pensate organicamente e
sistematicamente. Il ricordo deve essere non mnéme (ricordo passivo e
acritico), ma anámnesis, ricordo selettivo;
- anche l’ampliamento ad altre letterature deve continuare ad avere come
perno la lingua madre.
(Vedi negli Approfondimenti
2: Andrea Battistini,Quali canoni)
Nella discussione sono intervenute Simonetta Vitali (Liceo Scientifico
Statale Fermi di Bologna), Paola Poluzzi (Liceo Scientifico Statale Fermi
di Bologna, Associazione Progetto per la Scuola), Cristina Vinci (Liceo
Scientifico Statale Fermi di Bologna, Associazione Progetto per la
Scuola): Vitali ha espresso il timore che una programmazione per moduli
che escludano la storia letteraria possa essere dispersiva e portarci
verso il modello inglese; Poluzzi mette in risalto un altro criterio di
cui tenere conto per la scelta dei contenuti: le possibilità di
collegamento con le altre discipline; Vinci dichiara che oggi per
l’inglese si procede per moduli, iniziando la letteratura all’incirca
nella terza classe superiore, ma curando sempre i raccordi, sia con altre
discipline, sia che per la cronologia.
Siamo davvero in un’epoca di transizione? – si chiede Vincenzo Fano
(Università di Urbino, Associazione Progetto per la Scuola): Kuhn ha
distinto fra momenti rivoluzionari e momenti ‘normali’ nella scienza, ma
S. Toulmin ha ribattuto che questi aspetti coesistono in ogni momento.
Siamo sempre in transizione, almeno per alcuni aspetti, mentre non ne
mettiamo in discussione altri.
In seconda battuta, la proposizione di un canone va fatta in relazione a
quello che c’è: e quel che c’è è una strutturazione della scuola superiore
che mette in cima alla gerarchia il liceo classico, per poi ‘discendere’
via via negli altri ordini. Già Gramsci, nei Quaderni dal carcere, pochi
anni dopo Gentile, parlava di un canone obsoleto. Se un tempo imparare il
greco e il latino significava imparare che è importante ciò che non ha un
uso immediato e quindi la progettazione del futuro si fondava sul fatto
che s’imparavano cose e valori validi per sempre, oggi i modelli civili di
allora non ci sono più: occorre piuttosto una cultura legata a una cultura
del mondo industriale (Gramsci insomma aveva ragione).
Un terzo problema che si sottolinea spesso è che i ragazzi non hanno senso
storico: ma storicità non vuol dire storicismo, bensì nella capacità di
collocare i fenomeni nel tempo che li ha visti nascere, svilupparsi,
essere recepiti, come è emerso anche negli incontri dello scorso anno
"L’incontro dei saperi e l’insegnamento della scuola"
(v. i materiali sui
siti: http://www.ilmulino.it e
http://web.tiscali.it/scuolaescrittura/ProgettoScuola ).
Il canone poi non deve essere pensato in termini di aut aut, ma piuttosto
orientato anche al piacere di chi impara e di chi insegna. Perché la
scelta sia organica, la centralità del curricolo va spostata da italiano e
matematica, attorno a cui è strutturato adesso, alla storia e alla
filosofia, per il loro valore fondativo.
(Vedi negli Approfondimenti
3: Vincenzo Fano, Platone, Nietzsche,
Gramsci e Einstein sul canone della scuola)
Luca Alessandrini (Istituto storico Parri Emilia Romagna, Associazione
Progetto per la Scuola) affronta i criteri che possono consentire la
selezione del canone storiografico (che influenza naturalmente tutte le
discipline ad esso collegate) :
- se la storia si occupa di società umane il primo ingrediente sono le
tipologie di relazione;
- se è vero che la distanza fra chi insegna e chi apprende oggi è molto
forte e dunque, di conseguenza, molto diversa è la storia, o la percezione
della storia vissuta dai due soggetti, bisogna scoprirla insieme, svelando
la struttura del sapere storico; come diceva Marina Mizzau (Le dinamiche
della comunicazione interpersonale), per scambiare bisogna rischiare: nel
nostro caso, rischiare significa svelare le proprie incertezze;
- c’è un altro campo in cui il sapere tradizionale risulta in crisi o
messo in crisi da chi vuole attribuire alla scuola una funzione
professionalizzante: ed è il rapporto col mondo produttivo, come pare
chiaro anche dal contributo di Fano. Ma rispetto a chi si dichiara
contrario alla scuola professionalizzante, obietta che lo sviluppo dei
saperi orientato alle professioni non va inteso in senso tecnicistico:
anche Gramsci, richiamato poc’anzi, parlava della necessità di una cultura
generale forte non immediatamente spendibile sul piano pratico;
- in questo il ruolo della storia è importantissimo, a patto di non
interpretare anche questa disciplina in senso tecnicistico (conoscere
tutti i dati). Oggi viviamo come occidentali una crisi profondissima
d’identità: poiché siamo senza futuro (per la crisi demografica, perché
tanti prodotti giapponesi o indiani sono meno costosi dei nostri ecc.),
siamo senza passato. Pertanto, la storia va ripensata e ancorata al mondo
postindustriale e non solo;
- rifare il canone significa confrontare ai 6000 morti del fascismo i
500.000 morti in Etiopia, e così via. Se la storia europea non dialoga col
resto del mondo non sa capirlo. Eppure questo è un bisogno intenso: basti
pensare che fino a dieci anni fa di storia si sapeva ben poco e scarso era
l’interesse; dal 1994 le videocassette di storia sono il prodotto più
venduto in quest’ambito. Cos’è accaduto? Il problema delle identità
nazionali alla ribalta, la guerra iugoslava e altri eventi analoghi hanno
mostrato la storia come luogo di recupero di criteri, anche banali o
banalizzati, di comprensione: non ci si rivolge più alla politologia, alla
filosofia, ad altri orizzonti, ma alla storia.
- Quale canone allora? Concordando con chi ha parlato prima, pensa che non
siano utili gli aut aut, ma che le scelte debbano essere condotte sui
criteri accennati: la storia deve rivelare la propria struttura
epistemologica; non ci si può attestare ancora su un punto di vista eurocentrico; bisogna dare la percezione dei tempi della storia, il che
equivale a dire che il tempo dev’essere riempito di significato.
- Quanto ai quadri di civiltà di cui si è molto discusso, non basta
definire quali, ma bisogna dire come devono essere fatti: devono infatti
evidenziare processi, così che si possano anche acquisire attraverso di
essi degli strumenti applicabili su un altro oggetto.
- La scelta deve tenere conto del fatto che il nostro orizzonte culturale
è mutato: nella globalizzazione, la relativizzazione dei fatti storici ne
cambia la nostra percezione: uno dei nodi dev’essere allora, per fare un
esempio, la dialettica fra Occidente (Occidente cristiano in particolare)
e Islam (e Sud del mondo); un altro nodo dev’essere la dialettica fra
mondo industriale e mondo postindustriale; un terzo nodo le dinamiche
sociali, il rapporto fra cittadino e società.
- Storicizzare assume allora il significato che tutti abbiamo
sottolineato. E questo corrisponde alla fine del mito della modernità e
del progresso, vivo dal ‘700 ma non più credibile né utile.
Nell’ambito della matematica la questione del canone è altrettanto
delicata, sostiene Fabrizio Monari (Liceo Scientifico Statale Fermi di
Bologna, Associazione Progetto per la Scuola, SISS dell’Università di
Bologna).
Se infatti pensiamo al canone come normatura, come lista, come insieme di
contenuti, regole e procedure, potremmo dire (anche provocatoriamente) che
per la discipline scientifiche il canone definito dalla riforma Gentile è
ancora attuale e praticato.
Ma se ci si colloca invece nella dimensione del cittadino, di un sapere
che consideri la propria funzione civile, si impone oggi un
riavvicinamento al reale, parola chiave talvolta utilizzata in maniera
inappropriata, che in questa situazione si rivela invece ineludibile.
Ad una possibile idea di canone si avvicina, secondo una impostazione che
in Italia stenta ad affermarsi, la nozione di “standard”: si tratta di un
concetto dinamico ma problematico. In effetti, anche a livello europeo, si
parla di standard relativi a un paese, a una regione, a un ordine di
scuola, a un singolo istituto, persino a un singolo corso. Perciò questo
concetto va ripensato ogni volta, rispetto all’ambito di riferimento.
Ne segue che quando parliamo di canone dobbiamo porci il problema di cosa
è essenziale, pur essendo coscienti che anche rispetto all’essenzialità
esiste un problema: non è data una volta per tutte. Criteri orientativi
per una scelta di nuclei fondanti possono essere il potenziale di sviluppo
delle capacità e delle competenze generali prima di tutto, quindi il
potere generativo in termini di conoscenze ed infine il grado di
certificabilità.
Negli anni recenti, il Piano Nazionale per l’Informatica e il Progetto ’92
sono stati significativi, in quanto andavano in tale direzione: in
particolare nell’Istruzione Professionale, pur con alterne fortune, si è
posto in evidenza come quella delle competenze minime in ambito
scientifico sia una “guerra di frontiera” che un paese moderno deve
vincere.
Le esperienze delle Scuole di Specializzazione e di gruppi di ricerca in
didattica della matematica documentano la necessità che la matematica non
sia concepita come addestramento, ma come disciplina in cui si formano
concetti, si comunica, si interpreta, si vive il dilemma fra noetica e
semiotica.
Le recenti proposte dell’UMI riconoscono appieno questo stato di cose e,
pur essendo molto avanzate, individuano puntualmente oggetti e processi
del sapere matematico, i nuclei attorno ai quali lavorare, abbandonando la
logica del “programma” a favore uno sviluppo del curricolo centrato sulle
operazioni cognitive.
(Vedi negli Approfondimenti
4: Fabrizio Monari, Il canone nelle materie
scientifiche)
APPROFONDIMENTI/1
CRITERI PER UN CANONE
di Rossella D’Alfonso
(Liceo Scientifico Statale Fermi di Bologna, Associazione Progetto per la
Scuola)
Nel momento in cui l’idea desanctisiana di cultura nazionale, con il suo
portato di un canone letterario orientato alla sua costruzione, ha perduto
la propria efficacia sul terreno sia culturale sia politico, quale
paradigma sostituirle? E’ ancora proponibile quella nozione, teleologica,
di storicità, sul piano del dibattito critico come nella sua mediazione
didattica? Che letteratura, arte, lingua, filosofia insegnare allora, se i
nostri interlocutori – le generazioni più giovani – paiono avulsi dalla
tradizione (cristiana e classica) nella quale sino a non molti anni fa
tutti ci si riconosceva? Secondo quale disegno costruire un nuovo modello
ed operare le scelte nell’insegnamento? Qual è la categoria di storicità
da recuperare?
A mostrare come la questione sia stata vera in ogni tempo ci soccorre, tra
i tanti esempi possibili, il prologo al De viris illustribus di San
Girolamo: nel momento in cui, nel IV secolo d.C., la cultura cristiana si
fa da minoritaria dominante, si assume il compito di darsi una tradizione,
per dimostrare la propria dignità a fronte della secolare cultura del
paganesimo antico, sforzandosi nel contempo di inserirsi in tale solco e
di sussumerla entro di sé; San Girolamo dichiara esplicitamente di rifarsi
a Svetonio, addita modelli pagani illustri (Cicerone) e meno illustri (Santra),
presenta un canone cristiano ricco di nomi che abbiamo dimenticato.
Quasi un millennio dopo, Dante sciorina, nel IV dell’Inferno e nel X del
Paradiso, le proprie auctoritates classiche e cristiane, mescolando i
poeti ai filosofi, i teologi ai sapienti di medicina e diritto. Un altro
canone, un’altra tradizione, questa volta a suggello di un’epoca che si
spegne.
Si potrebbe continuare all’infinito. Ogni volta che cambiano gli
obiettivi, o semplicemente le prospettive della cultura si presenta la
necessità di rifondare il sapere, e di conseguenza di rifondare il canone.
Il nuovo canone dichiara la propria tradizione e ne muta il concetto
stesso.
Di più, ogni epoca, ogni autore, ogni opera ed ogni fruitore hanno
ciascuno la propria tradizione: in un testo si possono leggere in
controluce altri testi, perché la memoria dell’artista ha operato scelte e
rifiuti; nella lettura le associazioni con altri testi, esperienze,
pensieri ed emozioni concorrono alla sua interpretazione non meno
dell’attenzione al testo stesso. E’ stata l’estetica della ricezione a
insegnarci che alla costruzione del sistema letterario (e culturale in
genere) concorrono anche, e sostanzialmente, le scelte interpretative, le
reazioni del pubblico, le condizioni della produzione, della circolazione
e della fruizione della cultura, e molte altre variabili. Esso è frutto
dell’intersezione di una pluralità di paradigmi e di tradizioni.
Storicizzare vorrà dire allora comprendere le diverse scelte entro il loro
tempo, chiedersi, anche con gli allievi, perché sono state compiute, porle
a confronto con il loro e nostro tempo.
Muovendo di qui sarà possibile scegliere un nuovo canone che aiuti a
ricostruire la loro e nostra identità, un canone sottoposto anch’esso alle
leggi del transeunte, che nell’organizzarsi attorno alle categorie
fondanti delle discipline sappia dunque tenere conto della significatività
per chi apprende degli argomenti scelti, e ripensare perciò radicalmente
la metodologia per insegnarli: abbandonare la mera trasmissione andrà a
vantaggio della costruzione progressiva e critica di un proprio sapere,
capace di interagire nel dialogo con gli altri e far sorgere le domande di
senso che spesso nei ragazzi restano inespresse.
[torna alla sintesi]
APPROFONDIMENTI/2
QUALI CANONI
di Andrea Battistini
(Dipartimento di Italianistica dell’Università di Bologna, Associazione
Progetto per la Scuola)
In una sede come la nostra Associazione Progetto per la Scuola, attenta in
modo particolare ai problemi della letteratura e alle loro estensioni
didattiche nel terreno vivo e concreto dell’esperienza scolastica, il mio
compito sarà soltanto quello di fornire un po’ di nomenclatura e di dare
conto di qualche esperienza desumibile dal canone vigente nei sistemi
didattici di altre nazioni, senza avere la pretesa, soprattutto da parte
mia che non ho competenze adeguate nel campo della scuola superiore, di
fornire un qualsivoglia insegnamento. Nel caso del canone, il dibattito ha
assunto tali proporzioni che, se per un verso rendono improba l’ambizione
di un discorso assolutamente originale, dall’altro richiedono una messa a
punto, una tassonomia che dia conto anche di ciò che avviene all’estero,
in vista di confronti sempre istruttivi da cui eventualmente trarre
ispirazione per nuove proposte da impiegare nella nostra scuola e nella
nostra università, oggi come non mai disorientate – con la sperimentazione
e con la ricerca di nuovi programmi – sul “che fare”.
Avanzando quindi per punti, senza velleità organiche, conviene intanto
esordire con una precisazione terminologica, secondo il monito del vecchio
Aristotele, per il quale prima di discutere di un concetto occorre
definirlo nel suo significato rigoroso. Nello specifico, è necessario
riportare subito il termine “canone” alla sua accezione propria e
originaria, dopo la notevole confusione che ultimamente si è creata,
direttamente proporzionale alla frequenza addirittura eccessiva con cui
nell’ultimo decennio se ne parla. Con una polisemia arbitraria che non
giova alla chiarezza del dibattito, alcuni fanno del canone un sinonimo di
“codice”, altri lo identificano con la “poetica”, altri ancora, già con
una migliore approssimazione, lo avvicinano alla nozione di “tradizione”.
Se però si risale, per non andare troppo lontano nel tempo se non nello
spazio, al modo in cui il termine è stato inteso di recente negli Stati
Uniti, vale a dire nel contesto culturale da cui la discussione sul canone
oggi proviene, dopo essere stata rilanciata fin dai primi anni Ottanta (in
Italia come spesso succede si arriva sempre un po’ più tardi), ci si
avvede facilmente che il “canone” è da riferire senza ombra di dubbio agli
aspetti che concernono direttamente la didattica, perché esso riguarda
propriamente il curriculum scolastico, il programma degli studi da seguire
nel percorso educativo. Senza equivoci in proposito è Harold Bloom, la cui
traduzione italiana del Canone occidentale ha contribuito a riaccendere la
polemica per il taglio molto angolato e personale dell’intervento. Ebbene,
per Bloom, di là da ogni sottigliezza, il canone è molto semplicemente
l’”elenco di libri per gli studi d’obbligo”, a riprova delle implicazioni
molto pratiche e concrete ad esso legate.(nota
1)
Finché la situazione culturale è statica, e si è calati in quello che
Thomas Kuhn chiamerebbe un paradigma normale, non si avverte il bisogno di
interrogarsi sul canone, accettato senza rovelli metadiscorsivi.
Viceversa, non è difficile dedurre che tanto più si è portati a discutere
del canone quanto più si vive in un momento di crisi e di disorientamento,
allorché dell’elenco dei testi legati ai programmi scolastici si soffre
l’insufficienza, sia perché quanto gli appartiene è sentito obsoleto, sia
perché se ne percepiscono assenze non più eludibili. Storicamente è sempre
capitato così: si pensi al riassetto operato da Dante con il De vulgari
eloquentia, alle dispute degli umanisti sul canone latino, con i fronti
opposti dei ciceroniani oltranzisti e di coloro che invocavano griglie
meno esclusive, alla scelta cinquecentesca dei modelli della lingua
letteraria, prima e dopo la codificazione vittoriosa di Bembo, al regesto
controriformistico della Bibliotheca selecta di Antonio Possevino, alle
insofferenze anticlassiche della cultura barocca, alle scelte antologiche
della terza parte della Perfetta poesia italiana, di nuovo rastremate da
un Muratori che detta il canone del “buon gusto” arcadico, alle maggiori
libertà pretese dal Romanticismo, e poi dalle avanguardie.
Anche oggi, se non ci sono riviste letterarie o convegni o libri o
giornali (quasi sempre, questi ultimi, con accenti fastidiosamente
scandalistici, come si è visto qualche mese fa con l’articolo di Pietro
Citati su “La Repubblica”, relativo al canone universitario di letteratura
italiana, appena riformato entro il nuovo sistema della laurea triennale)
che non vogliano esimersi dal dire la loro in merito al canone, è perché
si ha la coscienza del carattere inevitabile di una sua revisione,
connessa intimamente alla crisi che in primo luogo angustia l’insegnamento
della letteratura italiana, intaccata ed erosa nel suo statuto da altre
discipline specialistiche che ne sono derivate e che invece sono molto di
moda (si pensi soltanto alle Letterature comparate).
Non si tratta però di una miope difesa di settore, perché gli sforzi,
finora sempre vani, che si fanno per realizzare quella radicale riforma
scolastica tante volte auspicata e attesa ma mai portata a termine
producono delle ripercussioni che costringono ogni volta a rivedere il
canone degli autori della letteratura italiana. Oltre tutto, a indurre le
associazioni di insegnanti a intervenire quasi quotidianamente sono le
tante voci incontrollate e contraddittorie che giungono dal Ministero,
dove coloro che hanno in mano le sorti della scuola e dell’università
sembrano essere, si direbbe con una battuta, uomini e donne indecisi a
tutto. Una volta si apprende che occorre fare più spazio al Novecento,
un’altra volta arriva la voce che si deve incominciare la letteratura dal
Cinquecento; per una stagione all’università, con le nuove tabelle, la
letteratura italiana viene ridotta a una sola annualità anche per chi poi
la dovrà insegnare, per un’altra stagione, sulla scia del cosiddetto
rapporto Martinotti, la si promuove al rango di disciplina centrale
nell’anno di orientamento, sia pure con il rischio di una sua
liceizzazione. E ogni “rumore” comporta bradisismi o terremoti nella lista
dei testi da studiare, che si allunga o si accorcia con la facilità di una
fisarmonica suonata da un suonatore di capricci.
Perduta comunque la sua centralità nell’economia delle scienze umane, ove
l’uomo di lettere non è più il tradizionale maître à penser, rimpiazzato
in quest’ufficio da sociologi, da politologi o da semiologi tuttofare, la
letteratura italiana sa che il canone finora adottato, figlio di altre
esigenze e di altre situazioni culturali, deve essere cambiato, ma le
molte alternative che si pongono lasciano ancora il problema nell’àmbito
fluttuante della doxa, nell’attesa che si possa arrivare a un’episteme,
sperata, oltre che dalle metamorfosi in atto dei programmi scolastici,
dalla sensazione di essere arrivati alla conclusione di un’epoca, anzi,
per dirla con Ferroni, di trovarsi “dopo la fine”, in un tempo di
consuntivi, di ripensamenti, magari con la psicologia di chi, in linea con
quanto ha fatto Bloom, vorrebbe abbracciare con una sintesi un canone
complessivo, adeguato ai processi di globalizzazione cui ci stanno
abituando la politica e l’economia.
Naturalmente non può invece essere questa l’occasione per fare dei
cataloghi, ossia fornire un possibile esempio di canone, che sarebbe un
po’ come la grigia lista della spesa per lettori equiparabili per
competenza a uno chef. È meglio semmai ragionare sui criteri, sui metodi
possibili con cui organizzare un canone. E poiché il tema è per l’Italia
argomento alla moda, tanto diffuso da rischiare l’ovvietà, è forse più
conveniente, almeno in apertura, insistere di più sulla situazione fuori
d’Italia, cominciando, in una rapida sequenza logica, dal sistema inglese,
da cui comunque ha preso le mosse l’organizzazione canonica degli Stati
Uniti, per altro già più nota in Italia. In Inghilterra il canone viene
stilato partendo dal criterio dei “sillabi”, che sono dei sommari di corsi
di studio tra i quali l’insegnante deve scegliere. Se si esclude la
Scozia, che ha un sistema scolastico autonomo,(nota 2) gli esami che gli studenti
devono sostenere nelle età inferiori, a sette, undici e quattordici anni,
sono uguali per tutto il paese e naturalmente, per essere strettamente
vincolati ai sillabi, condizionano il tipo di preparazione impartito,
anche perché è abbastanza uniforme il tipo di domande formulate, alle
quali si risponde con prove soprattutto scritte in cui dapprima si deve
commentare il passo di un dramma, di una poesia o di un romanzo, poi si
deve intervenire su un aspetto specifico di un’opera del canone e infine
si è interrogati su questioni di natura critica. I programmi di lettura
sono quindi uniformi e disponibili in antologie recanti testi prescritti
dal governo centrale, essendo i relativi esami di carattere nazionale.
Localmente gli insegnanti possono insegnare canoni supplementari che si
aggiungono a quelli stabiliti.
I sillabi che devono essere seguiti dagli studenti più grandi, tra i
sedici e i diciotto anni, sono meno standardizzati, ma devono seguire
sempre uno schema governativo. Per ogni disciplina, e quindi anche per la
letteratura, vengono proposti vari percorsi possibili, tra cui gli
insegnanti possono scegliere, seguendoli però fedelmente, senza
contaminarli tra loro. Questa rigidità dei canoni fa parte della mentalità
anglosassone, ed è forse l’aspetto che più sconcerta in Italia dove,
stabilita una regola, si fa di tutto per inserirvi tutte le eccezioni
possibili. Shakespeare è il solo autore inglese che tutti gli studenti
della Gran Bretagna devono leggere e poiché questo canone è emigrato,
almeno nelle sue linee portanti, anche negli Stati Uniti, si capisce, di
là dalla sua oggettiva e indiscutibile importanza, perché Bloom ha fatto
di questo autore il fulcro di tutto il canone occidentale. Nella fascia di
età tra gli undici e i quattordici anni i ragazzi inglesi devono scegliere
un dramma tra il Giulio Cesare, il Sogno di una notte di mezza estate, il
Romeo e Giulietta. Per i giovani tra i quattordici e i sedici gli
insegnanti possono scegliere un altro dramma di un’altra lista nella quale
di solito viene preferito il Macbeth. Successivamente si può optare tra
Amleto, Otello e Coriolano.
Per gli altri autori si procede sempre con scelte alternative, per
esempio, relativamente alla poesia del Seicento, tra Milton, Dryden e i
poeti metafisici, letti antologicamente. Come si è accennato, è facoltà
degli insegnanti aggiungere, ma non sostituirli a quelli trasmessi dal
Ministero, materiali supplementari, per esempio sulla letteratura
americana. Di fatto però si seguono molto da vicino i sillabi ufficiali,
sia perché le parti liberamente integrative non devono superare il 25% del
programma totale, sia perché esse non formano comunque materia d’esame,
con il risultato che se gli insegnanti svolgono parti diverse, vengono
accusati dai genitori degli allievi di non prepararli adeguatamente su
quanto verranno effettivamente interrogati.
Ad analoghi principî si ispira il canone della letteratura italiana nel
sistema scolastico inglese, dove naturalmente l’italiano risulta lingua
straniera e quindi comporta anche un insegnamento non marginale di lingua
e di cultura generale. Di solito il programma ministeriale del corso di
“Italian–advanced level” destinato a ragazzi di diciassette-diciotto anni
prevede la scelta tra un totale di quindici sillabi, costituiti da sei
argomenti e nove autori. L’insegnante può scegliere o lo svolgimento di
due temi, oppure di un tema e un autore, oppure di due autori. I sei
argomenti sono: 1. L’Italia degli anni ’90: società, politica e economia;
2. Il Risorgimento; 3. Una regione italiana a scelta; 4. Il cinema
italiano: due film di Francesco Rosi (Cadaveri eccellenti, Tre fratelli);
5. Lo scrittore donna, con la scelta tra qualche testo di qualche
letterata; 6. La Commedia dell’arte: tradizione e attualità. I nove autori
sono: 1. Dante, dieci canti dell’Inferno (I, II, III, V, XII, XIII, XVIII,
XIX, XXXIII, XXXIV); 2. Sciascia, Il giorno della civetta; 3. Calvino,
Il
sentiero dei nidi di ragno; 4. Goldoni, Il ventaglio; 5. Bossi Fedrigotti,
Di buona famiglia; 6. Primo Levi, Se questo è un uomo; 7. Moravia,
quindici testi dei Racconti romani, già indicati nei programmi; 8. Pirandello,
Sei personaggi in cerca d’autore; 9. Tomasi di Lampedusa, Il
gattopardo. Nella sezione “argomenti” non ci sono fonti letterarie, se si
escludono alcune scrittrici e, nel sillabo sulla commedia dell’arte, Dario
Fo, a riprova di una sua canonicità all’estero che anche da questa minima
specola può spiegare il conferimento del recente Nobel. In compenso la
trattazione degli “argomenti” richiede la lettura di giornali e riviste
italiane e un libro di storia, P. Ginsborg (a cura di), Stato dell’Italia, Mondadori, Milano 1994.
Anche dalla semplice esposizione di questo programma si notano alcuni
caratteri che segnano una differenza fondamentale con l’Italia. In primo
luogo il canone nel sistema scolastico inglese è molto più rigido e
selettivo che da noi. Di Dante o di Moravia si devono leggere proprio quei
canti e quei racconti. La libertà consiste nella scelta da un ventaglio
alquanto divaricato, ma in questo modo si perde il senso storico delle
letture, non solo perché, tolti Dante e Goldoni, tutti gli altri autori
sono del Novecento, ma anche perché la drastica selezione di due soli
sillabi esclude le altre possibilità del canone. L’esempio dato è di per
sé molto parziale, trattandosi di un insegnamento che mira soprattutto a
fornire qualche infarinatura sulla più generale civiltà italiana, ma è
ugualmente indicativo della logica che lo ispira. Mentre lo storicismo
dota il canone italiano di un forte carattere inclusivo e istituzionale,
con un senso radicato della diacronia, in Gran Bretagna prevale il
criterio induttivo di mettere a fuoco un testo trascurando il contesto e
la creazione di una griglia sinottica entro cui orientarsi. Per questo non
è strano incontrare nelle università italiane studenti inglesi che magari
conoscono benissimo un canto di Dante o un romanzo di Calvino ma ignorano
completamente Petrarca o non hanno mai sentito parlare di Vittorini. E
anche nell’àmbito della letteratura inglese si è visto che la conoscenza
di Milton comporta di fatto l’oblio di Dryden o di John Donne. Per dirla
nei termini della nostra didattica universitaria, in Inghilterra il canone
si insegna dalla prospettiva dei corsi monografici, in Italia con
l’impostazione della parte istituzionale.
La specificità della situazione italiana è data dalla presenza del manuale
di storia letteraria, uno strumento che non esiste in Inghilterra e forse
in quasi nessun altro paese. Il suo impiego è oggi da alcuni vituperato al
punto da pretenderne l’abolizione, soprattutto per gli stereotipi di cui
il manuale si fa veicolo, diventando un ingombrante diaframma gonfio di
luoghi comuni che, interponendosi tra il lettore e il testo canonico, fa
perdere l’intima sostanza di quest’ultimo. Tuttavia il confronto con una
situazione in cui i capisaldi del canone sono affrontati senza il manuale
rivela in absentia la sua funzione di raccordare i vari testi. E sempre
dal riscontro fenomenologico si nota come la griglia prescrittiva del
canone, se per un verso limita la libertà e l’iniziativa degli insegnanti,
per un altro verso almeno li orienta, suggerisce loro qualcosa, non li
abbandona del tutto a se stessi, in un contesto di frustrazioni in cui non
è detto che il rinnovamento possa arrivare dal basso. Soprattutto,
sancisce il diritto di selezionare, rinuncia alla pretesa di non
tralasciare alcunché, in un horror vacui incompatibile con la riduzione
effettiva delle ore di lezione e con l’immissione prepotente di nuove
opere novecentesche nel canone, impensabili fino a trent’anni fa, allorché
nella scuola superiore non si andava mai più in là di Carducci o al
massimo di Pascoli, e non solo Calvino o Gadda erano del tutto
impensabili, ma perfino D’Annunzio, Pirandello e Svevo erano a mala pena
dei nomi.
Finché si presumeva che il canone fosse la somma di una lenta
sedimentazione di testi, il dibattito languiva, reso quasi superfluo dalla
possibilità di incrementarlo senza i traumi di dolorose esclusioni. Da
quando però ci si è resi conto che il canone, per quanto ambisca a essere
una totalità, comporta che “l’elezione di un oggetto alla fama perenne
spesso porta con sé la cancellazione di un altro oggetto”, (nota 3) la memoria
viene paradossalmente a non potere più fare a meno dell’oblio. (nota 4) Se poi il
ricordo viene sanzionato dall’alto, come nel mondo anglosassone, dove nel
caso inglese appena scorso si può scegliere tra Sciascia, Moravia, Primo
Levi, Bossi Fedrigotti, ma senza la possibilità di leggere a scuola
Pavese, Vittorini, Fenoglio, Tondelli e chissà quanti altri ancora, la
polemica diventa rovente, come è avvenuto negli Stati Uniti soprattutto a
livello di canone universitario, tanto che scherzosamente, partendo dal
termine “canone”, una nota e autorevole rivista americana di teoria della
letteratura, “New Literary History”, ha intitolato un suo fascicolo sul
canone (XXV, Summer 1994) “Canonade”, “cannonata”, “cannoneggiamento”. Lo
scontro è complicato da ragioni ideologiche e politiche che negli Stati
Uniti vedono fronteggiarsi, per schematizzare, una destra conservatrice in
genere legata alla cultura occidentale e una sinistra innovatrice più
sensibile al multiculturalismo e a quanto proviene dall’Asia, dall’Africa,
dal Sud America.
Hanno dunque pienamente ragione quanti sostengono che anche il canone è
una costruzione che specie nella cultura anglosassone si rifà non tanto,
come in un’Italia dove per lungo tempo la letteratura è andata a braccetto
con la retorica, a modelli di stile, quanto a valori di natura estetica,
morale, civile legati alle istituzioni sociali. In ogni caso esso è
soggetto al relativismo della storia anche se ha la presunzione che le
tavole della legge emanate siano assolute. L’attuale battaglia contro l’assolutizzazione
del canone mira appunto a non cancellare la diversità, soprattutto in
letteratura, che è per definizione il luogo della polisemia e delle
differenze. Aggiungerei perfino che la letteratura è positivamente impura,
o meglio ancora spugnosa, perché ha la vocazione di assorbire elementi
anche non letterari, essendo parte viva e forte di una cultura assunta
nella sua pluralità di campi e di esperienze, dove idee, domande,
inquietudini sono più fitte che in altre discipline. Diventa allora del
tutto legittimo l’appello caloroso di Romano Luperini, secondo cui la
letteratura non va studiata solo per ragioni professionali, in vista di
una conoscenza dei suoi canoni da conseguire attraverso mere competenze
tecniche, per altro indispensabili, ancorché insufficienti, ma anche e
soprattutto per il suo valore formativo e democratico, per l’abito critico
al quale essa educa con la complessità multidirezionale del suo codice. (nota 5)
Che oramai il canone della letteratura italiana non sia più da limitare ai
soli classici della nostra tradizione è confermato dalla situazione
americana, che può comprendere, insieme con gli Stati Uniti, il Canada.
Nelle università di questi paesi gli autori più studiati sono ancora
Dante, Petrarca e Boccaccio, con una conferma dell’interesse per
Machiavelli, Ariosto e Tasso. Nel contempo però si sta affermando
un’attenzione, in Italia pressoché inesistente, per le scritture femminili
del Cinquecento e per le autobiografie di mistiche. Esistono poi centri di
interesse localizzati per Marino e per il Barocco (a Toronto). Ma insieme
si nota un’esplosione di studi per Vico, molto superiore a quanto avviene
in Italia, dove Vico paga forse la colpa di essere considerato il padre
dello storicismo, anche se è certissimo che questa etichetta gli sta
troppo stretta. Sta progredendo, di là dall’occasione centenaria, la
risonanza di Leopardi, visto come rappresentante della cultura moderna,
anche in reazione alla moda oggi declinante del postmoderno. Del Novecento
sono ormai da considerare classici negli States D’Annunzio e Marinetti,
specie per quello che si è fatto e si fa a Yale, ma anche Gramsci, visto
che a Notre Dame esiste un’attiva International Gramsci Society. Italo
Calvino è il più letto e amato, ma accanto a questo scrittore tanto vicino
al mondo accademico si incontra nel canone dell’italianistica d’America
Dacia Maraini, frequentata naturalmente dalla critica femminista, come del
resto è avvenuto in Olanda. Un altro capitolo molto battuto è quello della
letteratura d’emigrazione e degli autori italoamericani, per i quali
esistono cattedre che si occupano esclusivamente di questo settore. Del
resto la letteratura d’emigrazione possiede ormai una sua identità
articolata in correnti e ricca di una bibliografia in espansione.
Tradotta nella cultura italiana, si può dire che questa attitudine riveli
il passaggio da un canone in cui la letteratura aveva un’accezione
umanistica o, nel peggiore dei casi, bellettristica, a un’accezione
antropologica, pronta ad accogliere anche la letteratura non letteraria.
Da questo punto di vista un antecedente oggi rivalutato è il canone che si
può trarre da Tiraboschi, dove figurano scienziati, storiografi, filosofi
e l’attività di accademie, biblioteche, università, musei. Le difficoltà
nascono evidentemente da un’estensione del canone che è diventato un
insieme pluralistico di un’organizzazione complessa. Proprio un
italianista, Ezio Raimondi, ha assegnato alla sua disciplina quale
obiettivo più adeguato a una critica veramente moderna quello
dell’”ampliamento di un canone, la creazione di nuovi modelli”, (nota 6) da
realizzare annettendo alla letteratura “le sue periferie in espansione”, (nota 7)
con una continua ridefinizione dei suoi territori, di cui la ricordata
letteratura d’emigrazione è un esempio probante anche in senso visivo e
spaziale perché nei suoi incroci internazionali sembra annunciare
l’avvento di una letteratura “nazionale-mondiale”. (nota 8) Si tratta però di
trovare strumenti adeguati che possano governare la politica aggregativa
disegnando mappe economiche. In questo senso un mezzo collaudato nella
prassi scolastica è l’antologia. Tuttavia lo scarso successo di cui in
America gode il genere dell’antologia, almeno quando il florilegio
riguarda l’italianistica, induce a dedicargli un piccolo supplemento di
riflessione, sempre in rapporto al nostro problema del canone.
L’antologia non è certo il solo veicolo che aiuta a costituire un canone:
ad esso andrebbero aggiunti per lo meno le riviste e i giornali, le
accademie, i premi letterari, le collane di classici, da quella di Laterza
di cui discussero insieme, ai primi del Novecento, Croce e Serra, agli
attuali Meridiani, per il nostro secolo. Ciò non toglie che anche
l’antologia abbia un ruolo spesso decisivo nell’imporre un canone: si
pensi all’opera del già ricordato Muratori per l’Arcadia, o, per il
Novecento, alla raccolta dei Lirici nuovi dovuta ad Anceschi o dei
Novissimi curata da Alfredo Giuliani, per non dire delle imprese di Sanguineti, Fortini, Mengaldo. Nella scuola la fortuna dell’antologia ha
vissuto nel dopoguerra due fasi molto diverse, sempre che si continui a
ragionare a grandi linee, perché dapprima il suo ruolo è stato ancillare
rispetto ai manuali di storia della letteratura, poi è divenuto
preponderante. Fino agli anni Sessanta la letteratura italiana si faceva
quasi soltanto sul manuale, mentre l’antologia era tutt’al più fatta
leggere a casa, quasi mai senza guida. Aveva una funzione complementare e
solo contenutistica, senza analisi stilistiche, perfino quando, come nel
caso dei volumi curati da Luigi Russo per la Sansoni, tra i suoi curatori
figurava un maestro della critica stilistica italiana come è stato Mario
Fubini. Dagli anni Settanta, a séguito della diffusione nella scuola dei
metodi formalistici, strutturalistici e narratologici, si è avuto un
richiamo molto cogente a favore di un ritorno alla lettura diretta dei
testi, e le antologie per le scuole si sono arricchite di note anche
stilistiche, guide alla lettura e molti apparati che utilizzano i metodi
della semiotica. La svolta nella storia dei testi scolastici è ravvisabile
nell’apparizione del Materiale e l’immaginario di Ceserani e De Federicis
(1979).
Un limite generale delle antologie scolastiche di oggi è che finora non
hanno il coraggio della scelta, non sono equiparabili ai “sillabi” del
sistema anglosassone, vorrebbero dare e dire tutto, offrendo un materiale
sovrabbondante che disorienta proprio in quanto, come si è visto, la
giurisdizione della letteratura italiana ha annesso tanti territori fino a
poco tempo fa impensabili. Rispetto a tutto ciò una soluzione da meditare
è quella di canoni multipli tra cui l’insegnante è chiamato a operare una
scelta, perché in questo modo il percorso didattico possiede una sua
flessibilità, consentendo delle libertà che dovrebbero però essere
organiche, evitando nel contempo, grazie all’indicazione di qualche punto
di riferimento, la grande incertezza in cui ci si trova oggi, in un giusto
mezzo che evita sia l’autoritarismo sia l’anarchia di un tutto
indifferenziato. Rimane da affrontare, e lo vedremo più avanti, il
problema di un canone comunque molto selezionato che taglia fuori molti
altri percorsi possibili, perché il criterio è in questo caso quello
alternativo e non cumulativo, dovendosi procedere non già per sommatoria,
ma per sostituzione o per ridimensionamenti. Un possibile rimedio è una
più stretta cooperazione tra il momento analitico dell’antologia e il
momento sintetico del manuale di storia letteraria.
Su ciò è intervenuto molto di recente il già ricordato Luperini. (nota 9) Egli
nota che oltre Atlantico sono individuabili due posizioni intorno al
canone criticabili per ragioni opposte. Da una parte ci sono Harold Bloom
e George Steiner, che coltivano una prospettiva “neoplatonica”, credendo
che il canone si fondi sui valori eterni dell’arte, identificabili nel
modello occidentale, che viene pertanto assolutizzato, ignorandone il
legame sociale e i rapporti con il mercato. Dall’altra parte c’è il
decostruzionismo che, rifacendosi prima a Nietzsche e oggi a Derrida e a
Foucault, nega la possibilità dei valori canonici perché col sottolineare
l’irripetibilità dell’opera la vincola a una situazione immediata,
escludendo la possibilità di un sistema, di una organizzazione. Tutte e
due le posizioni trafugano al canone il carattere storico che gli
appartiene, pragmatico e relativo. In realtà anche negli Stati Uniti si è
creata una terza via diversa da quella dell’assolutizzazione o
dell’annientamento del canone, ed è proprio molto simile alla soluzione
proposta da Luperini, sostenitrice della relativizzazione e mobilità del
canone, nato “da un insieme di valori comuni – da affermare o da
contrapporre ad altri – che conservano comunque una durata nel tempo” da
cui deriva loro “un carattere storico e relativo e dei quali sarebbe
sbagliato sia pretendere l’eternità e la fissità sia ignorare l’esistenza”.
(nota 10)
È una posizione equilibrata da tenere in considerazione perché, come ha
rilevato uno studioso del mondo classico, bisognerebbe sempre avere
presente che il canone (nel suo caso quello antico) non deve più essere
soltanto sinonimo mummificato di grandezza, chiarezza, armonia,
magnanimità di propositi, stabilità, eternità, equilibrio, decoro,
semplicità, ma implica una relazione dialettica con i loro contrari, il
mutamento, la complessità, la molteplicità, la soggettività, l’assenza di
significati. (nota 11) Tuttavia, nell’attimo in cui non è più autoritario, il
canone non è più nemmeno rassicurante, perché si va verso una
pluralizzazione e quindi verso una serie aperta e molteplice di
significati derivata dall’erosione di uno statuto che da unico si è fatto
frammentario. Sul senso del continuo prevale il senso del discreto, della
discontinuità, sul senso del valore eterno vince il senso della
temporalità, con la conseguente frattura e polverizzazione dei sistemi di
valori. Non sarebbe allora inutile sottolineare che da tutto ciò discende
una maggiore responsabilità della scuola, che con i suoi insegnanti indica
gli autori e i testi, e addirittura i modi di lettura. Calato in una
dimensione problematica, in quanto pluralistica, il canone investe chi lo
deve configurare di impegni molto onerosi, certamente superiori al
prestigio sociale e ai corrispettivi economici goduti (si fa per dire)
dagli insegnanti.
Nel suo saggio già considerato Luperini, in disaccordo con quanti
vorrebbero eliminare dalla scuola il manuale di storia letteraria, affida
proprio a questo sussidio didattico il compito di illustrare anche i
conflitti tra i canoni in concorrenza, seguiti lungo un filo diacronico
ora continuo ora spezzato, ora costruito a tessere una trama ora
distrutto, come una tela di Penelope. In effetti i canoni sono un prodotto
dal mandato sempre provvisorio, riflesso di un particolare programma
educativo di una società e per questo di continuo modificati, per
adattarsi a esigenze sempre nuove. La prospettiva privilegiata viene
allora a essere la storia dei generi, dal cui punto di vista, che instaura
“organiche relazioni”, risaltano meglio sia i collegamenti sia i contrasti
interni. Si pensi solo al primato dell’epica e della tragedia, generi
storicamente aristocratici aventi protagonisti appartenenti alle classi
dominanti, all’interno di una società di corte di antico regime, dove
contestualmente si assiste all’emarginazione di generi più eversivi quali
la satira o la commedia. E nella società borghese a prevalere sarà il
genere del romanzo.
D’altra parte anche dall’America si è dato, con Alastair Fowler, lo stesso
suggerimento favorevole alla prospettiva dei generi letterari, che
consentono di raggruppare singoli testi in una tipologia più ampia, nel
cui confronto dialettico agevolato dalla relativa omogeneità possono
essere meglio individuati i casi migliori, utili anche, per l’interazione
che instaurano, ad allargare le maglie del sistema. Sicché alla fine anche
per Fowler “dei molti fattori che determinano il canone, il genere è di
sicuro tra i più decisivi”. (nota 12) Il suggerimento è interessante soprattutto
perché di solito le storie letterarie sono indifferenziate, impassibili,
senza sobbalzi o trasalimenti, con un teleologismo di ascendenza
idealistica. È nota, credo, la divertente definizione che Giorgio
Manganelli ha dato della Storia della letteratura italiana di De Sanctis,
ritenuto il “grande urbanista” della nostra italiana, il “sindaco che
vuole risanare, eletto e stimato da forze ordinatamente progressiste, che
vogliono conti chiari e niente bighelloni e puttane per le strade”. (nota 13)
Voleva dire che quella di De Sanctis è una storia hegeliana, dialettica,
unitaria, filosofica, sistematica, e probabilmente perfino melodrammatica,
come pensava Debenedetti. È tuttora la migliore che abbiamo, ma non si
presta a rappresentare il pluralismo dei canoni, le alternative e
l’agonismo, sacrificati in nome di una serrata unità letteraria che voleva
essere di conforto e di supporto all’unità politica da poco conquistata
dall’Italia.
Oggi semmai la situazione vorrebbe che ci si mettesse nella “prospettiva
dell’integrazione europea”, come non manca di avvertire di nuovo Luperini.
In verità l’esigenza “di superare la prospettiva esclusivamente
nazionale” (nota 14) non si deve solo a questa opportunità ma alla consapevolezza,
ribadita da Bloom, dell’esistenza di un canone occidentale tanto più
interagente nelle sue parti nel Novecento, allorché non è un’iperbole
sostenere che con la tecnologia il mondo è ormai diventato un villaggio
globale. E all’allargamento dei confini nazionali si è indotti dalla
mediazione che alla formazione del canone dispiegano i generi letterari,
le cui forme attraversano con leggerezza ogni barriera di lingua. Si può
ancora dubitare che Calvino sia più prossimo a Queneau o a Perec, a Conrad
o a Hemingway che a Gadda o a Cassola, o che Montale abbia un grado di
parentela maggiore con Eliot che con Ungaretti?
La conquista di una latitudine europea deve però comportare un
ridimensionamento anche drastico del canone italiano, almeno dal Seicento
in avanti. Una volta immesso Shakespeare ha ancora senso studiare il
nostro Della Valle? E che dire di Tassoni di fronte a Cervantes, o
Achillini davanti a John Donne, per non parlare della statura dei romanzi
di Chiari al cospetto di Prévost o di Laclos, o addirittura di Fielding,
di Sterne o di Richardson? Se non sembrasse di volere infierire, i piatti
della bilancia sarebbero a noi sfavorevoli anche in un parallelo tra
Fogazzaro e Proust, Tozzi e Dostoevskij, Giuseppe Raimondi e Valéry,
Vittorini e Dos Passos. Forse, che questi duelli a distanza siano
impietosi è confermato dal diverso stato di salute di una materia
tradizionale, la letteratura italiana, oggi piena di malanni, e di una
materia che solo da poco si è ricostituita con un assetto moderno, la
letteratura comparata, che invece ha la baldanza giovanile delle
discipline in crescita. Non bisogna però esagerare. Innanzitutto non si
possono accettare pretese egemoniche fondate quasi esclusivamente su
ragioni numeriche, come quelle di certi anglisti, per i quali la
comparatistica deve essere insegnata da loro perché oggi la lingua e la
cultura inglese sono quelle più esportate.
Se la si affronta in termini strettamente scientifici, questa posizione è
inaccettabile, perché la letteratura comparata deve essere centrata sulla
lingua e sulla cultura del paese in cui la materia viene insegnata. Di
conseguenza è giusto inserire nel canone italiano i grandi scrittori
dell’Occidente, ma solo quelli, e comunque in un disegno di storia
letteraria che mantiene il suo cardine nell’Italia, per cui, per fare un
esempio, a Cervantes si può fare posto, ma a un Gracián è da preferire un
Tesauro, come forse per noi un Marino rimane comunque più significativo di
Góngora. Oppure, per ritornare ai casi accennati, anche chi si occupa di
letteratura italiana non può più trascurare Proust, ma per comprendere
certi fenomeni di primo Novecento non si può nemmeno ignorare Fogazzaro,
anche se la sua arte non è pari a quella di taluni suoi contemporanei
europei. Di là da ogni storicismo si deve insomma conservare l’identità
delle proprie origini, e costituire un canone che da una parte non sia
chiuso ma che dall’altra sia costruito in prospettiva italiana.
Con una nuova tassonomia multinazionale del canone si riaffacciano però le
difficoltà dovute alla sovrabbondanza tante volte affioranti in questo mio
intervento. Nuovi vettori hanno smisuratamente ingrandito il perimetro
della letteratura italiana, sia per lo sguardo che non può più essere solo
nazionale, sia per il nuovo spazio accordato alle sue testimonianze
periferiche, sia ancora per un asse temporale che esige un’udienza sempre
maggiore del presente. Il vero problema per il Novecento non è tanto
quello di una distanza troppo breve per vedere con chiarezza gli autori da
canonizzare, quanto il compito di mettere ordine in un magma che Bloom ha
giudicato un’”età caotica”, la cui entropia deve non poco allo smarrimento
riassunto da Giulio Ferroni nei termini di “angoscia della quantità”. (nota 15)
Oltre tutto, pur riconoscendo uno spostamento a favore del nostro secolo,
l’operazione aggiuntiva non può essere automatica, perché occorre
ripensare dalle fondamenta l’intero sistema letterario, non foss’altro per
la ragione banalmente pratica di dovere conciliare nei programmi
scolastici queste esigenze così ampliate con i tempi dell’insegnamento,
che sono rimasti gli stessi, quando addirittura non si sono ristretti.
In questa situazione complessa, si prospettano in chiusura alcune proposte
che cercano di tenere conto anche di come si stanno comportando gli altri
paesi. Alla luce di queste esperienze, si potrebbero proporre programmi
con canoni plurimi e alternativi. All’insegnante spetterebbe la scelta di
percorsi di letture per blocchi rappresentativi ma realisticamente
ridotti. Per ovviare all’inconveniente delle lacune rappresentate dai
testi omessi, può essere reintrodotto il manuale di storia letteraria per
collegare o suturare gli interstizi tra un testo e l’altro, lungo moduli
costruiti per generi, ma anche per poetiche, per movimenti. La storia
della letteratura va però organizzata in modo non anodino e
indifferenziato, ma funzionale ai blocchi dei testi canonici che si
vengono studiando, adeguandola a ogni tipo di percorso e di letture. Per
evitare che lo studente possa credere che il canone svolto abbia un valore
unico e assoluto, occorre che i conflitti che storicamente sono sempre
sottesi alla formazione dei diversi canoni non siano più ristretti alla
pertinenza degli addetti, ma presentati in modo problematico agli stessi
studenti. In questo modo è forse possibile inculcare il senso del valore
sempre relativo dei canoni, dovuto anche all’intervento di un tipo di
memoria diverso da quello fino a oggi impiegato nella nostra scuola,
almeno nelle intenzioni di chi ha preparato i canoni.
Secondo Aristotele esistono due forme di memoria, la “mneme” e l’”anamnesis”.
La prima è totalizzante e ricorda tutto, in modo passivo e patologico, con
un nevrotico processo di addendi sempre sommati; l’anamnesis invece è
processo attivo, con cui si compie una ricerca, attraverso un lavoro di
selezione e di ricostruzione. Sembra essere venuto il momento di stabilire
un nuovo canone secondo una memoria attiva, e in quanto tale non
indifferenziata. Si tratta di un filtro che per la storia della
letteratura italiana oggi risulta per un verso indispensabile, ma per un
altro verso più realizzabile che nel passato. Esso è più necessario che
mai perché il cumulo dei dati, la vocazione comparatistica e
interdisciplinare esigono una sintesi, che nell’arcipelago dell’italianistica
spetta alla disciplina più ampia; è più facile da mettere in atto perché
oggi esistono tante discipline che almeno nell’università sono diventate
autonome, dalla filologia dantesca alla letteratura medievale e
umanistica, dalla letteratura del Rinascimento alla letteratura teatrale
italiana, dalla letteratura italiana moderna e contemporanea alla storia
della critica, ecc. Si possono così istituire dei canoni più capillari e
specifici dell’area cronologica, da spendere magari con il nuovo sistema
dei crediti formativi appena introdotto anche in Italia.
Sul piano pratico l’insegnamento giunge di nuovo da Aristotele, il quale
nell’Etica nicomachea compie per l’appunto un significativo ricupero
etimologico della parola “canone”, che viene dal greco “canòn”, e vuol
dire “canna”, “regolo”, “unità di misura”. Ora, già in Aristotele è molto
chiaro il valore relativo del canone, da lui espresso con l’introduzione
del concetto di “conveniente”, con cui “correggere la legge là dove essa è
insufficiente a causa del suo esprimersi in universale”. E con molta
congruenza il maestro di color che sanno soggiungeva che “di ciò che è
indeterminato, anche la norma deve essere indeterminata, come è il regolo
di piombo che si usa nell’edilizia di Lesbo: esso infatti si piega alla
forma della pietra e non rimane rigido” (Eth. Nic., V, 10, 1137 a-b). Il
canone è costruzione umana, flessibile e mutevole nel tempo, espressione
di valori sociali relativi al periodo storico in cui viene formulato.
Allora, siamo rivoluzionari fino in fondo: ritorniamo alla lezione di
Aristotele.
[torna alla sintesi]
APPROFONDIMENTI/3
PLATONE, NIETZSCHE, GRAMSCI E EINSTEIN SUL CANONE DELLA SCUOLA
di Vincenzo Fano
(Istituto di Filosofia dell’Università di Urbino, Associazione Progetto
per la Scuola)
v.fano@uniurb.it
Nella Repubblica di Platone, poco dopo l’allegoria della “caverna”, si
riprende a discutere dell’educazione dei custodi (nota 16). E’ importante che i
giovani destinati al governo vengano sottoposti a ciò che non si presenta
come univoco, ma a ciò che stimola il contrario. Così l’uno si contrappone
naturalmente ai molti, e quindi, parlando di numeri si viene educati
nell’arte dialettica, che è fondamento della filosofia. Perciò
l’aritmetica e anche la geometria hanno non solo un valore pratico, ma
anche fanno sì che l’anima si sollevi dalla sensibilità verso l’intuizione
delle idee. La matematica, dunque, è la prima disciplina che educa al
Bene, inteso come ciò che illumina la vera realtà al di là delle apparenze
sensibili.
Lo stesso problema si pone Antonio Gramsci nel 1932, in un bel passo dei
Quaderni (nota 17). Egli nota come per formare degli intellettuali (i nuovi
custodi?) bisogna essere educati a stare molte ore a tavolino, occorre
comprendere che cosa sia un processo storico, bisogna imparare qualcosa in
modo disinteressato, senza pensare alla sua applicazione (nota 18), qualcosa che
fornisca anche esempi di azione virtuosa. Tutto questo nella Scuola
italiana è stato reso possibile mediante l’educazione classica, cioè lo
studio del greco e del latino. Attraverso l’apprendimento di queste
lingue, i discenti imparavano un metodo e una disciplina e soprattutto
diventavano capaci di andare al di là della loro quotidianità, per così
dire, si elevavano rispetto all’immediata applicazione. Però, prosegue Gramsci, questo modello è in crisi, per il fatto che con la Rivoluzione
industriale e la società della tecnica il paradigma greco-romano ha valore
di modello etico solo per la classe borghese che dirige i tecnici senza
sapere nulla di tecnica (nota 19).
Effettivamente nell’azione consapevole e democratica non possiamo certo
imparare da Leonida e Pericle, in quanto viviamo in un mondo che è
profondamente diverso dal loro. Ancora Goethe alla fine del Settecento
aveva uno stile di vita che poteva essere confrontato con quello di
Socrate, ma gli ultimi duecento anni hanno cambiato profondamente la
società.
Inoltre, per comprendere la formazione del canone della Scuola nel nostro
Paese non dobbiamo dimenticare la questione della lingua italiana, posta
da Francesco De Sanctis, primo ministro dell’istruzione dell’Italia unita.
La lingua dei Promessi sposi allora era parlata da forse non più del 5%
degli italiani. Però, come ben sappiamo, da questo punto di vista la
televisione ha potuto più del celebre romanzo.
Ecco il canone della nostra scuola: la matematica, il greco e il latino,
la lingua italiana.
A questo s’aggiunge la Filosofia, che nella riforma Gentile (nota 20) del 1923
rappresenta il culmine del sapere. Eccentricità italiana - in nessun altro
paese del mondo parecchie migliaia di studiosi possono guadagnarsi da
vivere studiando e insegnando filosofia nelle scuole secondarie - che non
posso che benedire in quanto docente di filosofia. Essa è comunque stata
in parte moderata dai successivi interventi legislativi.
Tutto questo era in crisi nel 1932, quando scriveva Gramsci, ed è in crisi
ancora oggi, poiché non si è costituito un canone alternativo. L’autore
dei Quaderni aveva in effetti avvertito che sarebbe stato molto difficile
trovare un nuovo paradigma.
Spesso si dice che siamo in una fase di transizione, che siamo in un’epoca
rivoluzionaria, che sfocerà in un nuovo assestamento del sapere. Non credo
molto alla distinzione fra fasi rivoluzionarie e fasi statiche. Certo ci
sono momenti che rappresentano dei veri e propri salti, ma essi sono
preceduti da un lungo periodo di preparazione. Immaginiamo una corda che
ha una portata di due tonnellate, alla quale appendiamo dei pesetti di un
grammo uno alla volta. Certo sarà il duemilionieunesimo pesetto che
provocherà la rottura; ma questa non sarebbe certo avvenuta senza i
precedenti duemilioni di pesetti. Senza contare che qualcosa che da un
certo punto di vista è una rivoluzione, da un altro è perfettamente
continuo, come notava l’epistemologo Stephen Toulmin (nota 21) criticando il punto
di vista di Thomas Kuhn.
Il problema non è che siamo in un periodo di transizione, ma che dopo la
rivoluzione industriale e l’avvento della società di massa, caratterizzata
oltretutto dalla multiculturalità, non è certo possibile scrivere delle
nuove “tavole della legge”. Occorre invece accettare, con una bella
metafora di Nietzsche, delle tavole scritte solo per metà (nota 22).
Questo l’aveva già chiaro Giovanni Papini, quando, nel 1914, nel suo bell’articolo
provocatorio “Chiudiamo le scuole” (nota 23), denunciava i danni educativi di una
scuola gesuitica, coercitiva e ripetitiva. E, dopo la riforma Gentile,
Piero Gobetti si scagliava contro un’organizzazione della scuola
illiberale e classista, “La scuola delle padrone, dei servi, dei
cortigiani” (nota 24).
Al centro di una Scuola per una società dominata dalla scienza e dalla
tecnologia, democratica e multiculturale, non può esserci un canone
altamente formale, basato sulla matematica e le lingue antiche. Dobbiamo
accettare che attraverso la scuola non si sviluppi tanto un processo di
formazione, accanto a quello ineludibile di informazione o istruzione, ma
un progetto di liberazione. Lo studente deve perdere quel fare dogmatico e
irriflesso tipico dell’infanzia e dell’adolescenza. Per questo la scuola
deve essere pubblica, proprio per garantire all’individuo di ricevere
un’educazione aperta alla pluralità. Molti liberali dei nostri giorni
difendono il diritto delle famiglie a educare i loro figli come meglio
credono. E io mi chiedo chi difende questi figli da un’educazione
illiberale e di parte?
La scienza è dubbio, valutazione di diverse possibilità, rimessa in
discussione. La democrazia è tenere sempre conto dei punti di vista degli
altri e avviare processi politici di decisione collettiva per determinare
quali siano i fini che vale la pena perseguire. La multiculturalità è
capacità di far dialogare i propri ineliminabili pregiudizi con quelli
degli altri. La Scuola, oltre a istruire deve liberare gli individui, in
modo da metterli in grado di affrontare questi difficili compiti.
Fin qui abbiamo detto cosa non possono essere le nuove tavole; occorre
anche qualcosa in positivo; benché le nuove tavole siano scritte solo per
metà, esse non sono comunque del tutto vuote.
Per prima cosa occorre dire che la distinzione fra ciò che è canonico e
ciò che non lo è non è netta, ma di grado. Ad esempio, nel progetto di
riforma dei programmi proposto dalla commissione Brocca, spesso si possono
individuare alternative equivalenti. Un ottimo esempio è quello del
programma di Filosofia della terza liceo, nel quale Platone e Aristotele
sono autori imprescindibili, mentre per il resto il docente può scegliere
di sviluppare il pensiero presocratico, oppure il pensiero ellenistico,
oppure il pensiero medievale.
Resta poi aperto il problema del processo storico. Secondo Gramsci, lo
studio del latino consentiva al discente di vedere un intero sviluppo, una
lingua ormai morta, che dalle Dodici Tavole ad Amiano Marcellino si
concludeva, con le sue fasi e i suoi risultati. Questo può essere un
paradigma per una visione teleologica della storia. Dobbiamo invece
affrontare il problema invertendo la prospettiva.
Il processo storico lo cogliamo solo alla fine, guardandoci all’indietro
verso ciò che è accaduto.
Questa è la nozione darwiniana di evoluzione, in accordo con la quale il
batterio non sa che diventerà uomo, mentre l’uomo sa che è stato batterio.
Allora storicizzare non significa prendere le mosse dall’antichità e
arrivare ai giorni nostri, ma, viceversa, imparare a considerare tutto ciò
che ci circonda come il risultato (nota 25) di un processo in cui hanno agito il
caso e la progettualità umana. In questo modo il discente comincia a
sollevarsi dalla quotidianità; come diceva Platone “percepisce il
contrario”. Ad esempio, la città in cui vive è strutturata in un certo
modo, ma, egli si rende conto che avrebbe potuto anche essere molto
diversa. Inizia così il suo rapporto dialettico con la realtà. Dunque la
storia.
Tuttavia, come giustamente affermava Nietzsche (nota 26), non tanto la storia
monumentale, che raccoglie le grandi imprese del passato, per portarle
come esempi all’uomo d’oggi, né la storia archeologica, meticolosa
ricostruzione del passato fine a se stessa, che porta alla formazione di
vere e proprie “enciclopedie ambulanti” incapaci di agire, perché
sopraffatte dalla sensazione che tutto sia già accaduto, quanto la storia
critica, che mostra gli errori del passato; condizione non certo
sufficiente affinché essi non si ripetano nel futuro, ma quantomeno
necessaria. In questo modo la storia diventa anche paradigma morale.
Soprattutto la storia contemporanea, che finalmente abbiamo cominciato a
studiare nella Scuola dopo la riforma dei programmi di storia promulgata
da Berlinguer.
L’altro punto sottolineato da Gramsci è quello del sollevarsi
definitivamente al di là del quotidiano studiando qualcosa che abbia
significato per sé stesso. Con buona pace di Platone e degli umanisti, che
non avevano ancora visto la seconda rivoluzione industriale, probabilmente
la disciplina che può svolgere meglio questo ruolo è lo studio delle leggi
della fisica. Nella nostra Scuola, purtroppo, chi insegna fisica è quasi
sempre laureato in matematica e quindi ha appreso una concezione
grammaticale o formale di quella materia. Mi è capitato di entrare in una
quarta liceo scientifico, che stava studiando con l’insegnante di fisica
la termodinamica, e nessuno studente aveva pensato che il frigorifero, che
troneggia nelle loro cucine, è una macchina termica!
Le leggi fisiche non valgono nella realtà e gli ingegneri non costruiscono
le nostre automobili e i nostri calcolatori utilizzandole, ma senza di
esse nessuno avrebbe mai pensato che queste apparecchiature fossero
realizzabili. E’ vero che Guglielmo Marconi quando inventò la radio non
era laureato, ma solo la concezione altamente astratta implicita nelle
equazioni dell’elettromagnetismo messe a punto da Maxwell trenta anni
prima, poteva far pensare al giovane inventore bolognese che fosse
possibile spedire delle onde da un luogo all’altro dell’atmosfera alla
velocità della luce.
Le leggi della fisica non serviranno allo studente nel suo lavoro, anche
se andrà a fare l’ingegnere, ma gli insegneranno che questa realtà, così
complessa e disordinata, non esaurisce la nostra conoscenza. Esistono
infatti delle entità a noi invisibili, che hanno proprietà straordinarie.
Scoprire che esistono onde elettromagnetiche non visibili, che la materia
è fatta di atomi e che questi, a loro volta sono costituiti di elettroni e
nuclei, e che questi nuclei possono produrre quantità immense di energia,
questa è una vera e propria uscita dalla “caverna” di Platone, benché
parziale. Einstein non è meno importante di Omero, nell’aiutarci a educare
i nostri ragazzi.
Dunque non più una scuola in cui il canone sia dato dalle lingue antiche e
dalla matematica, né dalla filosofia, come voleva Gentile, o dalla lingua
italiana come desiderava De Sanctis, ma dalla storia critica e dalle leggi
della fisica.
[torna alla sintesi]
APPROFONDIMENTI/4
IL CANONE NELLE MATERIE SCIENTIFICHE
di Fabrizio Monari
(Liceo Scientifico Statale Fermi di Bologna, Associazione Progetto per la
Scuola, SISS dell’Università di Bologna)
Nell’ambito delle materie scientifiche, ed in particolare della
matematica, la questione di un possibile “canone” è altrettanto delicata.
Se infatti pensiamo al canone come normatura, come lista, come insieme di
contenuti, regole e procedure (e non è, si badi, l’unica possibile lettura
del termine), potremmo dire che per la matematica il “canone”, per tutti
gli aspetti precedenti ma anche in senso epistemologico, è tuttora quello
definito dalla Riforma Gentile, lontana nel tempo, ma ancora vissuta e
partecipata. Pur cercando di evitare eccessive semplificazioni, mi sembra
che la scuola italiana, nel suo complesso, rappresenti in maniera adeguata
un sistema in cui la “separazione delle culture” ha trovato una solida
sistemazione.
Nell’immaginario collettivo, la matematica e le scienze sono ancora
confinate nella sfera in cui agisce, perdonate la provocazione, il
vituperato e prosaico “esprit de géometrie”, qualcosa per predestinati,
gente dagli occhiali spessi e l’andare trasandato. Nulla, dunque, che
possa far parte dell’esperienza umana, in termini di possibilità di
formare, comunicare, valutare e modificare elementi di sapere.
Il “credito sociale” si forma indipendentemente dalle conoscenze
scientifiche, che vengono ancora percepite (perdonate la semplificazione,
ma i fatti sono questi) come nulla ostanti e pur tuttavia non necessarie
ai fini della crescita personale e della “buona partecipazione” dei
cittadini alla vita pubblica.
Una prima conseguenza consiste nel fatto che le discipline scientifiche e
più drammaticamente la matematica, vengono tuttora confinate nella loro
dimensione funzionale: la giustificazione che più spesso si sente addurre
per sostenere la necessità del loro studio ricade sulla loro dimensione di
officina per strumenti applicativi, per la risoluzione di problemi forniti
da un presunto “reale”. Il paradosso che prende forma è quindi quello di
un sapere che è solo nominalmente correlato a dinamiche sociali e, benché
nelle intenzioni sia destinato a proporre soluzioni e percorsi attuali e
costruttivi, si trova, in effetti, ad allontanare le conoscenze a cui
attinge e ad innescare processi che non sono efficaci per ridefinire il
quadro cognitivo dello studente. In definitiva, anziché provocare
apprendimenti su quelle strutture del “reale” alle quali si riferisce, e
sulle complesse dinamiche mediante le quali l’uomo può interagire con
esse, l’insegnamento della matematica sembra aderire all’idea gentiliana
delle discipline scientifiche come mondo senza vita.
Anche i metodi e gli strumenti della pratica didattica (vorrei evitare, in
questa sede, riferimenti troppo espliciti ai contenuti) sono configurati
in maniera tale da prefigurare un allontanamento da quel reale che invece
si invoca come referente semantico: il pensiero matematico viene così
amputato delle più importanti fra le sue funzioni.
Un esempio di singolare forza è dato dall’insegnamento dell’algebra e
della geometria. L’algebra, sulla quale la riflessione dei ricercatori è
stata, negli ultimi venti anni, assai intensa e feconda, si ritiene
definita dalle sue funzioni di astrazione, individuazione,
generalizzazione e trasformazione: ebbene, il percorso del biennio di
istruzione secondaria superiore sembra ignorare (o, se vogliamo attenuare
il termine, sottovalutare) tali funzioni. Non è raro il caso in cui tale
insegnamento viene confinato in quella che gli addetti ai lavori chiamano
“dimensione sintattica”, ignorando la potenza del pensiero algebrico in
termini di sintesi, di generazione di saperi, di interpretazione di
relazioni e fatti.
Lo studente può quindi risultare il soggetto di un tirocinio addestrativo
al quale non può dare un senso nell’ambito dei suoi processi cognitivi;
come contrappasso, non è in grado di correlare l’imponente apparato di
formule e trasformazioni alle esigenze di situazioni in cui spesso sono
necessari e sufficienti elementari schemi di proporzionalità o di
linearità.
L’attuale insegnamento della geometria, d’altro canto, risente del
tradizionale (ed ammirevole) impianto assiomatico-deduttivo, che ha
costituito da sempre il veicolo per attingere la sostanza del
rappresentare, convertire, formalizzare, argomentare e dimostrare. Un
insegnamento fondato su assioma-definizione-teorema-corollario, in cui la
fase di concettualizzazione viene bruscamente anticipata, oltre che
inefficace, risulta oggi impraticabile, per una serie complessa di motivi,
tra i quali si può segnalare almeno la generale difficoltà dello “studente
medio” (accettiamo per un istante tale categoria, non presente ai tempi di
Gentile) di fronte a problemi linguistici di alto livello, come quelli che
si pongono nell’ambito della geometria euclidea.
L’insegnamento della geometria euclidea, dunque, sembra oggi affetto da
una “sofferenza da posizionamento”: in molti bienni di istruzione
secondaria, di fatto, l’insegnamento della geometria si riduce ad una
attività di definizione e compilazione, mentre il dispositivo della
dimostrazione viene sostituito ormai ovunque da quello della verifica o da
quello della conferma.
Il “canone” matematico, nel biennio di insegnamento secondario superiore,
si è retto finora su questi due nuclei, ed è così fermamente definito da
costituire una sorta di imprinting per gli studi successivi: i due
linguaggi dell’algebra e della geometria, cui dedichiamo tutti (studenti e
insegnanti) così tante energie, continuano a riferirsi a cose serie, ma
talvolta sembrano nasconderle.
Di questo stato di difficoltà della matematica, e degli alti costi sociali
ad esso conseguenti (in termini di abbandoni, quantomeno!) si sono fatti
interpreti anche i legislatori. In Italia, il legislatore ha proposto alla
fine degli anni ottanta alcune importanti ipotesi di revisione, o
quantomeno di rilettura, dei programmi di matematica: iniziando
(significativamente) dal biennio, i programmi del Progetto 92 e del Piano
Nazionale per l’Informatica prevedono una nuova organizzazione dei
percorsi didattici, basata su cinque nuclei fondanti.
In questi documenti, è presente un tentativo di pensare la matematica come
sapere che deve (e il cambio di prospettiva sta tutto in questa parola,
che sostituisce il gentiliano “può”) essere inquadrata nella dimensione
del cittadino: si parla finalmente di un sapere di uso e significato
civile, pur senza accennare a standard di riferimento in termini di
conoscenze e di competenze.
I recenti documenti dell’Unione Matematica Italiana (aprile 2004), invece,
rappresentano un deciso passo in avanti in tale direzione, e sono il
frutto di una approfondita e appassionata riflessione. Vengono indicati
sette nuclei fondanti, tre centrati sui processi e quattro centrati sugli
oggetti, e vengono dichiarate le competenze di base che ad essi sono
correlate. Vale la pena di osservare che documenti analoghi, ad esempio il
documento del National Council of Teachers in Mathematics, elaborato negli
Stati Uniti, o quello del Centre de Recherche sur l’Enseignement des
Mathématiques, elaborato in Belgio, presentano di fatto lo stesso
impianto, pur riconoscendo diversi nuclei (dieci per il NCTM e cinque per
il CREM).
Possiamo ora riavvicinarci al concetto di “canone”, dal quale siamo
partiti, mediante la nozione di ‘standard’, che è un concetto dinamico ma
problematico: si parla infatti di standard relativi a un paese, a una
regione, a un ordine di scuola, a un singolo istituto, persino a un
singolo corso. Perciò questo concetto va ripensato ogni volta rispetto
all’ambito di riferimento.
Ne segue che quando parliamo di “canone” per una disciplina, dobbiamo
porci il problema di cosa sia essenziale, pur tenendo presente che anche
rispetto all’essenzialità esiste un problema: non è data una volta per
tutte. Criteri orientativi per la scelta di nuclei e articolazioni,
possono essere il potenziale di sviluppo delle capacità e delle competenze
generali prima di tutto, e successivamente il potere generativo di altre
conoscenze e il grado di verificabilità.
Da questo punto di vista, ancora una volta il Piano Nazionale
d’Informatica e il Progetto ’92 sono stati significativi, andando in
questa direzione, in particolare nell’istruzione professionale, dove si è
trattato – e si tratta – di una ‘guerra di frontiera’ da vincere, in
termini di bisogni oggettivi, e della capacità di ottenere per essi una
ragionevole soddisfazione.
La matematica, in questa prospettiva, non può più essere pensata come
addestramento, e nemmeno come serbatoio di “soluzioni”, ma come strumento
di comunicazione, come elemento irrinunciabile per una cosciente
partecipazione alla vita sociale, come riferimento per la motivazione di
scelte.
Ancora, la matematica può essere il luogo della mente in cui attivare una
dialettica fra noetica e semiotica, che permetta di realizzare, attraverso
adeguamenti e rotture sui modelli preesistenti, un personale patrimonio di
conoscenze.
La ricerca in didattica della matematica è oggi impegnata non tanto nel
definire ipotetici contenuti di “matematica moderna” (il numero, la figura
e la relazione sono a monte delle varie ipotesi di ingegneria didattica)
quanto nell’approfondimento dei complessi legami fra studente, docente e
disciplina. Questi anni vedono infine il tentativo, praticato con
intenzionalità, di realizzare una saldatura fra il mondo della ricerca e
il mondo della prassi didattica (una prima conferma, al proposito, può
essere fornita dall’esperienza delle Scuole di Specializzazione per
l’Insegnamento Secondario): è iniziato un dibattito sull’efficacia della
trasposizione, sul superamento delle difficoltà, sui parametri che devono
essere considerati nella definizione di un “formato” per il curricolo di
matematica.
Il problema di un “canone”, almeno nella prospettiva didattica, può quindi
essere ricondotto a quello di definire nuclei, percorsi concettuali e
ipotesi didattiche, conoscenze e competenze, criteri di valutazione e di
autovalutazione, e ipotizzare sistemi di relazioni fra di essi.
[torna alla sintesi]
NOTE
1 H. Bloom, Il canone occidentale. I libri e le scuole delle età, trad.
it., Bompiani, Milano 1997, pp. 14-15.
[torna al testo]
2 Ancora più pronunciata è l’autonomia locale dei canoni in Spagna, la cui
riforma scolastica di questi ultimissimi anni prevede un’articolazione dei
canoni specifica secondo le sette regioni in cui è divisa la nazione
(Galizia, Paesi Baschi, Catalogna, Valencia…). Tradotto nella situazione
italiana, l’esempio spagnolo potrebbe a livello regionale proporre canoni
ispirati alle note tesi di Dionisotti sulla geografia e la storia della
nostra letteratura.
[torna al testo]
3 F. Kermode, Forme d’attenzione. La fortuna delle opere d’arte, trad. it.,
Il Mulino, Bologna 1989, p. 87.
[torna al testo]
4 Cfr. D. Baroncini, Il canone tra memoria e oblio, in «Poetiche
letteratura e altro», 1997, n. 4-5, pp. 115-23.
[torna al testo]
5 Cfr. R. Luperini, Il professore come intellettuale. La riforma della
scuola e l’insegnamento della letteratura, Pietro Manni-Lupetti,
Lecce-Milano 1998.
[torna al testo]
6 E. Raimondi, Considerazioni di un italianista sulla propria disciplina,
in «Lettere italiane», XLIII (1991), n. 3, p. 352.
[torna al testo]
7 G.P. Biasin, Le periferie della letteratura, in «Intersezioni», XV
(1995), n. 3, p. 449.
[torna al testo]
8 A. Gnisci, Verso un nuovo concetto di letteratura nazionale-mondiale, in
«I quaderni di Gaia», 1992-1993, n. 5-7, pp. 135-40, citato anche da
Biasin alla fine del suo articolo.
[torna al testo]
9 R. Luperini, Il canone e la storia letteraria come ri-costruzione, in Il
professore come intellettuale, cit., pp. 61-73, già apparso su
«Allegoria», IX (maggio-agosto 1997), n. 26, pp. 5-13.
[torna al testo]
10 Ivi, p. 65.
[torna al testo]
11 Ch. Segal, Cracks in the Marble of the Classic Form: The Problem of the
Classical Today, in «Annals of Scholarship», X (1993), pp. 7-30. Gli
scricchiolii, le crepe, gli schianti del «marmo» classico di cui parla il
titolo del saggio di Segal fa sovvenire la formula dei «libri di sabbia»
con cui Borges voleva segnalare la loro labilità.
[torna al testo]
12 A. Fowler, Hierarchies of Genres and Canons of Literature, in Kinds of
Literature. An Introduction to the Theory of Genres and Modes, Harvard
University Press - Clarendon Press, Cambridge (Mass.) - Oxford 1982, p.
216.
[torna al testo]
13 G. Manganelli, Francesco De Sanctis: Storia della letteratura italiana
[1971], in Laboriose inezie, Garzanti, Milano 1986, p. 236.
[torna al testo]
14 R. Luperini, Il canone e la storia letteraria…, cit., p. 70.
[torna al testo]
15 G. Ferroni, Dopo la fine. Sulla condizione postuma della letteratura,
Einaudi, Torino 1996, pp. 183-89.
[torna al testo]
16 Repubblica, 524ss.
[torna al testo]
17 A. Gramsci, Quaderni del carcere, Einaudi, Torino, 1975, pp. 1530ss.
[torna al testo]
18 Che fine dell’educazione scolastica sia la spinta verso l’universale lo
diceva anche Benedetto Croce,
http://www.iisf.it/presentazione/struttura.PDF
.
[torna al testo]
19 Su questo punto ringrazio Fabio Frosini.
[torna al testo]
20 Sulla riforma Gentile vedi il bell’articolo di Angelo d’Orsi,
http://www.lastampa.it/edicola/sitoweb/Cultura/art7.asp.
[torna al testo]
21 S. Toulmin, “Fa acqua la distinzione fra scienza normale e scienza
straordinaria?”, in Critica e crescita della conoscenza, a cura di I.
Lakatos e A. Musgrave, Feltrinelli, Milano, 1976, pp. 109-118.
[torna al testo]
22 F. Nietzsche, Così parlò Zarathustra, Adelphi, Milano, 1978, pp. 240ss.
[torna al testo]
23 Lo si può leggere alla pagina
http://www.filiarmonici.org/papini1914.html.
[torna al testo]
24 L’articolo del 1923 si può leggere alla pagina
http://www.erasmo.it/liberale/ricerca.asp.
[torna al testo]
25 Il concetto è di Hegel.
[torna al testo]
26 F. Nietzsche, Sull’utilità e il danno della storia per la vita, Adelphi,
Milano, 1979.
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