IL CASTORO PER LA SCUOLA
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PROFESSIONALITA' DOCENTE

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Ermanno Rosso

"La proposta di APS per la professionalità docente"

 
 

Ci contraddiciamo?
 Ebbene sì ci contraddiciamo,
ma noi siamo così vasti

Walt Whitman,
Foglie d'erba.

     In questa relazione vorrei innanzitutto affrontare alcuni problemi che qui da noi, in Italia, hanno reso difficile il dibattito sulla professionalità docente e successivamente delineare alcuni elementi che in questi mesi hanno contraddistinto Aps all'interno di questo dibattito. Prima però di entrare nel cuore del discorso vorrei dirimere una piccola incongruenza.

Professionisti o artigiani? Una divagazione introduttiva

     Parlare di professione docente e di professionalità in un convegno dedicato all'insegnante-fabbro, ovvero all'insegnante-artigiano, può sembrare una contraddizione. Infatti, anche se condividono la personalizzazione del lavoro, la non serialità della prestazione, la necessità di una formazione pratica (chiamata apprendistato nel caso dell'artigiano e tirocinio o praticantato nel caso del professionista), professionisti e artigiani hanno tuttavia fisionomie distinte. Il professionista fa precedere la pratica da un saldo corpus teorico e la pratica è per lui applicazione oltre che esperienza; per l'artigiano, invece, il sapere fondamentale per l'esercizio del "mestiere" è nettamente esperienziale e tecnico: facendo X accade Y, senza che sia necessariamente noto il principio sottostante. L'idraulico non è un fisico. Quella dell'insegnante-artigiano, con il suo alone preindustriale e romantico, è un'immagine che suscita simpatia e consenso, eppure se presa alla lettera essa può spingere verso un'idea puramente tecnica della professione, ridotta ad un corpus di pratiche (regole e trucchi) tramandato informalmente tra corridoi e sale docenti.
     Certo, anche il professionista sa trarre vantaggio da un corpus di pratiche tramandate e incrementate sul campo, ma, come dicevo, aggiunge a questa dimensione una salda teoria e un'attitudine riflessiva, che gli permettono di rielaborare la pratica, generalizzarla e tradurla in un nuovo sapere.
     Ci piace quindi pensare l'insegnante non come un artigiano tout-court, ma come una figura professionale che ha anche un dimensione artigianale, che lo stimola a porre un'attenzione prioritaria all'aspetto pratico-applicativo del proprio sapere e che gli ricorda come l'esperienza non debba mai diventare routine, ma sempre arricchimento. Solo così può realizzarsi quel circolo virtuoso senza il quale non si può parlare di sviluppo della professionalità, obiettivo che la nostra associazione ha sempre messo al centro dalla sua riflessione e della sua azione.

     Delineato così, in modo personale, ma spero non arbitrario, il rapporto tra fabbri e professori, vengo al tema della relazione.

1. Perché è diventata centrale la riflessione sull'identità professionale?

     Rispondere a questa domanda è importante per due ragioni: significa collocare questa riflessione in un momento storico di trasformazione che ne spiega la portata non certo marginale, e significa rendere vivo un tema rispetto al quale larga parte della categoria continua a restare estranea, quando non diffidente. Eppure si tratta di chiederci chi siamo e dove vogliamo andare. Noi e la scuola. Niente di meno.
     A rendere centrale la riflessione sulla professionalità docente hanno concorso due spinte: una esterna al mondo della scuola e una interna.

a) La spinta esterna è legata alle trasformazioni del lavoro e delle forme dell'organizzazione nella società postindustriale. Per questa ragione il dibattito sulla professionalità è stato al centro dell'attenzione negli ultimi anni e certo non solo nel mondo della scuola. Vi hanno concorso:

  • la crisi del welfare e la politica di riduzione del deficit pubblico. Essa ha portato sotto i riflettori dell'opinione pubblica le spese dello stato (tra cui, ovviamente la scuola) e ha spinto anche il comparto pubblico verso una certificazione della qualità che rendesse trasparenti le ragioni di spesa, il servizio sociale offerto e soprattutto la sua efficacia, i risultati raggiunti;
  • le trasformazioni che nella società postindustriale stanno subendo le strutture organizzative, sia quelle volte alla produzione di beni, sia quelle volte a fornire servizi, tra cui la scuola stessa. Una volta ad essere predeterminato era il "processo": era richiesta l'esecuzione di una mansione, era richiesto un certo agire e la finalità era posta sull'operare, esisteva poca flessibilità, poche scelte e di conseguenza poche responsabilità (i nostalgici dei bei tempi dovrebbero ricordare che erano i tempi di metodi e programmi rigidamente vincolanti, il cui rispetto era controllato gerarchicamente). Adesso c'è larga autonomia nel processo, ma si è responsabili del conseguimento degli obiettivi prefissati, dei risultati raggiunti, degli esiti, ovvero del "prodotto" che la nostra azione ha contribuito a realizzare. In altre parole: massima autonomia sul processo, e quindi libertà di scelta sia come individui, sia come team di lavoro, e maggiore responsabilità rispetto ai risultati.

     Queste trasformazioni portano sempre più verso una professionalizzazione anche del lavoro dipendente, chiamato ad articolare le proprie funzioni, rendendole meno esecutive e più flessibili, e a dotarsi di molteplici competenze, di precisi profili professionali, di finalità sociali esplicitate e non generiche.

b) La spinta interna è legata al disagio professionale. Credo sia purtroppo nota la crisi "professionale e umana" della categoria - di cui le indagini sul burnout (nota 1) dei docenti rendono ampia testimonianza - il disagio causato dalla perdita del prestigio sociale, dalla frustrazione per l'inadeguato riconoscimento della funzione svolta, dall'esasperazione di vedere come questo si accompagni - contraddittoriamente - ad una sempre più massiccia delega alla scuola di funzioni ad essa sostanzialmente estranee. Aggiungiamo a questo la consapevolezza di vivere una trasformazione che ridefinisce lo statuto dei saperi, gli obiettivi della formazione e le sue modalità (trasformazione alla quale non sempre siamo sicuri di saper rispondere positivamente) e abbiamo delineato il quadro di disagio con cui quotidianamente gli insegnanti fanno i conti.
     Tale crisi, e in particolare la perdita di riconoscimento sociale ed economico, ha reso molti colleghi consapevoli della necessità di passare dalla rassegnazione all'attacco, di trasformare l'immagine spesso negativa degli insegnanti ("quelli dei tre mesi di vacanza estiva, per non parlare di Natale"), in un'immagine positiva, rivendicando la propria professionalità ovvero le proprie competenze disciplinari ed educative e rendendo esplicito il proprio lavoro, la propria funzione sociale, gli esiti formativi raggiunti.
Queste due spinte hanno senz'altro fatto emergere e reso vitale la riflessione sulla professionalità docente, ma la sua diffusione nel mondo della scuola incontra ancora notevoli ostacoli, alcuni comuni ad ogni settore, altri specifici.

2. Le difficoltà del dibattito sulla professionalità docente

Le trasformazioni del lavoro nella società postindustriale e la paura della precarizzazione della professione

     Il primo ostacolo è determinato dallo scetticismo e timore, quando non dall'opposizione pregiudiziale, da cui è circondato il dibattito sulla professionalità docente. Perché questa diffidenza? Innanzitutto i termini del dibattito non sono sempre chiari e si tende a confondere, e in qualche caso a identificare, aspetti molto diversi. Spesso si vede la definizione della professionalità come un primo passo o un cavallo di Troia per andare molto oltre. Si collega, ad esempio, ricerca della identità professionale e spinte politiche alla privatizzazione della scuola e del rapporto di lavoro, si collega professionalità e carriera docente, professionalità e tecnicizzazione dell'insegnamento, si legge addirittura il discorso sulla professionalità come un attacco alla libertà docente, ribaltando completamente la definizione stessa di professionista. Io credo che alcuni di questi timori siano pienamente giustificati, ma credo anche che le associazioni professionali, le quali non sono enti astratti, ma dotati di una storia, di una tradizione, di un rapporto di fiducia con settori specifici della categoria, possano essere un importante veicolo di chiarezza riguardo a queste questioni e soprattutto un "organo civile" di vigilanza contro certe derive.

     Accanto a questi timori legittimi, però, le resistenze nascono anche da fattori meno condivisibili, ad esempio:

  •  la difesa di uno status quo, che le trasformazioni sociali e culturali rendono insostenibile;
  •  la nostalgia per un'età dell'oro (mitica come tutte le età dell'oro), che era poi quella del docente stanco ripetitore di manuali e di un rapporto di lavoro retto su uno scambio avvilente: poca paga, poco impegno, nessuna responsabilità, nessuna rendicontazione del proprio lavoro.

     Senza facili ottimismi e senza negare i rischi connessi al "processo di professionalizzazione" io credo che la posizione di Aps su questo punto sia chiara: è necessario vincere una resistenza che rischia di essere puro immobilismo e di apparire non solo inadeguata di fronte ai nuovi bisogni formativi, come Mario Pinotti credo abbia ampiamente mostrato (link), ma anche incomprensibile da parte di un'opinione pubblica di cui lamentiamo la perdita di considerazione. Per recuperare il prestigio sociale bisogna accettare la sfida della professionalità, che significa anche riconoscibilità del proprio lavoro, trasparenza, responsabilità. La nostra risposta quindi non è il rifiuto, bensì l'insegnante di qualità, un professionista che non teme di mostrarsi e di assumersi le proprie responsabilità.

L'idea vocazionale vs. l'idea professionale

     Anche se la categoria è titubante, tutte le associazioni ormai riconoscono la necessità di affrontare il discorso della professionalità. Vi è tuttavia un elemento di netta differenziazione tra di esse e riguarda la natura dell'insegnamento stesso: esso è veramente una professione, e come tale dotata di uno statuto riconoscibile e di un processo di formazione che rende la capacità di insegnare acquisibile e sviluppabile, oppure permane comunque nella professione un quid ineffabile di cui sono dotati i "veri" insegnanti e che nessuno studio, nessuna esperienza, nessuna riflessione può fornire? Parlo, è chiaro, dell'idea vocazionale della professione, idea, per la mia esperienza, non molto presente nella categoria, ma ancora largamente presente nello stereotipo dell'insegnante, idea sostenuta da alcune associazioni professionali, anche laiche, e persino dal ministro Moratti. Senza negare la specificità e la passione legate alla nostra professione, anche su questo punto bisogna fare chiarezza.

     Un'idea vocazionale della professione significa renderne inafferrabile la fisionomia, portarla in una regione sottratta ad ogni seria formazione e soprattutto valutare la professionalità non in base a degli esiti documentabili, bensì ad un aspetto "spirituale", intimo di cui si è i soli testimoni. Rispondere del proprio operato alla propria coscienza è un atteggiamento morale doveroso, però pretendere di doverne rispondere solo alla propria coscienza significa rendersi irresponsabili verso la società. Si tratta di una posizione fortemente autoreferenziale, che risponde ad un’etica delle intenzioni, noi invece preferiamo legare l'etica professionale ad un’etica delle responsabilità ovvero un'etica delle conseguenze, un'etica sociale nella quale si rende conto degli esiti e si è riconosciuti nei meriti. Del resto, perché da un primario, così come da un avvocato, ci aspettiamo che sia innanzitutto un bravo professionista, mentre all'insegnante diamo una natura vocazionale, una propensione genetica all'accudire, all'educare?
     Ma ammettendo pure che il modello vocazionale sia corretto e rappresenti il miglior maestro, il maestro per antonomasia, anzi l'idea stessa di Maestro, ammettendo tutto questo, noi crediamo che il presupposto vocazionale, e quindi sostanzialmente antiprofessionale, dell'insegnamento sia crollato nei fatti con la scolarizzazione di massa. È impossibile reggere una professione sulla vocazione quando si hanno oltre 700.000 docenti che si occupano di poco meno di 10 milioni di alunni. Le indagini Iard fotografano bene la situazione, rivelando come la metà degli insegnanti abbia fatto questo lavoro quasi per caso.
     Sia chiaro, se c'è, la vocazione ben venga, ma come valore aggiunto, nella consapevolezza che nella scuola di massa non è più credibile riconoscerla come caratteristica distintiva della professione docente.

     Con questo vorrei evitare ogni confusione tra vocazione e passione. Io credo che ben pochi di noi rifletterebbero di professionalità o competenze, si aggiornerebbero, parteciperebbero a convegni e si iscriverebbero ad associazioni professionali o disciplinari, se non coltivassero una autentica passione per la propria professione, ma io credo altresì che sia molto meglio per la scuola formare una classe di professionisti che fanno con passione e con piacere il proprio lavoro, piuttosto che contare su un corpo paramilitare di missionari.  Questo excursus credo abbia reso ormai evidente la nostra posizione a riguardo: affermare un'idea laica della professione. Se Brecht diceva "Felice il paese che non ha bisogno di eroi" noi, parafrasandolo, diciamo "beati i sistemi scolastici che non hanno bisogno di missionari, né di volontariato, ma di buoni professionisti".  Magari senza condividere in ogni punto l'analisi da cui scaturisce, io credo che questa sia la posizione che finora ha sempre contraddistinto Aps e che ci distingue da altre associazioni portatrici di un'idea vocazionale.

     Sempre al fine di evitare equivoci, vorrei però fare un'ulteriore precisazione: la professione docente non è vocazionale, ma tuttavia ha una forte etica professionale: caratteristica questa che l’insegnante condivide con qualunque altro professionista, ma a cui egli aggiunge non pochi “doveri” in più, data l'alta incidenza della sua azione. Tuttavia non saremmo una associazione laica se non distinguessimo con forza tra eticità professionale e compiti di formazione etica delle generazioni, dissociandoci da quanti ritengono che il ruolo dell'insegnante sia quello di "formatore di valori", al punto di fare dei valori-obiettivo l'elemento discriminante tra modelli formativi. Di valori l’insegnante senz'altro si occupa, ma socraticamente lo fa per aiutare lo studente a problematizzarli, a chiarirli per chiarirsi, non certo per indottrinarlo (nota 2).

Lo iato tra riconoscimento formale e convinzione intima dei docenti sulla natura della professionalità docente

     Un'ulteriore difficoltà nel riconoscimento del docente come professionista è rappresentata dallo iato tra riconoscimento formale della molteplicità degli elementi della professionalità (disciplinari, pedagogici, didattici, relazionali, etc.) e intima convinzione di un larga parte della categoria, che ritiene che importante sia solo conoscere bene la materia, dopodiché pare che la materia riveli taumaturgicamente allo studente il proprio valore formativo.
     Nuoce alla costruzione di una identità professionale adeguata e complessa l'appiattimento della professionalità sul solo elemento disciplinare, sulla padronanza dei contenuti, appiattimento che di solito cresce con il salire del grado di scolarità. Eppure qualunque insegnante ha sperimentato a suo tempo e sulla propria pelle i limiti di una preparazione esclusivamente culturale. Che insegnare sia un mestiere difficile è voce condivisa all'unanimità, ma questa difficoltà non sempre conduce all'idea che oltre la padronanza disciplinare sia parte integrante della professionalità anche la padronanza psicopedagogica o didattica e che queste siano anche un sapere e non solo una pratica. Di conseguenza, di fronte all'insuccesso formativo spesso cediamo alla tentazione di scaricare sui ragazzi - colpevoli di essere figli del loro tempo invece che di quello dei loro nonni - le colpe di un mancato dialogo, di una preparazione e di una motivazione approssimativa, di un insuccesso professionale. Sospetto che sotto sotto operi ancora una volta l'idea vocazionale della professione: per insegnare bene bisogna "esserci portati", è un qualcosa che viene da dentro e non qualcosa che si impara, come invece ammettiamo per il sapere disciplinare.

     Eppure se spostiamo la prospettiva e affrontiamo il problema ponendoci dall'altra parte della barricata e quindi non come professionisti, ma come fruitori di una professionalità, ci accorgiamo subito che il sapere da solo non basta a qualificare un professionista. Pensiamo, ad esempio, alla professione medica, che una lunghissima tradizione collega a quella dell'educatore, perché entrambe si occupano di persone, entrambe devono prodigarsi per trasformare uno stato peggiore (la malattia/l'ignoranza) in uno stato migliore (la sanità/la sapienza). Pensiamoci quindi come pazienti che si rivolgono ad uno specialista.
     Ci accorgiamo subito che il sapere (il conoscere il corpo e le malattie), conta fino ad un certo punto, quello che conta è saper applicare il sapere, ovvero il saper curare, e inoltre ci accorgiamo che quel saper fare non può essere disgiunto dal saper essere... un serio professionista. Un medico professionale è un medico competente in una pluralità di aspetti: sa curare, certo, ma sa anche accogliere, sa essere sensibile, sa farmi stare bene anche nel senso di sapermi mettere a proprio agio, etc. Di conseguenza, io ne valuto la professionalità considerando sia l'efficacia dei risultati (mi cura bene), sia la modalità attraverso cui questi risultati sono raggiunti (se mi tratta male, alla cura del corpo corrisponde un’offesa dell’anima e allora non siamo soddisfatti e a parità di sapere scegliamo un altro). Le lauree, le specializzazioni, i corsi, quanto si è appeso nello studio mi rassicurano all'inizio, ma non sarà su quello che valuterò la professionalità: aspetterò di vedere se a quella preparazione "disciplinare" corrisponde una pratica professionale all'altezza.

     Non credo sia necessario esplicitare oltre il parallelismo e mostrare come la polimorfia dell'identità professionale dell'insegnante sia altrettanto accentuata. Il profilo professionale emerso dal Comitato scientifico del Progetto dell'Ufficio Scolastico Regionale Documentare il curriculum professionale dei docenti (nota 3) , per quanto sintetico, credo mostri adeguatamente come la molteplicità degli ambiti entro cui si esercita il sapere e la pratica professionale dell'insegnante non sia meno vasta di quella del medico.

3. Alcune linee guida di Aps nella definizione professionalità docente

     Credo che le coordinate di fondo che, pur tra le difficoltà sopra riportate, in questi mesi hanno guidato la nostra elaborazione sulla professionalità docente siano ormai abbastanza chiare. Le condenserò in cinque punti.

Laicità. Una professione normale

     Innanzitutto la laicità della professione. L'insegnante è una figura sociale e, appunto, professionale: e si tratta di una professione normale, in cui normale non significa affatto “piatta”, ma significa non missionaria, non vocazionale, non ineffabile. Queste cose appartengono agli individui, eventualmente, e sono un optional, forse un vantaggio, ma non sono parte della definizione professionale della figura insegnante in sé. Nella scuola di massa l’idea di avere 700mila missionari è ridicola. Quindi, primo: una visione laica della professionalità.

Dinamicità dell'identità professionale

     Un secondo aspetto discende dalla natura stessa della professione. Insegnare non è un'attività astratta, ma contestualizzata: si insegna qualcosa a qualcuno, in un contesto e per determinate finalità. Ora, tutti questi elementi sono in perenne trasformazione e non sto parlando semplicemente del fatto che ogni studente è diverso dall'altro, ma delle trasformazioni sociali ben più radicali delle quali ci ha parlato Mario Pinotti (link) e in base alle quali si stanno trasformando i saperi e il loro statuto epistemologico, i bisogni formativi e forse le strutture stesse dell'apprendimento (nota 4). Ma se il cosa, il perché, il come e a chi insegnare si trasforma, non si può pensare che l'identità professionale sia invece immobile: l'idea fondante di Aps, costruire un progetto per una scuola che cambia e si porti all'altezza delle sfide del nostro tempo, non può che sfociare in un'idea aperta e dinamica della professionalità docente, consapevoli che la figura dell'insegnante non è definibile una volta per tutte, ma si modifica con il modificarsi dei contesti, dei bisogni formativi, degli statuti disciplinari. Il docente professionista della società fordista non è quello della società postindustriale e noi non possiamo pensare di delineare la professionalità avendo come modello l’insegnante gentiliano, appena addolcito da una pratica meno autoritaria nella gestione della classe. E' impensabile che la mediazione didattica entro la quale si colloca la figura dell’insegnante, essendo parte di una triade (saperi-docente-studente), rimanga immobile al mutare degli altri elementi.

Una identità non astratta, da definire empiricamente

     Se la figura professionale del docente non può essere ontologicamente determinata, altrettanto non può essere una figura astratta, costruita deduttivamente a partire da principi, ma può definirsi solo in un certo contesto socio-culturale e induttivamente. Induttivamente non perché ci accontentiamo di registrare l’esistente, ma perché è a partire dal successo formativo documentabile, e quindi dall'agire pratico, che inizia a delinearsi la figura professionale. Si tratta di un'idea che in altri sistemi formativi si è già fatta strada: una delle più importanti ricerche sull'identità professionale docente è stata fatta dal governo Blair nel 2000, mediante una indagine nelle scuole a partire dall'efficacia formativa dell'insegnamento (nota 5). Ma non esiste il successo tout-court, ogni successo è tale in riferimento a degli obiettivi raggiunti, quindi il successo formativo rimanda ad una finalità della formazione esplicita e condivisa. Nella proposta che contraddistingue la nostra associazione l'obiettivo centrale dell'azione formativa è esplicito ed è l'acquisizione di competenze.

Una professionalità per la pratica didattica (successo formativo e portfolio degli studenti) e documentabile (portfolio degli insegnanti)

     Quella dell'insegnante è una professione altamente etica, perché caratterizzata da responsabilità fortissime, verso gli allievi e verso la società stessa. Se il professionista che abbiamo in mente si delinea a partire dal successo formativo, è perché per la sua professione risponde non solo ai principi, ma soprattutto agli esiti e questo significa che si regge su un’etica della responsabilità e non delle “buone” intenzioni. A Max Weber risale la distinzione tra un'etica delle responsabilità, che misura l'eticità dell'agire in base ai risultati ottenuti ed è tipica di chi svolge un servizio sociale, ed un'etica delle intenzioni, che risponde invece esclusivamente alla propria coscienza, ovvero alla "buona volontà". Ma se la buona volontà può essere il metro morale di un comportamento privato, non è così per il professionista, che in quanto "fornitore di un servizio pubblico", deve esser valutato a partire dalle conseguenze delle sue azioni. Per un insegnante queste conseguenze sono rappresentate proprio dall'esito formativo (nota 6). Per questo guardiamo positivamente al portfolio delle competenze, pur con tutti i dubbi evidenziati da Marinella Sarti nella sua relazione.
Ma documentare l'esito del processo formativo significa documentare anche la propria professionalità e quindi altrettanto positivamente noi vediamo la proposta del portfolio degli insegnanti. Strumento probabilmente "debole", ancora imperfettamente definito, ma che apre verso la prospettiva che condividiamo (sia chiaro: senza misconoscere minimamente tutti i rischi ad essa connessi) di una professionalità documentata dagli esiti (progetto, processo e prodotto) e non solo autoaffermata. L'abbiamo visto: per riconquistare visibilità e considerazione sociale, la scuola deve uscire dall'autoreferenzialità, deve avere il coraggio di mostrare se stessa, ovvero cosa fa, come lo fa e con che risultati.

Un insegnante di qualità

     Oggi la scuola spesso ha paura a mostrarsi, a esibire i propri risultati (e ad essere "valutata"), ma questa paura cesserà se gli insegnanti sapranno essere all'altezza della professionalità che vogliono sia loro riconosciuta. Qui entra in gioco uno degli obiettivi principali (se non il principale) che in questi dieci anni ha contraddistinto la nostra proposta professionale: l'insegnante di qualità. Una trasformazione della professione docente richiede una trasformazione degli insegnanti che ne coinvolga ogni aspetto: la formazione iniziale, il reclutamento, le forme dello sviluppo professionale. Trasformare positivamente tutti questi elementi sembra impossibile, e certo i segnali non sono incoraggianti, ma in una concezione non vocazionale della professione, l'insegnante di qualità non deve essere una speranza, bensì un obiettivo formativo dell'intero sistema scolastico.
     Quando diventa elemento strutturale e non solo fortunata combinazione di sacrificio, predisposizione e passione, l'insegnante di qualità è una figura professionale che nasce dalla sinergia di tre componenti:

  • una formazione iniziale di buon livello
  • esperienza professionale
  • ricerca e riflessione

     Bisogna riqualificare la formazione iniziale e considerare il tirocinio parte integrante della formazione dell'insegnante, come lo è per un avvocato o un medico. Questa è sempre stata la posizione di Aps. Da questo punto di vista l'esperienza delle SISS ha avuto in linea di principio una valutazione positiva da parte della nostra associazione, anche se poi solo in alcuni casi la pratica è stata all'altezza delle potenzialità.  Bisogna considerare la pratica didattica il focus dell'esperienza professionale. Su di essa deve investire il docente e la scuola deve valorizzarla in quanto elemento non accessorio, ma basilare della professionalità.
     Ma, soprattutto, l'insegnante di qualità è l'esito di uno sviluppo professionale basato sulla ricerca e sulla riflessione. Naturalmente non stiamo parlando di una ricerca di tipo accademico, bensì della costante ricerc-azione di una pratica di miglioramento della propria efficacia didattica e di una riflessione sul proprio operare e sui suoi esiti. Soprattutto ricerca e riflessione abbiamo detto, perché l'esperienza non è formativa (e non è professionale) quando rimane pura "accumulazione", bensì quando è rielaborata e diventa strumento per la crescita della propria professionalità (nota 7); e la riflessione è tanto più feconda quanto meno è solipsistica. Da qui consegue la valorizzazione della dimensione collegiale dell'insegnamento, non tanto nel senso della programmazione collegiale, ormai purtroppo ridotta a rituale burocratico, ma della partecipazione a comunità di pratica, e in questa dimensione collegiale dello sviluppo professionale, le associazioni rivestono un ruolo importante.

     Da questi elementi nasce l'insegnante di qualità, rispetto al quale la definizione di professionalità si configura come un modello di riferimento, l’obiettivo di un percorso. Del resto non possiamo permetterci nulla di meno, non possiamo dare al docente caratteristiche più basse di quelle che propone il profilo in uscita dello studente: se lo auspichiamo flessibile, autonomo, che ha imparato ad imparare, come possiamo pensare che il docente invece sia sclerotizzato in un insegnamento che riproduce eternamente se stesso e per il quale l'aggiornamento professionale significa solo qualche nuovo contenuto, ma mai profondo rinnovamento delle pratiche?

5. Un'ipotesi di identità professionale

     Nella relazione più volte abbiamo fatto riferimento all'ipotesi di profilo professionale espressa nell'ambito del progetto Documentare il curriculum professionale del docente, perché, è evidente, quella ipotesi rappresenta per noi un buon punto di partenza per la definizione dell'identità professionale, in grado di soddisfare molti dei principi su cui strada facendo, abbiamo voluto caratterizzare la posizione della nostra associazione. Si tratta di un'identità professionalità costruita sui punti comuni delle varie associazioni professionali che hanno partecipato al lavoro dell'USR (nota 8). Nonostante questa sintesi porti, com’è naturale, il segno di una mediazione anche con posizioni che non sono propriamente patrimonio della nostra associazione, noi ci riconosciamo in tale proposta, soprattutto perché si tratta di un'identità basata sulle competenze professionali piuttosto che su un codice deontologico o sull'adesione ad uno statuto, e per un'associazione che fa delle competenze l'obiettivo formativo primario credo questo sia particolarmente importante. Essa rivela, inoltre, pienamente quel carattere complesso, polimorfo della professione a cui ci siamo sopra riferiti. Certo, questo può senz'altro spaventare una categoria che tende spesso a far coincidere la professionalità con la sola padronanza dei contenuti disciplinari.
     Fermo restando che questa proposta delinea con tratti ideali una figura al termine del proprio sviluppo professionale, invito a leggere questa larga gamma di competenze professionali non come delirio di onniscienza, e nemmeno come un'utopia, bensì come un'occasione di riflessione sui propri bisogni formativi come insegnanti e quindi sulla propria crescita professionale, con l'obiettivo di avvicinarci sempre di più, almeno noi che ci crediamo e lo teorizziamo, a quell'insegnante di qualità che credo sia il nostro obiettivo primario e la precondizione perché il nostro "Progetto per la scuola" cessi di restare progetto e diventi realtà.


NOTE

1 A riguardo, una ricerca pilota è quella curata da Vittorio Lodolo d'Oria scaricabile in www.casadellacultura.it di cui da conto Agnese Bertello in Gli insegnanti che non ce la fanno, in "il Mulino", LII (2003), n. 405, pp. 123-127. Nonostante l'infelicissimo e criptico titolo, una relazione su questa ricerca è contenuta anche nel saggio di Vittorio Lodolo D'Oria, Renato Pocaterra, Stefania Pozzi, La comunicazione sinergica sociale e di prodotto applicata, in Vittorio Lodolo D'oria (a cura di) Pubblicità, sponsorizzazioni e cause related marketing, Edizioni Il Sole 24 ore, 2003, pp. 201-255. (torna al testo)

2 Un discorso a parte andrebbe fatto per l'educazione ai valori di cittadinanza, che di una prospettiva laica come la nostra sono il basamento. (torna al testo)

3 Mi riferisco in particolare agli Indicatori di lettura della professionalità docente riportati in AIMC, APS, CIDI, DIESSE, FNISM, MCE, UCIIM (a cura di) Il portfolio degli insegnanti. Per documentare il curriculum professionale dei docenti, Irre E.R., Bologna, 2004, pp. 35-42. (torna al testo)

4 Queste trasformazioni sono da anni oggetto dell'attenzione di Aps che su questi temi ha curato una serie di seminari in collaborazione con la Biblioteca de il Mulino. I materiali sono consultabili sul nostro sito http://www.aps.it . (torna al testo)

5 Si tratta della ricerca dell'agenzia Hay McBer svolta per conto del Ministero dell'Istruzione e del Lavoro inglese. Una sintesi della ricerca è riportata in A. Cenerini, R. Drago, Insegnanti professionisti, Erickson, 2001. (torna al testo)

6 Sia chiaro però che il successo formativo non si misura su livelli astratti e decontestualizzati, bensì in modo relativo comparando situazioni di partenza e di arrivo e tenendo conto del contesto didattico, organizzativo, socioculturale, etc. entro cui si deve operare. (torna al testo)

7 D. A. Schon, Il Professionista riflessivo. Per una nuova epistemologia della pratica professionale, Dedalo, 1993. (torna al testo)

8 Il percorso teorico e metodologico che ha portato alal definizione di quella proposta può essere letto in E. Rosso, La ricerca dell'identità professionale, in AIMC, APS, CIDI, DIESSE, FNISM, MCE, UCIIM (a cura di) Il portfolio degli insegnanti. Per documentare il curriculum professionale dei docenti, Irre E.R., Bologna, 2004, pp. 24-34. (torna al testo)

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