IL CASTORO PER LA SCUOLA
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CANONI DEI SAPERI

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Atti del Convegno del 16 aprile 2004
Documenti del Gruppo C: "Quali canoni"

(sintesi di Rossella D’Alfonso)

Il dibattito su questo problema ha visto contributi significativi provenienti da aree disciplinari diverse, quella linguistico-letteraria, relativa sia all’Italianistica, sia alle lingue straniere, quella storico antropologica, quella matematico scientifica.

Ciò che è emerso in maniera decisiva sono stati alcuni criteri fondamentali:

  1. il problema della storicità dei saperi e di come darne conto nell’insegnamento non è appannaggio esclusivo delle discipline dell’area così detta umanistica, ma investe tutte le scienze;
  2. allo stesso modo, anche la dimensione della sistematicità (paradigmi, codici) innerva tutte le discipline, sia scientifiche (modelli, leggi, regole, procedure, …) sia storico letterarie (si pensi all’educazione linguistica);
  3. il ripensamento del canone muove in tutte le aree da una revisione dell’epistemologia stessa sottesa a ciascuna disciplina e dalla riflessione su quale sapere sia significativo oggi.

     Ha introdotto il dibattito Rossella D’Alfonso (Liceo Scientifico Statale Fermi di Bologna, Associazione Progetto per la Scuola): sul versante delle materie linguistiche e storico-letterarie (ma non solo), occorre chiedersi quale “canone”, quale tradizione cioè è possibile e opportuno proporre a fronte di una rottura generazionale fra chi insegna e chi apprende che ad alcuni studiosi appare non congiunturale, inerente a ciascun cambio di generazione, ma più profonda, specifica dei nostri tempi, già intimamente differente da quella della fine degli anni ’60 e degli anni Settanta del XX secolo.
Globalizzazione, mescolanze etniche, crisi dell’eurocentrismo ed altri eventi e situazioni di portata planetaria hanno modificato in modo deciso l’immaginario, la percezione di sé nel paese, nell’Europa allargata e nel mondo medesimo, e messo in crisi la tradizione classico-cristiana-risorgimentale che aveva sorretto fin qui l’identità nazionale e che ora deve ritrovare le proprie ragioni e la propria validità nel dialogo con altre culture. Ogni epoca di profonda trasformazione ha mostrato, nel passato, questa necessità di rifondarsi. Si deve muovere allora dall’esame e dalla scelta rigorosa di ciò che è fondamentale per ciascuna disciplina – ciò che permane – dal punto di vista estetico, etico, strutturale, nonché da una selezione fondata su una disamina impregiudicata di quanto è altrettanto importante perché chi apprende impari a vivere più consapevolezza nel tempo della sua vita, sia come individuo, sia come partecipe di una comunità civile e politica.
(Vedi negli Approfondimenti 1: Rossella D’Alfonso, Criteri per un canone)

     Andrea Battistini (Università di Bologna, Associazione Progetto per la Scuola) parte dalla considerazione che un canone non è che una lista, che, in assenza di problemi dati da cambiamenti culturali profondi, non si mette in discussione: i problemi sorgono infatti quando c’è un trapasso di paradigma che porta disorientamento e richiede la rifondazione di un canone.
Nella fattispecie dell’italiano, questa disciplina subisce le “aggressioni”, anche da campi vicini, come la letteratura comparata. Anche questo aspetto rende molto delicata la questione della scelta.
     Ma vediamo alcuni esempi esteri. In Gran Bretagna sono usati i sillabi, con un elenco di quindici fra temi e autori, tra cui l’insegnante deve sceglierne due; oltre a ciò, per il 25% del suo programma l’insegnante può scegliere un suo percorso, ma l’esame verrà condotto sui sillabi canonici. Per l’inglese, Shakespeare è ineludibile e viene suddiviso su tre anni, secondo i generi; poi si studia, del ‘600, Milton o Dreiden o i poeti metafisici. Questo sistema elimina però la storia letteraria, che l’Italia invece ancora cura (ed è l’unico paese), provocando inoltre l’ignoranza totale su tutto ciò che esula dagli argomenti scelti. L’insegnamento dell’italiano è più centrato sulla cultura generale che sulla letteratura. Per esempio, fra gli ultimi programmi si prevedevano lo studio dell’Italia degli anni ’90, una regione, due film di Rosi, il Risorgimento, alcuni libri (spesso poco significativi): fra i nove autori da studiare, accanto a Dante (di cui bisogna segnalare quali 10 canti si leggeranno dell’Inferno), figurano non solo Il giorno della civetta di Sciascia, Il sentiero dei nidi di ragno di Calvino, quindici Racconti romani di Moravia, ma anche la Bossi Fedrigotti. Il criterio di scelta pare poco meditato.
     Negli Stati Uniti vigono sillabi simili. Sul canone c’è anzi un dibattito tanto acceso che si gioca sul termine e si chiama la discussione “can(n)onate”. Nel corso degli anni si è passati qui da un canone eurocentrico a un canone policentrico: sono presenti documenti tupamaro, testi dell’America latina, dell’Africa; le scelte dipendono molto dalla posizione geografica dello Stato: i più conservatori sono gli stati che si affacciano sull’Atlantico, e questo è un fenomeno interessante anche per noi.
     Veniamo all’Italia di oggi, che vede l’immigrazione, tanti altri cambiamenti sociali e il mutamento del concetto stesso di letteratura. Nella tradizione la scelta è stata operata fondamentalmente su un criterio di ordine estetico. Oggi si sta cambiando direzione: la vita civile e morale ha più importanza nelle scelte che si fanno, e questo è un fenomeno cui assistiamo parallelamente negli U.S.A., dove la letteratura di testimonianza è molto importante.

Questo induce:

  • un superamento del canone desanctisiano, traduzione della dialettica hegeliana (tesi, antitesi, sintesi) che dimenticava i conflitti e i sommersi;
  • una rivalutazione del canone tiraboschiano, che valorizzava scienza, storiografia ecc.

In conclusione, pare capitale oggi adottare questi orientamenti:

  • dare l’idea del conflitto sempre immanente al canone;
  • evitare l’idea di valori assoluti (come ha fatto invece di recente Harold Bloom, Il canone occidentale, Milano, Bompiani, 1996);
  • evitare l’altro estremo del decostruzionismo: si possono utilizzare le sintesi dei manuali per il raccordo fra gli argomenti approfonditi;
  • scegliere autori e opere secondo una valorizzazione non solo estetica ma civile;
  • far vedere il sistema dei generi legati all’evoluzione della società: in una società aristocratica prevale la tragedia, in contrasto con generi eversivi come la satira o con il romanzo tipico della società borghese;
  • affidare il canone a una responsabilità condivisa: esso non può essere tutto ‘autoritario’, dall’alto;
  • in quest’ottica, le scelte del singolo insegnante sono fondamentali, ma non devono essere né subite né fatte passivamente, costretti dall’incalzare della fine dell’anno: vanno pensate organicamente e sistematicamente. Il ricordo deve essere non mnéme (ricordo passivo e acritico), ma anámnesis, ricordo selettivo;
  • anche l’ampliamento ad altre letterature deve continuare ad avere come perno la lingua madre.

(Vedi negli Approfondimenti 2Andrea Battistini,Quali canoni)

     Nella discussione sono intervenute Simonetta Vitali (Liceo Scientifico Statale Fermi di Bologna), Paola Poluzzi (Liceo Scientifico Statale Fermi di Bologna, Associazione Progetto per la Scuola), Cristina Vinci (Liceo Scientifico Statale Fermi di Bologna, Associazione Progetto per la Scuola): Vitali ha espresso il timore che una programmazione per moduli che escludano la storia letteraria possa essere dispersiva e portarci verso il modello inglese; Poluzzi mette in risalto un altro criterio di cui tenere conto per la scelta dei contenuti: le possibilità di collegamento con le altre discipline; Vinci dichiara che oggi per l’inglese si procede per moduli, iniziando la letteratura all’incirca nella terza classe superiore, ma curando sempre i raccordi, sia con altre discipline, sia che per la cronologia.

     Siamo davvero in un’epoca di transizione? – si chiede Vincenzo Fano (Università di Urbino, Associazione Progetto per la Scuola): Kuhn ha distinto fra momenti rivoluzionari e momenti ‘normali’ nella scienza, ma S. Toulmin ha ribattuto che questi aspetti coesistono in ogni momento. Siamo sempre in transizione, almeno per alcuni aspetti, mentre non ne mettiamo in discussione altri.
In seconda battuta, la proposizione di un canone va fatta in relazione a quello che c’è: e quel che c’è è una strutturazione della scuola superiore che mette in cima alla gerarchia il liceo classico, per poi ‘discendere’ via via negli altri ordini. Già Gramsci, nei Quaderni dal carcere, pochi anni dopo Gentile, parlava di un canone obsoleto. Se un tempo imparare il greco e il latino significava imparare che è importante ciò che non ha un uso immediato e quindi la progettazione del futuro si fondava sul fatto che s’imparavano cose e valori validi per sempre, oggi i modelli civili di allora non ci sono più: occorre piuttosto una cultura legata a una cultura del mondo industriale (Gramsci insomma aveva ragione).
Un terzo problema che si sottolinea spesso è che i ragazzi non hanno senso storico: ma storicità non vuol dire storicismo, bensì nella capacità di collocare i fenomeni nel tempo che li ha visti nascere, svilupparsi, essere recepiti, come è emerso anche negli incontri dello scorso anno "L’incontro dei saperi e l’insegnamento della scuola"
(v. i materiali sui siti:  http://www.ilmulino.it  e  http://web.tiscali.it/scuolaescrittura/ProgettoScuola ).
     Il canone poi non deve essere pensato in termini di aut aut, ma piuttosto orientato anche al piacere di chi impara e di chi insegna. Perché la scelta sia organica, la centralità del curricolo va spostata da italiano e matematica, attorno a cui è strutturato adesso, alla storia e alla filosofia, per il loro valore fondativo.

(Vedi negli Approfondimenti 3Vincenzo Fano, Platone, Nietzsche, Gramsci e Einstein sul canone della scuola)

     Luca Alessandrini (Istituto storico Parri Emilia Romagna, Associazione Progetto per la Scuola) affronta i criteri che possono consentire la selezione del canone storiografico (che influenza naturalmente tutte le discipline ad esso collegate) :

  • se la storia si occupa di società umane il primo ingrediente sono le tipologie di relazione;
  • se è vero che la distanza fra chi insegna e chi apprende oggi è molto forte e dunque, di conseguenza, molto diversa è la storia, o la percezione della storia vissuta dai due soggetti, bisogna scoprirla insieme, svelando la struttura del sapere storico; come diceva Marina Mizzau (Le dinamiche della comunicazione interpersonale), per scambiare bisogna rischiare: nel nostro caso, rischiare significa svelare le proprie incertezze;
  • c’è un altro campo in cui il sapere tradizionale risulta in crisi o messo in crisi da chi vuole attribuire alla scuola una funzione professionalizzante: ed è il rapporto col mondo produttivo, come pare chiaro anche dal contributo di Fano. Ma rispetto a chi si dichiara contrario alla scuola professionalizzante, obietta che lo sviluppo dei saperi orientato alle professioni non va inteso in senso tecnicistico: anche Gramsci, richiamato poc’anzi, parlava della necessità di una cultura generale forte non immediatamente spendibile sul piano pratico;
  • in questo il ruolo della storia è importantissimo, a patto di non interpretare anche questa disciplina in senso tecnicistico (conoscere tutti i dati). Oggi viviamo come occidentali una crisi profondissima d’identità: poiché siamo senza futuro (per la crisi demografica, perché tanti prodotti giapponesi o indiani sono meno costosi dei nostri ecc.), siamo senza passato. Pertanto, la storia va ripensata e ancorata al mondo postindustriale e non solo;
  • rifare il canone significa confrontare ai 6000 morti del fascismo i 500.000 morti in Etiopia, e così via. Se la storia europea non dialoga col resto del mondo non sa capirlo. Eppure questo è un bisogno intenso: basti pensare che fino a dieci anni fa di storia si sapeva ben poco e scarso era l’interesse; dal 1994 le videocassette di storia sono il prodotto più venduto in quest’ambito. Cos’è accaduto? Il problema delle identità nazionali alla ribalta, la guerra iugoslava e altri eventi analoghi hanno mostrato la storia come luogo di recupero di criteri, anche banali o banalizzati, di comprensione: non ci si rivolge più alla politologia, alla filosofia, ad altri orizzonti, ma alla storia.
  • Quale canone allora? Concordando con chi ha parlato prima, pensa che non siano utili gli aut aut, ma che le scelte debbano essere condotte sui criteri accennati: la storia deve rivelare la propria struttura epistemologica; non ci si può attestare ancora su un punto di vista eurocentrico; bisogna dare la percezione dei tempi della storia, il che equivale a dire che il tempo dev’essere riempito di significato.
  • Quanto ai quadri di civiltà di cui si è molto discusso, non basta definire quali, ma bisogna dire come devono essere fatti: devono infatti evidenziare processi, così che si possano anche acquisire attraverso di essi degli strumenti applicabili su un altro oggetto.
  • La scelta deve tenere conto del fatto che il nostro orizzonte culturale è mutato: nella globalizzazione, la relativizzazione dei fatti storici ne cambia la nostra percezione: uno dei nodi dev’essere allora, per fare un esempio, la dialettica fra Occidente (Occidente cristiano in particolare) e Islam (e Sud del mondo); un altro nodo dev’essere la dialettica fra mondo industriale e mondo postindustriale; un terzo nodo le dinamiche sociali, il rapporto fra cittadino e società.
  • Storicizzare assume allora il significato che tutti abbiamo sottolineato. E questo corrisponde alla fine del mito della modernità e del progresso, vivo dal ‘700 ma non più credibile né utile.

     Nell’ambito della matematica la questione del canone è altrettanto delicata, sostiene Fabrizio Monari (Liceo Scientifico Statale Fermi di Bologna, Associazione Progetto per la Scuola, SISS dell’Università di Bologna).
Se infatti pensiamo al canone come normatura, come lista, come insieme di contenuti, regole e procedure, potremmo dire (anche provocatoriamente) che per la discipline scientifiche il canone definito dalla riforma Gentile è ancora attuale e praticato. Ma se ci si colloca invece nella dimensione del cittadino, di un sapere che consideri la propria funzione civile, si impone oggi un riavvicinamento al reale, parola chiave talvolta utilizzata in maniera inappropriata, che in questa situazione si rivela invece ineludibile.
     Ad una possibile idea di canone si avvicina, secondo una impostazione che in Italia stenta ad affermarsi, la nozione di “standard”: si tratta di un concetto dinamico ma problematico. In effetti, anche a livello europeo, si parla di standard relativi a un paese, a una regione, a un ordine di scuola, a un singolo istituto, persino a un singolo corso. Perciò questo concetto va ripensato ogni volta, rispetto all’ambito di riferimento. Ne segue che quando parliamo di canone dobbiamo porci il problema di cosa è essenziale, pur essendo coscienti che anche rispetto all’essenzialità esiste un problema: non è data una volta per tutte. Criteri orientativi per una scelta di nuclei fondanti possono essere il potenziale di sviluppo delle capacità e delle competenze generali prima di tutto, quindi il potere generativo in termini di conoscenze ed infine il grado di certificabilità.
     Negli anni recenti, il Piano Nazionale per l’Informatica e il Progetto ’92 sono stati significativi, in quanto andavano in tale direzione: in particolare nell’Istruzione Professionale, pur con alterne fortune, si è posto in evidenza come quella delle competenze minime in ambito scientifico sia una “guerra di frontiera” che un paese moderno deve vincere. Le esperienze delle Scuole di Specializzazione e di gruppi di ricerca in didattica della matematica documentano la necessità che la matematica non sia concepita come addestramento, ma come disciplina in cui si formano concetti, si comunica, si interpreta, si vive il dilemma fra noetica e semiotica. Le recenti proposte dell’UMI riconoscono appieno questo stato di cose e, pur essendo molto avanzate, individuano puntualmente oggetti e processi del sapere matematico, i nuclei attorno ai quali lavorare, abbandonando la logica del “programma” a favore uno sviluppo del curricolo centrato sulle operazioni cognitive.

(Vedi negli Approfondimenti 4: Fabrizio Monari, Il canone nelle materie scientifiche)


APPROFONDIMENTI/1

CRITERI PER UN CANONE
di Rossella D’Alfonso
(Liceo Scientifico Statale Fermi di Bologna, Associazione Progetto per la Scuola)

     Nel momento in cui l’idea desanctisiana di cultura nazionale, con il suo portato di un canone letterario orientato alla sua costruzione, ha perduto la propria efficacia sul terreno sia culturale sia politico, quale paradigma sostituirle? E’ ancora proponibile quella nozione, teleologica, di storicità, sul piano del dibattito critico come nella sua mediazione didattica? Che letteratura, arte, lingua, filosofia insegnare allora, se i nostri interlocutori – le generazioni più giovani – paiono avulsi dalla tradizione (cristiana e classica) nella quale sino a non molti anni fa tutti ci si riconosceva? Secondo quale disegno costruire un nuovo modello ed operare le scelte nell’insegnamento? Qual è la categoria di storicità da recuperare?
     A mostrare come la questione sia stata vera in ogni tempo ci soccorre, tra i tanti esempi possibili, il prologo al De viris illustribus di San Girolamo: nel momento in cui, nel IV secolo d.C., la cultura cristiana si fa da minoritaria dominante, si assume il compito di darsi una tradizione, per dimostrare la propria dignità a fronte della secolare cultura del paganesimo antico, sforzandosi nel contempo di inserirsi in tale solco e di sussumerla entro di sé; San Girolamo dichiara esplicitamente di rifarsi a Svetonio, addita modelli pagani illustri (Cicerone) e meno illustri (Santra), presenta un canone cristiano ricco di nomi che abbiamo dimenticato.
Quasi un millennio dopo, Dante sciorina, nel IV dell’Inferno e nel X del Paradiso, le proprie auctoritates classiche e cristiane, mescolando i poeti ai filosofi, i teologi ai sapienti di medicina e diritto. Un altro canone, un’altra tradizione, questa volta a suggello di un’epoca che si spegne.
     Si potrebbe continuare all’infinito. Ogni volta che cambiano gli obiettivi, o semplicemente le prospettive della cultura si presenta la necessità di rifondare il sapere, e di conseguenza di rifondare il canone. Il nuovo canone dichiara la propria tradizione e ne muta il concetto stesso.
Di più, ogni epoca, ogni autore, ogni opera ed ogni fruitore hanno ciascuno la propria tradizione: in un testo si possono leggere in controluce altri testi, perché la memoria dell’artista ha operato scelte e rifiuti; nella lettura le associazioni con altri testi, esperienze, pensieri ed emozioni concorrono alla sua interpretazione non meno dell’attenzione al testo stesso. E’ stata l’estetica della ricezione a insegnarci che alla costruzione del sistema letterario (e culturale in genere) concorrono anche, e sostanzialmente, le scelte interpretative, le reazioni del pubblico, le condizioni della produzione, della circolazione e della fruizione della cultura, e molte altre variabili. Esso è frutto dell’intersezione di una pluralità di paradigmi e di tradizioni.
Storicizzare vorrà dire allora comprendere le diverse scelte entro il loro tempo, chiedersi, anche con gli allievi, perché sono state compiute, porle a confronto con il loro e nostro tempo.
     Muovendo di qui sarà possibile scegliere un nuovo canone che aiuti a ricostruire la loro e nostra identità, un canone sottoposto anch’esso alle leggi del transeunte, che nell’organizzarsi attorno alle categorie fondanti delle discipline sappia dunque tenere conto della significatività per chi apprende degli argomenti scelti, e ripensare perciò radicalmente la metodologia per insegnarli: abbandonare la mera trasmissione andrà a vantaggio della costruzione progressiva e critica di un proprio sapere, capace di interagire nel dialogo con gli altri e far sorgere le domande di senso che spesso nei ragazzi restano inespresse.

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APPROFONDIMENTI/2

QUALI CANONI
di Andrea Battistini
(Dipartimento di Italianistica dell’Università di Bologna, Associazione Progetto per la Scuola)

     In una sede come la nostra Associazione Progetto per la Scuola, attenta in modo particolare ai problemi della letteratura e alle loro estensioni didattiche nel terreno vivo e concreto dell’esperienza scolastica, il mio compito sarà soltanto quello di fornire un po’ di nomenclatura e di dare conto di qualche esperienza desumibile dal canone vigente nei sistemi didattici di altre nazioni, senza avere la pretesa, soprattutto da parte mia che non ho competenze adeguate nel campo della scuola superiore, di fornire un qualsivoglia insegnamento. Nel caso del canone, il dibattito ha assunto tali proporzioni che, se per un verso rendono improba l’ambizione di un discorso assolutamente originale, dall’altro richiedono una messa a punto, una tassonomia che dia conto anche di ciò che avviene all’estero, in vista di confronti sempre istruttivi da cui eventualmente trarre ispirazione per nuove proposte da impiegare nella nostra scuola e nella nostra università, oggi come non mai disorientate – con la sperimentazione e con la ricerca di nuovi programmi – sul “che fare”.
     Avanzando quindi per punti, senza velleità organiche, conviene intanto esordire con una precisazione terminologica, secondo il monito del vecchio Aristotele, per il quale prima di discutere di un concetto occorre definirlo nel suo significato rigoroso. Nello specifico, è necessario riportare subito il termine “canone” alla sua accezione propria e originaria, dopo la notevole confusione che ultimamente si è creata, direttamente proporzionale alla frequenza addirittura eccessiva con cui nell’ultimo decennio se ne parla. Con una polisemia arbitraria che non giova alla chiarezza del dibattito, alcuni fanno del canone un sinonimo di “codice”, altri lo identificano con la “poetica”, altri ancora, già con una migliore approssimazione, lo avvicinano alla nozione di “tradizione”. Se però si risale, per non andare troppo lontano nel tempo se non nello spazio, al modo in cui il termine è stato inteso di recente negli Stati Uniti, vale a dire nel contesto culturale da cui la discussione sul canone oggi proviene, dopo essere stata rilanciata fin dai primi anni Ottanta (in Italia come spesso succede si arriva sempre un po’ più tardi), ci si avvede facilmente che il “canone” è da riferire senza ombra di dubbio agli aspetti che concernono direttamente la didattica, perché esso riguarda propriamente il curriculum scolastico, il programma degli studi da seguire nel percorso educativo. Senza equivoci in proposito è Harold Bloom, la cui traduzione italiana del Canone occidentale ha contribuito a riaccendere la polemica per il taglio molto angolato e personale dell’intervento. Ebbene, per Bloom, di là da ogni sottigliezza, il canone è molto semplicemente l’”elenco di libri per gli studi d’obbligo”, a riprova delle implicazioni molto pratiche e concrete ad esso legate.(nota 1)
     Finché la situazione culturale è statica, e si è calati in quello che Thomas Kuhn chiamerebbe un paradigma normale, non si avverte il bisogno di interrogarsi sul canone, accettato senza rovelli metadiscorsivi. Viceversa, non è difficile dedurre che tanto più si è portati a discutere del canone quanto più si vive in un momento di crisi e di disorientamento, allorché dell’elenco dei testi legati ai programmi scolastici si soffre l’insufficienza, sia perché quanto gli appartiene è sentito obsoleto, sia perché se ne percepiscono assenze non più eludibili. Storicamente è sempre capitato così: si pensi al riassetto operato da Dante con il De vulgari eloquentia, alle dispute degli umanisti sul canone latino, con i fronti opposti dei ciceroniani oltranzisti e di coloro che invocavano griglie meno esclusive, alla scelta cinquecentesca dei modelli della lingua letteraria, prima e dopo la codificazione vittoriosa di Bembo, al regesto controriformistico della Bibliotheca selecta di Antonio Possevino, alle insofferenze anticlassiche della cultura barocca, alle scelte antologiche della terza parte della Perfetta poesia italiana, di nuovo rastremate da un Muratori che detta il canone del “buon gusto” arcadico, alle maggiori libertà pretese dal Romanticismo, e poi dalle avanguardie.

     Anche oggi, se non ci sono riviste letterarie o convegni o libri o giornali (quasi sempre, questi ultimi, con accenti fastidiosamente scandalistici, come si è visto qualche mese fa con l’articolo di Pietro Citati su “La Repubblica”, relativo al canone universitario di letteratura italiana, appena riformato entro il nuovo sistema della laurea triennale) che non vogliano esimersi dal dire la loro in merito al canone, è perché si ha la coscienza del carattere inevitabile di una sua revisione, connessa intimamente alla crisi che in primo luogo angustia l’insegnamento della letteratura italiana, intaccata ed erosa nel suo statuto da altre discipline specialistiche che ne sono derivate e che invece sono molto di moda (si pensi soltanto alle Letterature comparate).
     Non si tratta però di una miope difesa di settore, perché gli sforzi, finora sempre vani, che si fanno per realizzare quella radicale riforma scolastica tante volte auspicata e attesa ma mai portata a termine producono delle ripercussioni che costringono ogni volta a rivedere il canone degli autori della letteratura italiana. Oltre tutto, a indurre le associazioni di insegnanti a intervenire quasi quotidianamente sono le tante voci incontrollate e contraddittorie che giungono dal Ministero, dove coloro che hanno in mano le sorti della scuola e dell’università sembrano essere, si direbbe con una battuta, uomini e donne indecisi a tutto. Una volta si apprende che occorre fare più spazio al Novecento, un’altra volta arriva la voce che si deve incominciare la letteratura dal Cinquecento; per una stagione all’università, con le nuove tabelle, la letteratura italiana viene ridotta a una sola annualità anche per chi poi la dovrà insegnare, per un’altra stagione, sulla scia del cosiddetto rapporto Martinotti, la si promuove al rango di disciplina centrale nell’anno di orientamento, sia pure con il rischio di una sua liceizzazione. E ogni “rumore” comporta bradisismi o terremoti nella lista dei testi da studiare, che si allunga o si accorcia con la facilità di una fisarmonica suonata da un suonatore di capricci.
     Perduta comunque la sua centralità nell’economia delle scienze umane, ove l’uomo di lettere non è più il tradizionale maître à penser, rimpiazzato in quest’ufficio da sociologi, da politologi o da semiologi tuttofare, la letteratura italiana sa che il canone finora adottato, figlio di altre esigenze e di altre situazioni culturali, deve essere cambiato, ma le molte alternative che si pongono lasciano ancora il problema nell’àmbito fluttuante della doxa, nell’attesa che si possa arrivare a un’episteme, sperata, oltre che dalle metamorfosi in atto dei programmi scolastici, dalla sensazione di essere arrivati alla conclusione di un’epoca, anzi, per dirla con Ferroni, di trovarsi “dopo la fine”, in un tempo di consuntivi, di ripensamenti, magari con la psicologia di chi, in linea con quanto ha fatto Bloom, vorrebbe abbracciare con una sintesi un canone complessivo, adeguato ai processi di globalizzazione cui ci stanno abituando la politica e l’economia.
     Naturalmente non può invece essere questa l’occasione per fare dei cataloghi, ossia fornire un possibile esempio di canone, che sarebbe un po’ come la grigia lista della spesa per lettori equiparabili per competenza a uno chef. È meglio semmai ragionare sui criteri, sui metodi possibili con cui organizzare un canone. E poiché il tema è per l’Italia argomento alla moda, tanto diffuso da rischiare l’ovvietà, è forse più conveniente, almeno in apertura, insistere di più sulla situazione fuori d’Italia, cominciando, in una rapida sequenza logica, dal sistema inglese, da cui comunque ha preso le mosse l’organizzazione canonica degli Stati Uniti, per altro già più nota in Italia. In Inghilterra il canone viene stilato partendo dal criterio dei “sillabi”, che sono dei sommari di corsi di studio tra i quali l’insegnante deve scegliere. Se si esclude la Scozia, che ha un sistema scolastico autonomo,(nota 2) gli esami che gli studenti devono sostenere nelle età inferiori, a sette, undici e quattordici anni, sono uguali per tutto il paese e naturalmente, per essere strettamente vincolati ai sillabi, condizionano il tipo di preparazione impartito, anche perché è abbastanza uniforme il tipo di domande formulate, alle quali si risponde con prove soprattutto scritte in cui dapprima si deve commentare il passo di un dramma, di una poesia o di un romanzo, poi si deve intervenire su un aspetto specifico di un’opera del canone e infine si è interrogati su questioni di natura critica. I programmi di lettura sono quindi uniformi e disponibili in antologie recanti testi prescritti dal governo centrale, essendo i relativi esami di carattere nazionale. Localmente gli insegnanti possono insegnare canoni supplementari che si aggiungono a quelli stabiliti.
     I sillabi che devono essere seguiti dagli studenti più grandi, tra i sedici e i diciotto anni, sono meno standardizzati, ma devono seguire sempre uno schema governativo. Per ogni disciplina, e quindi anche per la letteratura, vengono proposti vari percorsi possibili, tra cui gli insegnanti possono scegliere, seguendoli però fedelmente, senza contaminarli tra loro. Questa rigidità dei canoni fa parte della mentalità anglosassone, ed è forse l’aspetto che più sconcerta in Italia dove, stabilita una regola, si fa di tutto per inserirvi tutte le eccezioni possibili. Shakespeare è il solo autore inglese che tutti gli studenti della Gran Bretagna devono leggere e poiché questo canone è emigrato, almeno nelle sue linee portanti, anche negli Stati Uniti, si capisce, di là dalla sua oggettiva e indiscutibile importanza, perché Bloom ha fatto di questo autore il fulcro di tutto il canone occidentale. Nella fascia di età tra gli undici e i quattordici anni i ragazzi inglesi devono scegliere un dramma tra il Giulio Cesare, il Sogno di una notte di mezza estate, il Romeo e Giulietta. Per i giovani tra i quattordici e i sedici gli insegnanti possono scegliere un altro dramma di un’altra lista nella quale di solito viene preferito il Macbeth. Successivamente si può optare tra Amleto, Otello e Coriolano.
     Per gli altri autori si procede sempre con scelte alternative, per esempio, relativamente alla poesia del Seicento, tra Milton, Dryden e i poeti metafisici, letti antologicamente. Come si è accennato, è facoltà degli insegnanti aggiungere, ma non sostituirli a quelli trasmessi dal Ministero, materiali supplementari, per esempio sulla letteratura americana. Di fatto però si seguono molto da vicino i sillabi ufficiali, sia perché le parti liberamente integrative non devono superare il 25% del programma totale, sia perché esse non formano comunque materia d’esame, con il risultato che se gli insegnanti svolgono parti diverse, vengono accusati dai genitori degli allievi di non prepararli adeguatamente su quanto verranno effettivamente interrogati.
     Ad analoghi principî si ispira il canone della letteratura italiana nel sistema scolastico inglese, dove naturalmente l’italiano risulta lingua straniera e quindi comporta anche un insegnamento non marginale di lingua e di cultura generale. Di solito il programma ministeriale del corso di “Italian–advanced level” destinato a ragazzi di diciassette-diciotto anni prevede la scelta tra un totale di quindici sillabi, costituiti da sei argomenti e nove autori. L’insegnante può scegliere o lo svolgimento di due temi, oppure di un tema e un autore, oppure di due autori. I sei argomenti sono: 1. L’Italia degli anni ’90: società, politica e economia; 2. Il Risorgimento; 3. Una regione italiana a scelta; 4. Il cinema italiano: due film di Francesco Rosi (Cadaveri eccellenti, Tre fratelli); 5. Lo scrittore donna, con la scelta tra qualche testo di qualche letterata; 6. La Commedia dell’arte: tradizione e attualità. I nove autori sono: 1. Dante, dieci canti dell’Inferno (I, II, III, V, XII, XIII, XVIII, XIX, XXXIII, XXXIV); 2. Sciascia, Il giorno della civetta; 3. Calvino, Il sentiero dei nidi di ragno; 4. Goldoni, Il ventaglio; 5. Bossi Fedrigotti, Di buona famiglia; 6. Primo Levi, Se questo è un uomo; 7. Moravia, quindici testi dei Racconti romani, già indicati nei programmi; 8. Pirandello, Sei personaggi in cerca d’autore; 9. Tomasi di Lampedusa, Il gattopardo. Nella sezione “argomenti” non ci sono fonti letterarie, se si escludono alcune scrittrici e, nel sillabo sulla commedia dell’arte, Dario Fo, a riprova di una sua canonicità all’estero che anche da questa minima specola può spiegare il conferimento del recente Nobel. In compenso la trattazione degli “argomenti” richiede la lettura di giornali e riviste italiane e un libro di storia, P. Ginsborg (a cura di), Stato dell’Italia, Mondadori, Milano 1994.
Anche dalla semplice esposizione di questo programma si notano alcuni caratteri che segnano una differenza fondamentale con l’Italia. In primo luogo il canone nel sistema scolastico inglese è molto più rigido e selettivo che da noi. Di Dante o di Moravia si devono leggere proprio quei canti e quei racconti. La libertà consiste nella scelta da un ventaglio alquanto divaricato, ma in questo modo si perde il senso storico delle letture, non solo perché, tolti Dante e Goldoni, tutti gli altri autori sono del Novecento, ma anche perché la drastica selezione di due soli sillabi esclude le altre possibilità del canone. L’esempio dato è di per sé molto parziale, trattandosi di un insegnamento che mira soprattutto a fornire qualche infarinatura sulla più generale civiltà italiana, ma è ugualmente indicativo della logica che lo ispira. Mentre lo storicismo dota il canone italiano di un forte carattere inclusivo e istituzionale, con un senso radicato della diacronia, in Gran Bretagna prevale il criterio induttivo di mettere a fuoco un testo trascurando il contesto e la creazione di una griglia sinottica entro cui orientarsi. Per questo non è strano incontrare nelle università italiane studenti inglesi che magari conoscono benissimo un canto di Dante o un romanzo di Calvino ma ignorano completamente Petrarca o non hanno mai sentito parlare di Vittorini. E anche nell’àmbito della letteratura inglese si è visto che la conoscenza di Milton comporta di fatto l’oblio di Dryden o di John Donne. Per dirla nei termini della nostra didattica universitaria, in Inghilterra il canone si insegna dalla prospettiva dei corsi monografici, in Italia con l’impostazione della parte istituzionale.

     La specificità della situazione italiana è data dalla presenza del manuale di storia letteraria, uno strumento che non esiste in Inghilterra e forse in quasi nessun altro paese. Il suo impiego è oggi da alcuni vituperato al punto da pretenderne l’abolizione, soprattutto per gli stereotipi di cui il manuale si fa veicolo, diventando un ingombrante diaframma gonfio di luoghi comuni che, interponendosi tra il lettore e il testo canonico, fa perdere l’intima sostanza di quest’ultimo. Tuttavia il confronto con una situazione in cui i capisaldi del canone sono affrontati senza il manuale rivela in absentia la sua funzione di raccordare i vari testi. E sempre dal riscontro fenomenologico si nota come la griglia prescrittiva del canone, se per un verso limita la libertà e l’iniziativa degli insegnanti, per un altro verso almeno li orienta, suggerisce loro qualcosa, non li abbandona del tutto a se stessi, in un contesto di frustrazioni in cui non è detto che il rinnovamento possa arrivare dal basso. Soprattutto, sancisce il diritto di selezionare, rinuncia alla pretesa di non tralasciare alcunché, in un horror vacui incompatibile con la riduzione effettiva delle ore di lezione e con l’immissione prepotente di nuove opere novecentesche nel canone, impensabili fino a trent’anni fa, allorché nella scuola superiore non si andava mai più in là di Carducci o al massimo di Pascoli, e non solo Calvino o Gadda erano del tutto impensabili, ma perfino D’Annunzio, Pirandello e Svevo erano a mala pena dei nomi.
     Finché si presumeva che il canone fosse la somma di una lenta sedimentazione di testi, il dibattito languiva, reso quasi superfluo dalla possibilità di incrementarlo senza i traumi di dolorose esclusioni. Da quando però ci si è resi conto che il canone, per quanto ambisca a essere una totalità, comporta che “l’elezione di un oggetto alla fama perenne spesso porta con sé la cancellazione di un altro oggetto”, (nota 3) la memoria viene paradossalmente a non potere più fare a meno dell’oblio. (nota 4)  Se poi il ricordo viene sanzionato dall’alto, come nel mondo anglosassone, dove nel caso inglese appena scorso si può scegliere tra Sciascia, Moravia, Primo Levi, Bossi Fedrigotti, ma senza la possibilità di leggere a scuola Pavese, Vittorini, Fenoglio, Tondelli e chissà quanti altri ancora, la polemica diventa rovente, come è avvenuto negli Stati Uniti soprattutto a livello di canone universitario, tanto che scherzosamente, partendo dal termine “canone”, una nota e autorevole rivista americana di teoria della letteratura, “New Literary History”, ha intitolato un suo fascicolo sul canone (XXV, Summer 1994) “Canonade”, “cannonata”, “cannoneggiamento”. Lo scontro è complicato da ragioni ideologiche e politiche che negli Stati Uniti vedono fronteggiarsi, per schematizzare, una destra conservatrice in genere legata alla cultura occidentale e una sinistra innovatrice più sensibile al multiculturalismo e a quanto proviene dall’Asia, dall’Africa, dal Sud America.
     Hanno dunque pienamente ragione quanti sostengono che anche il canone è una costruzione che specie nella cultura anglosassone si rifà non tanto, come in un’Italia dove per lungo tempo la letteratura è andata a braccetto con la retorica, a modelli di stile, quanto a valori di natura estetica, morale, civile legati alle istituzioni sociali. In ogni caso esso è soggetto al relativismo della storia anche se ha la presunzione che le tavole della legge emanate siano assolute. L’attuale battaglia contro l’assolutizzazione del canone mira appunto a non cancellare la diversità, soprattutto in letteratura, che è per definizione il luogo della polisemia e delle differenze. Aggiungerei perfino che la letteratura è positivamente impura, o meglio ancora spugnosa, perché ha la vocazione di assorbire elementi anche non letterari, essendo parte viva e forte di una cultura assunta nella sua pluralità di campi e di esperienze, dove idee, domande, inquietudini sono più fitte che in altre discipline. Diventa allora del tutto legittimo l’appello caloroso di Romano Luperini, secondo cui la letteratura non va studiata solo per ragioni professionali, in vista di una conoscenza dei suoi canoni da conseguire attraverso mere competenze tecniche, per altro indispensabili, ancorché insufficienti, ma anche e soprattutto per il suo valore formativo e democratico, per l’abito critico al quale essa educa con la complessità multidirezionale del suo codice. (nota 5)
     Che oramai il canone della letteratura italiana non sia più da limitare ai soli classici della nostra tradizione è confermato dalla situazione americana, che può comprendere, insieme con gli Stati Uniti, il Canada. Nelle università di questi paesi gli autori più studiati sono ancora Dante, Petrarca e Boccaccio, con una conferma dell’interesse per Machiavelli, Ariosto e Tasso. Nel contempo però si sta affermando un’attenzione, in Italia pressoché inesistente, per le scritture femminili del Cinquecento e per le autobiografie di mistiche. Esistono poi centri di interesse localizzati per Marino e per il Barocco (a Toronto). Ma insieme si nota un’esplosione di studi per Vico, molto superiore a quanto avviene in Italia, dove Vico paga forse la colpa di essere considerato il padre dello storicismo, anche se è certissimo che questa etichetta gli sta troppo stretta. Sta progredendo, di là dall’occasione centenaria, la risonanza di Leopardi, visto come rappresentante della cultura moderna, anche in reazione alla moda oggi declinante del postmoderno. Del Novecento sono ormai da considerare classici negli States D’Annunzio e Marinetti, specie per quello che si è fatto e si fa a Yale, ma anche Gramsci, visto che a Notre Dame esiste un’attiva International Gramsci Society. Italo Calvino è il più letto e amato, ma accanto a questo scrittore tanto vicino al mondo accademico si incontra nel canone dell’italianistica d’America Dacia Maraini, frequentata naturalmente dalla critica femminista, come del resto è avvenuto in Olanda. Un altro capitolo molto battuto è quello della letteratura d’emigrazione e degli autori italoamericani, per i quali esistono cattedre che si occupano esclusivamente di questo settore. Del resto la letteratura d’emigrazione possiede ormai una sua identità articolata in correnti e ricca di una bibliografia in espansione.
     Tradotta nella cultura italiana, si può dire che questa attitudine riveli il passaggio da un canone in cui la letteratura aveva un’accezione umanistica o, nel peggiore dei casi, bellettristica, a un’accezione antropologica, pronta ad accogliere anche la letteratura non letteraria. Da questo punto di vista un antecedente oggi rivalutato è il canone che si può trarre da Tiraboschi, dove figurano scienziati, storiografi, filosofi e l’attività di accademie, biblioteche, università, musei. Le difficoltà nascono evidentemente da un’estensione del canone che è diventato un insieme pluralistico di un’organizzazione complessa. Proprio un italianista, Ezio Raimondi, ha assegnato alla sua disciplina quale obiettivo più adeguato a una critica veramente moderna quello dell’”ampliamento di un canone, la creazione di nuovi modelli”, (nota 6) da realizzare annettendo alla letteratura “le sue periferie in espansione”, (nota 7)  con una continua ridefinizione dei suoi territori, di cui la ricordata letteratura d’emigrazione è un esempio probante anche in senso visivo e spaziale perché nei suoi incroci internazionali sembra annunciare l’avvento di una letteratura “nazionale-mondiale”. (nota 8)  Si tratta però di trovare strumenti adeguati che possano governare la politica aggregativa disegnando mappe economiche. In questo senso un mezzo collaudato nella prassi scolastica è l’antologia. Tuttavia lo scarso successo di cui in America gode il genere dell’antologia, almeno quando il florilegio riguarda l’italianistica, induce a dedicargli un piccolo supplemento di riflessione, sempre in rapporto al nostro problema del canone.
     L’antologia non è certo il solo veicolo che aiuta a costituire un canone: ad esso andrebbero aggiunti per lo meno le riviste e i giornali, le accademie, i premi letterari, le collane di classici, da quella di Laterza di cui discussero insieme, ai primi del Novecento, Croce e Serra, agli attuali Meridiani, per il nostro secolo. Ciò non toglie che anche l’antologia abbia un ruolo spesso decisivo nell’imporre un canone: si pensi all’opera del già ricordato Muratori per l’Arcadia, o, per il Novecento, alla raccolta dei Lirici nuovi dovuta ad Anceschi o dei Novissimi curata da Alfredo Giuliani, per non dire delle imprese di Sanguineti, Fortini, Mengaldo. Nella scuola la fortuna dell’antologia ha vissuto nel dopoguerra due fasi molto diverse, sempre che si continui a ragionare a grandi linee, perché dapprima il suo ruolo è stato ancillare rispetto ai manuali di storia della letteratura, poi è divenuto preponderante. Fino agli anni Sessanta la letteratura italiana si faceva quasi soltanto sul manuale, mentre l’antologia era tutt’al più fatta leggere a casa, quasi mai senza guida. Aveva una funzione complementare e solo contenutistica, senza analisi stilistiche, perfino quando, come nel caso dei volumi curati da Luigi Russo per la Sansoni, tra i suoi curatori figurava un maestro della critica stilistica italiana come è stato Mario Fubini. Dagli anni Settanta, a séguito della diffusione nella scuola dei metodi formalistici, strutturalistici e narratologici, si è avuto un richiamo molto cogente a favore di un ritorno alla lettura diretta dei testi, e le antologie per le scuole si sono arricchite di note anche stilistiche, guide alla lettura e molti apparati che utilizzano i metodi della semiotica. La svolta nella storia dei testi scolastici è ravvisabile nell’apparizione del Materiale e l’immaginario di Ceserani e De Federicis (1979).
     Un limite generale delle antologie scolastiche di oggi è che finora non hanno il coraggio della scelta, non sono equiparabili ai “sillabi” del sistema anglosassone, vorrebbero dare e dire tutto, offrendo un materiale sovrabbondante che disorienta proprio in quanto, come si è visto, la giurisdizione della letteratura italiana ha annesso tanti territori fino a poco tempo fa impensabili. Rispetto a tutto ciò una soluzione da meditare è quella di canoni multipli tra cui l’insegnante è chiamato a operare una scelta, perché in questo modo il percorso didattico possiede una sua flessibilità, consentendo delle libertà che dovrebbero però essere organiche, evitando nel contempo, grazie all’indicazione di qualche punto di riferimento, la grande incertezza in cui ci si trova oggi, in un giusto mezzo che evita sia l’autoritarismo sia l’anarchia di un tutto indifferenziato. Rimane da affrontare, e lo vedremo più avanti, il problema di un canone comunque molto selezionato che taglia fuori molti altri percorsi possibili, perché il criterio è in questo caso quello alternativo e non cumulativo, dovendosi procedere non già per sommatoria, ma per sostituzione o per ridimensionamenti. Un possibile rimedio è una più stretta cooperazione tra il momento analitico dell’antologia e il momento sintetico del manuale di storia letteraria.
     Su ciò è intervenuto molto di recente il già ricordato Luperini. (nota 9)  Egli nota che oltre Atlantico sono individuabili due posizioni intorno al canone criticabili per ragioni opposte. Da una parte ci sono Harold Bloom e George Steiner, che coltivano una prospettiva “neoplatonica”, credendo che il canone si fondi sui valori eterni dell’arte, identificabili nel modello occidentale, che viene pertanto assolutizzato, ignorandone il legame sociale e i rapporti con il mercato. Dall’altra parte c’è il decostruzionismo che, rifacendosi prima a Nietzsche e oggi a Derrida e a Foucault, nega la possibilità dei valori canonici perché col sottolineare l’irripetibilità dell’opera la vincola a una situazione immediata, escludendo la possibilità di un sistema, di una organizzazione. Tutte e due le posizioni trafugano al canone il carattere storico che gli appartiene, pragmatico e relativo. In realtà anche negli Stati Uniti si è creata una terza via diversa da quella dell’assolutizzazione o dell’annientamento del canone, ed è proprio molto simile alla soluzione proposta da Luperini, sostenitrice della relativizzazione e mobilità del canone, nato “da un insieme di valori comuni – da affermare o da contrapporre ad altri – che conservano comunque una durata nel tempo” da cui deriva loro “un carattere storico e relativo e dei quali sarebbe sbagliato sia pretendere l’eternità e la fissità sia ignorare l’esistenza”. (nota 10)
     È una posizione equilibrata da tenere in considerazione perché, come ha rilevato uno studioso del mondo classico, bisognerebbe sempre avere presente che il canone (nel suo caso quello antico) non deve più essere soltanto sinonimo mummificato di grandezza, chiarezza, armonia, magnanimità di propositi, stabilità, eternità, equilibrio, decoro, semplicità, ma implica una relazione dialettica con i loro contrari, il mutamento, la complessità, la molteplicità, la soggettività, l’assenza di significati. (nota 11)  Tuttavia, nell’attimo in cui non è più autoritario, il canone non è più nemmeno rassicurante, perché si va verso una pluralizzazione e quindi verso una serie aperta e molteplice di significati derivata dall’erosione di uno statuto che da unico si è fatto frammentario. Sul senso del continuo prevale il senso del discreto, della discontinuità, sul senso del valore eterno vince il senso della temporalità, con la conseguente frattura e polverizzazione dei sistemi di valori. Non sarebbe allora inutile sottolineare che da tutto ciò discende una maggiore responsabilità della scuola, che con i suoi insegnanti indica gli autori e i testi, e addirittura i modi di lettura. Calato in una dimensione problematica, in quanto pluralistica, il canone investe chi lo deve configurare di impegni molto onerosi, certamente superiori al prestigio sociale e ai corrispettivi economici goduti (si fa per dire) dagli insegnanti.
     Nel suo saggio già considerato Luperini, in disaccordo con quanti vorrebbero eliminare dalla scuola il manuale di storia letteraria, affida proprio a questo sussidio didattico il compito di illustrare anche i conflitti tra i canoni in concorrenza, seguiti lungo un filo diacronico ora continuo ora spezzato, ora costruito a tessere una trama ora distrutto, come una tela di Penelope. In effetti i canoni sono un prodotto dal mandato sempre provvisorio, riflesso di un particolare programma educativo di una società e per questo di continuo modificati, per adattarsi a esigenze sempre nuove. La prospettiva privilegiata viene allora a essere la storia dei generi, dal cui punto di vista, che instaura “organiche relazioni”, risaltano meglio sia i collegamenti sia i contrasti interni. Si pensi solo al primato dell’epica e della tragedia, generi storicamente aristocratici aventi protagonisti appartenenti alle classi dominanti, all’interno di una società di corte di antico regime, dove contestualmente si assiste all’emarginazione di generi più eversivi quali la satira o la commedia. E nella società borghese a prevalere sarà il genere del romanzo.

     D’altra parte anche dall’America si è dato, con Alastair Fowler, lo stesso suggerimento favorevole alla prospettiva dei generi letterari, che consentono di raggruppare singoli testi in una tipologia più ampia, nel cui confronto dialettico agevolato dalla relativa omogeneità possono essere meglio individuati i casi migliori, utili anche, per l’interazione che instaurano, ad allargare le maglie del sistema. Sicché alla fine anche per Fowler “dei molti fattori che determinano il canone, il genere è di sicuro tra i più decisivi”. (nota 12)  Il suggerimento è interessante soprattutto perché di solito le storie letterarie sono indifferenziate, impassibili, senza sobbalzi o trasalimenti, con un teleologismo di ascendenza idealistica. È nota, credo, la divertente definizione che Giorgio Manganelli ha dato della Storia della letteratura italiana di De Sanctis, ritenuto il “grande urbanista” della nostra italiana, il “sindaco che vuole risanare, eletto e stimato da forze ordinatamente progressiste, che vogliono conti chiari e niente bighelloni e puttane per le strade”. (nota 13)  Voleva dire che quella di De Sanctis è una storia hegeliana, dialettica, unitaria, filosofica, sistematica, e probabilmente perfino melodrammatica, come pensava Debenedetti. È tuttora la migliore che abbiamo, ma non si presta a rappresentare il pluralismo dei canoni, le alternative e l’agonismo, sacrificati in nome di una serrata unità letteraria che voleva essere di conforto e di supporto all’unità politica da poco conquistata dall’Italia.
     Oggi semmai la situazione vorrebbe che ci si mettesse nella “prospettiva dell’integrazione europea”, come non manca di avvertire di nuovo Luperini. In verità l’esigenza “di superare la prospettiva esclusivamente nazionale” (nota 14)  non si deve solo a questa opportunità ma alla consapevolezza, ribadita da Bloom, dell’esistenza di un canone occidentale tanto più interagente nelle sue parti nel Novecento, allorché non è un’iperbole sostenere che con la tecnologia il mondo è ormai diventato un villaggio globale. E all’allargamento dei confini nazionali si è indotti dalla mediazione che alla formazione del canone dispiegano i generi letterari, le cui forme attraversano con leggerezza ogni barriera di lingua. Si può ancora dubitare che Calvino sia più prossimo a Queneau o a Perec, a Conrad o a Hemingway che a Gadda o a Cassola, o che Montale abbia un grado di parentela maggiore con Eliot che con Ungaretti?
     La conquista di una latitudine europea deve però comportare un ridimensionamento anche drastico del canone italiano, almeno dal Seicento in avanti. Una volta immesso Shakespeare ha ancora senso studiare il nostro Della Valle? E che dire di Tassoni di fronte a Cervantes, o Achillini davanti a John Donne, per non parlare della statura dei romanzi di Chiari al cospetto di Prévost o di Laclos, o addirittura di Fielding, di Sterne o di Richardson? Se non sembrasse di volere infierire, i piatti della bilancia sarebbero a noi sfavorevoli anche in un parallelo tra Fogazzaro e Proust, Tozzi e Dostoevskij, Giuseppe Raimondi e Valéry, Vittorini e Dos Passos. Forse, che questi duelli a distanza siano impietosi è confermato dal diverso stato di salute di una materia tradizionale, la letteratura italiana, oggi piena di malanni, e di una materia che solo da poco si è ricostituita con un assetto moderno, la letteratura comparata, che invece ha la baldanza giovanile delle discipline in crescita. Non bisogna però esagerare. Innanzitutto non si possono accettare pretese egemoniche fondate quasi esclusivamente su ragioni numeriche, come quelle di certi anglisti, per i quali la comparatistica deve essere insegnata da loro perché oggi la lingua e la cultura inglese sono quelle più esportate.
     Se la si affronta in termini strettamente scientifici, questa posizione è inaccettabile, perché la letteratura comparata deve essere centrata sulla lingua e sulla cultura del paese in cui la materia viene insegnata. Di conseguenza è giusto inserire nel canone italiano i grandi scrittori dell’Occidente, ma solo quelli, e comunque in un disegno di storia letteraria che mantiene il suo cardine nell’Italia, per cui, per fare un esempio, a Cervantes si può fare posto, ma a un Gracián è da preferire un Tesauro, come forse per noi un Marino rimane comunque più significativo di Góngora. Oppure, per ritornare ai casi accennati, anche chi si occupa di letteratura italiana non può più trascurare Proust, ma per comprendere certi fenomeni di primo Novecento non si può nemmeno ignorare Fogazzaro, anche se la sua arte non è pari a quella di taluni suoi contemporanei europei. Di là da ogni storicismo si deve insomma conservare l’identità delle proprie origini, e costituire un canone che da una parte non sia chiuso ma che dall’altra sia costruito in prospettiva italiana.
     Con una nuova tassonomia multinazionale del canone si riaffacciano però le difficoltà dovute alla sovrabbondanza tante volte affioranti in questo mio intervento. Nuovi vettori hanno smisuratamente ingrandito il perimetro della letteratura italiana, sia per lo sguardo che non può più essere solo nazionale, sia per il nuovo spazio accordato alle sue testimonianze periferiche, sia ancora per un asse temporale che esige un’udienza sempre maggiore del presente. Il vero problema per il Novecento non è tanto quello di una distanza troppo breve per vedere con chiarezza gli autori da canonizzare, quanto il compito di mettere ordine in un magma che Bloom ha giudicato un’”età caotica”, la cui entropia deve non poco allo smarrimento riassunto da Giulio Ferroni nei termini di “angoscia della quantità”. (nota 15)  Oltre tutto, pur riconoscendo uno spostamento a favore del nostro secolo, l’operazione aggiuntiva non può essere automatica, perché occorre ripensare dalle fondamenta l’intero sistema letterario, non foss’altro per la ragione banalmente pratica di dovere conciliare nei programmi scolastici queste esigenze così ampliate con i tempi dell’insegnamento, che sono rimasti gli stessi, quando addirittura non si sono ristretti.

     In questa situazione complessa, si prospettano in chiusura alcune proposte che cercano di tenere conto anche di come si stanno comportando gli altri paesi. Alla luce di queste esperienze, si potrebbero proporre programmi con canoni plurimi e alternativi. All’insegnante spetterebbe la scelta di percorsi di letture per blocchi rappresentativi ma realisticamente ridotti. Per ovviare all’inconveniente delle lacune rappresentate dai testi omessi, può essere reintrodotto il manuale di storia letteraria per collegare o suturare gli interstizi tra un testo e l’altro, lungo moduli costruiti per generi, ma anche per poetiche, per movimenti. La storia della letteratura va però organizzata in modo non anodino e indifferenziato, ma funzionale ai blocchi dei testi canonici che si vengono studiando, adeguandola a ogni tipo di percorso e di letture. Per evitare che lo studente possa credere che il canone svolto abbia un valore unico e assoluto, occorre che i conflitti che storicamente sono sempre sottesi alla formazione dei diversi canoni non siano più ristretti alla pertinenza degli addetti, ma presentati in modo problematico agli stessi studenti. In questo modo è forse possibile inculcare il senso del valore sempre relativo dei canoni, dovuto anche all’intervento di un tipo di memoria diverso da quello fino a oggi impiegato nella nostra scuola, almeno nelle intenzioni di chi ha preparato i canoni.
     Secondo Aristotele esistono due forme di memoria, la “mneme” e l’”anamnesis”. La prima è totalizzante e ricorda tutto, in modo passivo e patologico, con un nevrotico processo di addendi sempre sommati; l’anamnesis invece è processo attivo, con cui si compie una ricerca, attraverso un lavoro di selezione e di ricostruzione. Sembra essere venuto il momento di stabilire un nuovo canone secondo una memoria attiva, e in quanto tale non indifferenziata. Si tratta di un filtro che per la storia della letteratura italiana oggi risulta per un verso indispensabile, ma per un altro verso più realizzabile che nel passato. Esso è più necessario che mai perché il cumulo dei dati, la vocazione comparatistica e interdisciplinare esigono una sintesi, che nell’arcipelago dell’italianistica spetta alla disciplina più ampia; è più facile da mettere in atto perché oggi esistono tante discipline che almeno nell’università sono diventate autonome, dalla filologia dantesca alla letteratura medievale e umanistica, dalla letteratura del Rinascimento alla letteratura teatrale italiana, dalla letteratura italiana moderna e contemporanea alla storia della critica, ecc. Si possono così istituire dei canoni più capillari e specifici dell’area cronologica, da spendere magari con il nuovo sistema dei crediti formativi appena introdotto anche in Italia.
     Sul piano pratico l’insegnamento giunge di nuovo da Aristotele, il quale nell’Etica nicomachea compie per l’appunto un significativo ricupero etimologico della parola “canone”, che viene dal greco “canòn”, e vuol dire “canna”, “regolo”, “unità di misura”. Ora, già in Aristotele è molto chiaro il valore relativo del canone, da lui espresso con l’introduzione del concetto di “conveniente”, con cui “correggere la legge là dove essa è insufficiente a causa del suo esprimersi in universale”. E con molta congruenza il maestro di color che sanno soggiungeva che “di ciò che è indeterminato, anche la norma deve essere indeterminata, come è il regolo di piombo che si usa nell’edilizia di Lesbo: esso infatti si piega alla forma della pietra e non rimane rigido” (Eth. Nic., V, 10, 1137 a-b). Il canone è costruzione umana, flessibile e mutevole nel tempo, espressione di valori sociali relativi al periodo storico in cui viene formulato. Allora, siamo rivoluzionari fino in fondo: ritorniamo alla lezione di Aristotele.

[torna alla sintesi]


APPROFONDIMENTI/3

PLATONE, NIETZSCHE, GRAMSCI E EINSTEIN SUL CANONE DELLA SCUOLA
di Vincenzo Fano
(Istituto di Filosofia dell’Università di Urbino, Associazione Progetto per la Scuola)
v.fano@uniurb.it

     Nella Repubblica di Platone, poco dopo l’allegoria della “caverna”, si riprende a discutere dell’educazione dei custodi (nota 16). E’ importante che i giovani destinati al governo vengano sottoposti a ciò che non si presenta come univoco, ma a ciò che stimola il contrario. Così l’uno si contrappone naturalmente ai molti, e quindi, parlando di numeri si viene educati nell’arte dialettica, che è fondamento della filosofia. Perciò l’aritmetica e anche la geometria hanno non solo un valore pratico, ma anche fanno sì che l’anima si sollevi dalla sensibilità verso l’intuizione delle idee. La matematica, dunque, è la prima disciplina che educa al Bene, inteso come ciò che illumina la vera realtà al di là delle apparenze sensibili.
     Lo stesso problema si pone Antonio Gramsci nel 1932, in un bel passo dei Quaderni (nota 17). Egli nota come per formare degli intellettuali (i nuovi custodi?) bisogna essere educati a stare molte ore a tavolino, occorre comprendere che cosa sia un processo storico, bisogna imparare qualcosa in modo disinteressato, senza pensare alla sua applicazione (nota 18), qualcosa che fornisca anche esempi di azione virtuosa. Tutto questo nella Scuola italiana è stato reso possibile mediante l’educazione classica, cioè lo studio del greco e del latino. Attraverso l’apprendimento di queste lingue, i discenti imparavano un metodo e una disciplina e soprattutto diventavano capaci di andare al di là della loro quotidianità, per così dire, si elevavano rispetto all’immediata applicazione. Però, prosegue Gramsci, questo modello è in crisi, per il fatto che con la Rivoluzione industriale e la società della tecnica il paradigma greco-romano ha valore di modello etico solo per la classe borghese che dirige i tecnici senza sapere nulla di tecnica (nota 19).
     Effettivamente nell’azione consapevole e democratica non possiamo certo imparare da Leonida e Pericle, in quanto viviamo in un mondo che è profondamente diverso dal loro. Ancora Goethe alla fine del Settecento aveva uno stile di vita che poteva essere confrontato con quello di Socrate, ma gli ultimi duecento anni hanno cambiato profondamente la società.
Inoltre, per comprendere la formazione del canone della Scuola nel nostro Paese non dobbiamo dimenticare la questione della lingua italiana, posta da Francesco De Sanctis, primo ministro dell’istruzione dell’Italia unita. La lingua dei Promessi sposi allora era parlata da forse non più del 5% degli italiani. Però, come ben sappiamo, da questo punto di vista la televisione ha potuto più del celebre romanzo.
     Ecco il canone della nostra scuola: la matematica, il greco e il latino, la lingua italiana. A questo s’aggiunge la Filosofia, che nella riforma Gentile (nota 20) del 1923 rappresenta il culmine del sapere. Eccentricità italiana - in nessun altro paese del mondo parecchie migliaia di studiosi possono guadagnarsi da vivere studiando e insegnando filosofia nelle scuole secondarie - che non posso che benedire in quanto docente di filosofia. Essa è comunque stata in parte moderata dai successivi interventi legislativi.
     Tutto questo era in crisi nel 1932, quando scriveva Gramsci, ed è in crisi ancora oggi, poiché non si è costituito un canone alternativo. L’autore dei Quaderni aveva in effetti avvertito che sarebbe stato molto difficile trovare un nuovo paradigma.
Spesso si dice che siamo in una fase di transizione, che siamo in un’epoca rivoluzionaria, che sfocerà in un nuovo assestamento del sapere. Non credo molto alla distinzione fra fasi rivoluzionarie e fasi statiche. Certo ci sono momenti che rappresentano dei veri e propri salti, ma essi sono preceduti da un lungo periodo di preparazione. Immaginiamo una corda che ha una portata di due tonnellate, alla quale appendiamo dei pesetti di un grammo uno alla volta. Certo sarà il duemilionieunesimo pesetto che provocherà la rottura; ma questa non sarebbe certo avvenuta senza i precedenti duemilioni di pesetti. Senza contare che qualcosa che da un certo punto di vista è una rivoluzione, da un altro è perfettamente continuo, come notava l’epistemologo Stephen Toulmin (nota 21)  criticando il punto di vista di Thomas Kuhn.
     Il problema non è che siamo in un periodo di transizione, ma che dopo la rivoluzione industriale e l’avvento della società di massa, caratterizzata oltretutto dalla multiculturalità, non è certo possibile scrivere delle nuove “tavole della legge”. Occorre invece accettare, con una bella metafora di Nietzsche, delle tavole scritte solo per metà (nota 22).
     Questo l’aveva già chiaro Giovanni Papini, quando, nel 1914, nel suo bell’articolo provocatorio “Chiudiamo le scuole” (nota 23), denunciava i danni educativi di una scuola gesuitica, coercitiva e ripetitiva. E, dopo la riforma Gentile, Piero Gobetti si scagliava contro un’organizzazione della scuola illiberale e classista, “La scuola delle padrone, dei servi, dei cortigiani” (nota 24).
     Al centro di una Scuola per una società dominata dalla scienza e dalla tecnologia, democratica e multiculturale, non può esserci un canone altamente formale, basato sulla matematica e le lingue antiche. Dobbiamo accettare che attraverso la scuola non si sviluppi tanto un processo di formazione, accanto a quello ineludibile di informazione o istruzione, ma un progetto di liberazione. Lo studente deve perdere quel fare dogmatico e irriflesso tipico dell’infanzia e dell’adolescenza. Per questo la scuola deve essere pubblica, proprio per garantire all’individuo di ricevere un’educazione aperta alla pluralità. Molti liberali dei nostri giorni difendono il diritto delle famiglie a educare i loro figli come meglio credono. E io mi chiedo chi difende questi figli da un’educazione illiberale e di parte?
La scienza è dubbio, valutazione di diverse possibilità, rimessa in discussione. La democrazia è tenere sempre conto dei punti di vista degli altri e avviare processi politici di decisione collettiva per determinare quali siano i fini che vale la pena perseguire. La multiculturalità è capacità di far dialogare i propri ineliminabili pregiudizi con quelli degli altri. La Scuola, oltre a istruire deve liberare gli individui, in modo da metterli in grado di affrontare questi difficili compiti.

     Fin qui abbiamo detto cosa non possono essere le nuove tavole; occorre anche qualcosa in positivo; benché le nuove tavole siano scritte solo per metà, esse non sono comunque del tutto vuote.
Per prima cosa occorre dire che la distinzione fra ciò che è canonico e ciò che non lo è non è netta, ma di grado. Ad esempio, nel progetto di riforma dei programmi proposto dalla commissione Brocca, spesso si possono individuare alternative equivalenti. Un ottimo esempio è quello del programma di Filosofia della terza liceo, nel quale Platone e Aristotele sono autori imprescindibili, mentre per il resto il docente può scegliere di sviluppare il pensiero presocratico, oppure il pensiero ellenistico, oppure il pensiero medievale.
     Resta poi aperto il problema del processo storico. Secondo Gramsci, lo studio del latino consentiva al discente di vedere un intero sviluppo, una lingua ormai morta, che dalle Dodici Tavole ad Amiano Marcellino si concludeva, con le sue fasi e i suoi risultati. Questo può essere un paradigma per una visione teleologica della storia. Dobbiamo invece affrontare il problema invertendo la prospettiva.
Il processo storico lo cogliamo solo alla fine, guardandoci all’indietro verso ciò che è accaduto.
     Questa è la nozione darwiniana di evoluzione, in accordo con la quale il batterio non sa che diventerà uomo, mentre l’uomo sa che è stato batterio. Allora storicizzare non significa prendere le mosse dall’antichità e arrivare ai giorni nostri, ma, viceversa, imparare a considerare tutto ciò che ci circonda come il risultato (nota 25)  di un processo in cui hanno agito il caso e la progettualità umana. In questo modo il discente comincia a sollevarsi dalla quotidianità; come diceva Platone “percepisce il contrario”. Ad esempio, la città in cui vive è strutturata in un certo modo, ma, egli si rende conto che avrebbe potuto anche essere molto diversa. Inizia così il suo rapporto dialettico con la realtà. Dunque la storia.
     Tuttavia, come giustamente affermava Nietzsche (nota 26), non tanto la storia monumentale, che raccoglie le grandi imprese del passato, per portarle come esempi all’uomo d’oggi, né la storia archeologica, meticolosa ricostruzione del passato fine a se stessa, che porta alla formazione di vere e proprie “enciclopedie ambulanti” incapaci di agire, perché sopraffatte dalla sensazione che tutto sia già accaduto, quanto la storia critica, che mostra gli errori del passato; condizione non certo sufficiente affinché essi non si ripetano nel futuro, ma quantomeno necessaria. In questo modo la storia diventa anche paradigma morale. Soprattutto la storia contemporanea, che finalmente abbiamo cominciato a studiare nella Scuola dopo la riforma dei programmi di storia promulgata da Berlinguer.
     L’altro punto sottolineato da Gramsci è quello del sollevarsi definitivamente al di là del quotidiano studiando qualcosa che abbia significato per sé stesso. Con buona pace di Platone e degli umanisti, che non avevano ancora visto la seconda rivoluzione industriale, probabilmente la disciplina che può svolgere meglio questo ruolo è lo studio delle leggi della fisica. Nella nostra Scuola, purtroppo, chi insegna fisica è quasi sempre laureato in matematica e quindi ha appreso una concezione grammaticale o formale di quella materia. Mi è capitato di entrare in una quarta liceo scientifico, che stava studiando con l’insegnante di fisica la termodinamica, e nessuno studente aveva pensato che il frigorifero, che troneggia nelle loro cucine, è una macchina termica!
Le leggi fisiche non valgono nella realtà e gli ingegneri non costruiscono le nostre automobili e i nostri calcolatori utilizzandole, ma senza di esse nessuno avrebbe mai pensato che queste apparecchiature fossero realizzabili. E’ vero che Guglielmo Marconi quando inventò la radio non era laureato, ma solo la concezione altamente astratta implicita nelle equazioni dell’elettromagnetismo messe a punto da Maxwell trenta anni prima, poteva far pensare al giovane inventore bolognese che fosse possibile spedire delle onde da un luogo all’altro dell’atmosfera alla velocità della luce.
      Le leggi della fisica non serviranno allo studente nel suo lavoro, anche se andrà a fare l’ingegnere, ma gli insegneranno che questa realtà, così complessa e disordinata, non esaurisce la nostra conoscenza. Esistono infatti delle entità a noi invisibili, che hanno proprietà straordinarie. Scoprire che esistono onde elettromagnetiche non visibili, che la materia è fatta di atomi e che questi, a loro volta sono costituiti di elettroni e nuclei, e che questi nuclei possono produrre quantità immense di energia, questa è una vera e propria uscita dalla “caverna” di Platone, benché parziale. Einstein non è meno importante di Omero, nell’aiutarci a educare i nostri ragazzi.
Dunque non più una scuola in cui il canone sia dato dalle lingue antiche e dalla matematica, né dalla filosofia, come voleva Gentile, o dalla lingua italiana come desiderava De Sanctis, ma dalla storia critica e dalle leggi della fisica.

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APPROFONDIMENTI/4

IL CANONE NELLE MATERIE SCIENTIFICHE
di Fabrizio Monari
(Liceo Scientifico Statale Fermi di Bologna, Associazione Progetto per la Scuola, SISS dell’Università di Bologna)

     Nell’ambito delle materie scientifiche, ed in particolare della matematica, la questione di un possibile “canone” è altrettanto delicata.
Se infatti pensiamo al canone come normatura, come lista, come insieme di contenuti, regole e procedure (e non è, si badi, l’unica possibile lettura del termine), potremmo dire che per la matematica il “canone”, per tutti gli aspetti precedenti ma anche in senso epistemologico, è tuttora quello definito dalla Riforma Gentile, lontana nel tempo, ma ancora vissuta e partecipata. Pur cercando di evitare eccessive semplificazioni, mi sembra che la scuola italiana, nel suo complesso, rappresenti in maniera adeguata un sistema in cui la “separazione delle culture” ha trovato una solida sistemazione.
     Nell’immaginario collettivo, la matematica e le scienze sono ancora confinate nella sfera in cui agisce, perdonate la provocazione, il vituperato e prosaico “esprit de géometrie”, qualcosa per predestinati, gente dagli occhiali spessi e l’andare trasandato. Nulla, dunque, che possa far parte dell’esperienza umana, in termini di possibilità di formare, comunicare, valutare e modificare elementi di sapere.
Il “credito sociale” si forma indipendentemente dalle conoscenze scientifiche, che vengono ancora percepite (perdonate la semplificazione, ma i fatti sono questi) come nulla ostanti e pur tuttavia non necessarie ai fini della crescita personale e della “buona partecipazione” dei cittadini alla vita pubblica.
     Una prima conseguenza consiste nel fatto che le discipline scientifiche e più drammaticamente la matematica, vengono tuttora confinate nella loro dimensione funzionale: la giustificazione che più spesso si sente addurre per sostenere la necessità del loro studio ricade sulla loro dimensione di officina per strumenti applicativi, per la risoluzione di problemi forniti da un presunto “reale”. Il paradosso che prende forma è quindi quello di un sapere che è solo nominalmente correlato a dinamiche sociali e, benché nelle intenzioni sia destinato a proporre soluzioni e percorsi attuali e costruttivi, si trova, in effetti, ad allontanare le conoscenze a cui attinge e ad innescare processi che non sono efficaci per ridefinire il quadro cognitivo dello studente. In definitiva, anziché provocare apprendimenti su quelle strutture del “reale” alle quali si riferisce, e sulle complesse dinamiche mediante le quali l’uomo può interagire con esse, l’insegnamento della matematica sembra aderire all’idea gentiliana delle discipline scientifiche come mondo senza vita.
Anche i metodi e gli strumenti della pratica didattica (vorrei evitare, in questa sede, riferimenti troppo espliciti ai contenuti) sono configurati in maniera tale da prefigurare un allontanamento da quel reale che invece si invoca come referente semantico: il pensiero matematico viene così amputato delle più importanti fra le sue funzioni.
     Un esempio di singolare forza è dato dall’insegnamento dell’algebra e della geometria. L’algebra, sulla quale la riflessione dei ricercatori è stata, negli ultimi venti anni, assai intensa e feconda, si ritiene definita dalle sue funzioni di astrazione, individuazione, generalizzazione e trasformazione: ebbene, il percorso del biennio di istruzione secondaria superiore sembra ignorare (o, se vogliamo attenuare il termine, sottovalutare) tali funzioni. Non è raro il caso in cui tale insegnamento viene confinato in quella che gli addetti ai lavori chiamano “dimensione sintattica”, ignorando la potenza del pensiero algebrico in termini di sintesi, di generazione di saperi, di interpretazione di relazioni e fatti.
     Lo studente può quindi risultare il soggetto di un tirocinio addestrativo al quale non può dare un senso nell’ambito dei suoi processi cognitivi; come contrappasso, non è in grado di correlare l’imponente apparato di formule e trasformazioni alle esigenze di situazioni in cui spesso sono necessari e sufficienti elementari schemi di proporzionalità o di linearità.
L’attuale insegnamento della geometria, d’altro canto, risente del tradizionale (ed ammirevole) impianto assiomatico-deduttivo, che ha costituito da sempre il veicolo per attingere la sostanza del rappresentare, convertire, formalizzare, argomentare e dimostrare. Un insegnamento fondato su assioma-definizione-teorema-corollario, in cui la fase di concettualizzazione viene bruscamente anticipata, oltre che inefficace, risulta oggi impraticabile, per una serie complessa di motivi, tra i quali si può segnalare almeno la generale difficoltà dello “studente medio” (accettiamo per un istante tale categoria, non presente ai tempi di Gentile) di fronte a problemi linguistici di alto livello, come quelli che si pongono nell’ambito della geometria euclidea.
     L’insegnamento della geometria euclidea, dunque, sembra oggi affetto da una “sofferenza da posizionamento”: in molti bienni di istruzione secondaria, di fatto, l’insegnamento della geometria si riduce ad una attività di definizione e compilazione, mentre il dispositivo della dimostrazione viene sostituito ormai ovunque da quello della verifica o da quello della conferma.
Il “canone” matematico, nel biennio di insegnamento secondario superiore, si è retto finora su questi due nuclei, ed è così fermamente definito da costituire una sorta di imprinting per gli studi successivi: i due linguaggi dell’algebra e della geometria, cui dedichiamo tutti (studenti e insegnanti) così tante energie, continuano a riferirsi a cose serie, ma talvolta sembrano nasconderle.
     Di questo stato di difficoltà della matematica, e degli alti costi sociali ad esso conseguenti (in termini di abbandoni, quantomeno!) si sono fatti interpreti anche i legislatori. In Italia, il legislatore ha proposto alla fine degli anni ottanta alcune importanti ipotesi di revisione, o quantomeno di rilettura, dei programmi di matematica: iniziando (significativamente) dal biennio, i programmi del Progetto 92 e del Piano Nazionale per l’Informatica prevedono una nuova organizzazione dei percorsi didattici, basata su cinque nuclei fondanti.
In questi documenti, è presente un tentativo di pensare la matematica come sapere che deve (e il cambio di prospettiva sta tutto in questa parola, che sostituisce il gentiliano “può”) essere inquadrata nella dimensione del cittadino: si parla finalmente di un sapere di uso e significato civile, pur senza accennare a standard di riferimento in termini di conoscenze e di competenze.
I recenti documenti dell’Unione Matematica Italiana (aprile 2004), invece, rappresentano un deciso passo in avanti in tale direzione, e sono il frutto di una approfondita e appassionata riflessione. Vengono indicati sette nuclei fondanti, tre centrati sui processi e quattro centrati sugli oggetti, e vengono dichiarate le competenze di base che ad essi sono correlate. Vale la pena di osservare che documenti analoghi, ad esempio il documento del National Council of Teachers in Mathematics, elaborato negli Stati Uniti, o quello del Centre de Recherche sur l’Enseignement des Mathématiques, elaborato in Belgio, presentano di fatto lo stesso impianto, pur riconoscendo diversi nuclei (dieci per il NCTM e cinque per il CREM).

     Possiamo ora riavvicinarci al concetto di “canone”, dal quale siamo partiti, mediante la nozione di ‘standard’, che è un concetto dinamico ma problematico: si parla infatti di standard relativi a un paese, a una regione, a un ordine di scuola, a un singolo istituto, persino a un singolo corso. Perciò questo concetto va ripensato ogni volta rispetto all’ambito di riferimento.
Ne segue che quando parliamo di “canone” per una disciplina, dobbiamo porci il problema di cosa sia essenziale, pur tenendo presente che anche rispetto all’essenzialità esiste un problema: non è data una volta per tutte. Criteri orientativi per la scelta di nuclei e articolazioni, possono essere il potenziale di sviluppo delle capacità e delle competenze generali prima di tutto, e successivamente il potere generativo di altre conoscenze e il grado di verificabilità.
     Da questo punto di vista, ancora una volta il Piano Nazionale d’Informatica e il Progetto ’92 sono stati significativi, andando in questa direzione, in particolare nell’istruzione professionale, dove si è trattato – e si tratta – di una ‘guerra di frontiera’ da vincere, in termini di bisogni oggettivi, e della capacità di ottenere per essi una ragionevole soddisfazione.
La matematica, in questa prospettiva, non può più essere pensata come addestramento, e nemmeno come serbatoio di “soluzioni”, ma come strumento di comunicazione, come elemento irrinunciabile per una cosciente partecipazione alla vita sociale, come riferimento per la motivazione di scelte.
     Ancora, la matematica può essere il luogo della mente in cui attivare una dialettica fra noetica e semiotica, che permetta di realizzare, attraverso adeguamenti e rotture sui modelli preesistenti, un personale patrimonio di conoscenze.
La ricerca in didattica della matematica è oggi impegnata non tanto nel definire ipotetici contenuti di “matematica moderna” (il numero, la figura e la relazione sono a monte delle varie ipotesi di ingegneria didattica) quanto nell’approfondimento dei complessi legami fra studente, docente e disciplina. Questi anni vedono infine il tentativo, praticato con intenzionalità, di realizzare una saldatura fra il mondo della ricerca e il mondo della prassi didattica (una prima conferma, al proposito, può essere fornita dall’esperienza delle Scuole di Specializzazione per l’Insegnamento Secondario): è iniziato un dibattito sull’efficacia della trasposizione, sul superamento delle difficoltà, sui parametri che devono essere considerati nella definizione di un “formato” per il curricolo di matematica.
     Il problema di un “canone”, almeno nella prospettiva didattica, può quindi essere ricondotto a quello di definire nuclei, percorsi concettuali e ipotesi didattiche, conoscenze e competenze, criteri di valutazione e di autovalutazione, e ipotizzare sistemi di relazioni fra di essi.

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NOTE

1 H. Bloom, Il canone occidentale. I libri e le scuole delle età, trad. it., Bompiani, Milano 1997, pp. 14-15. [torna al testo]

2 Ancora più pronunciata è l’autonomia locale dei canoni in Spagna, la cui riforma scolastica di questi ultimissimi anni prevede un’articolazione dei canoni specifica secondo le sette regioni in cui è divisa la nazione (Galizia, Paesi Baschi, Catalogna, Valencia…). Tradotto nella situazione italiana, l’esempio spagnolo potrebbe a livello regionale proporre canoni ispirati alle note tesi di Dionisotti sulla geografia e la storia della nostra letteratura. [torna al testo]

3 F. Kermode, Forme d’attenzione. La fortuna delle opere d’arte, trad. it., Il Mulino, Bologna 1989, p. 87. [torna al testo]

4 Cfr. D. Baroncini, Il canone tra memoria e oblio, in «Poetiche letteratura e altro», 1997, n. 4-5, pp. 115-23. [torna al testo]

5 Cfr. R. Luperini, Il professore come intellettuale. La riforma della scuola e l’insegnamento della letteratura, Pietro Manni-Lupetti, Lecce-Milano 1998. [torna al testo]

6 E. Raimondi, Considerazioni di un italianista sulla propria disciplina, in «Lettere italiane», XLIII (1991), n. 3, p. 352. [torna al testo]

7 G.P. Biasin, Le periferie della letteratura, in «Intersezioni», XV (1995), n. 3, p. 449. [torna al testo]

8 A. Gnisci, Verso un nuovo concetto di letteratura nazionale-mondiale, in «I quaderni di Gaia», 1992-1993, n. 5-7, pp. 135-40, citato anche da Biasin alla fine del suo articolo. [torna al testo]

9 R. Luperini, Il canone e la storia letteraria come ri-costruzione, in Il professore come intellettuale, cit., pp. 61-73, già apparso su «Allegoria», IX (maggio-agosto 1997), n. 26, pp. 5-13. [torna al testo]

10 Ivi, p. 65. [torna al testo]

11 Ch. Segal, Cracks in the Marble of the Classic Form: The Problem of the Classical Today, in «Annals of Scholarship», X (1993), pp. 7-30. Gli scricchiolii, le crepe, gli schianti del «marmo» classico di cui parla il titolo del saggio di Segal fa sovvenire la formula dei «libri di sabbia» con cui Borges voleva segnalare la loro labilità. [torna al testo]

12 A. Fowler, Hierarchies of Genres and Canons of Literature, in Kinds of Literature. An Introduction to the Theory of Genres and Modes, Harvard University Press - Clarendon Press, Cambridge (Mass.) - Oxford 1982, p. 216. [torna al testo]

13 G. Manganelli, Francesco De Sanctis: Storia della letteratura italiana [1971], in Laboriose inezie, Garzanti, Milano 1986, p. 236. [torna al testo]

14 R. Luperini, Il canone e la storia letteraria…, cit., p. 70. [torna al testo]

15 G. Ferroni, Dopo la fine. Sulla condizione postuma della letteratura, Einaudi, Torino 1996, pp. 183-89. [torna al testo]

16 Repubblica, 524ss. [torna al testo]

17 A. Gramsci, Quaderni del carcere, Einaudi, Torino, 1975, pp. 1530ss. [torna al testo]

18 Che fine dell’educazione scolastica sia la spinta verso l’universale lo diceva anche Benedetto Croce, http://www.iisf.it/presentazione/struttura.PDF . [torna al testo]

19 Su questo punto ringrazio Fabio Frosini. [torna al testo]

20 Sulla riforma Gentile vedi il bell’articolo di Angelo d’Orsi, http://www.lastampa.it/edicola/sitoweb/Cultura/art7.asp. [torna al testo]

21 S. Toulmin, “Fa acqua la distinzione fra scienza normale e scienza straordinaria?”, in Critica e crescita della conoscenza, a cura di I. Lakatos e A. Musgrave, Feltrinelli, Milano, 1976, pp. 109-118. [torna al testo]

22 F. Nietzsche, Così parlò Zarathustra, Adelphi, Milano, 1978, pp. 240ss. [torna al testo]

23 Lo si può leggere alla pagina http://www.filiarmonici.org/papini1914.html. [torna al testo]

24 L’articolo del 1923 si può leggere alla pagina http://www.erasmo.it/liberale/ricerca.asp. [torna al testo]

25 Il concetto è di Hegel. [torna al testo]

26 F. Nietzsche, Sull’utilità e il danno della storia per la vita, Adelphi, Milano, 1979. [torna al testo]

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