IL SEGRETO DELLA MOSCA GIGANTE

 

Poche case di fango e di pietra e quattro chiese, tre di esse sparse in campagna, tanti pastori e contadini poveri, le donne che andavano a lavare i panni al fiume. Le sere d’estate seduti sull’uscio di casa e nelle lunghe ore invernali davanti al fuoco, ad ascoltare sempre le stesse storie di tesori nascosti, streghe e folletti… così passavamo il tempo a Ballao tanti e tanti anni fa.

Anche noi ragazzini facevamo parte ed eravamo protagonisti della vita del villaggio. Ancora oggi il ricordo va a quella lunga notte trascorsa ad ascoltare dalla voce degli anziani del vicinato, al caldo del grande falò, che tutti gli anni accendevamo in piazza la vigilia della festa di Sant’Antonio, tutte quelle storie piene di monete d’oro e d’argento e di strani e misteriosi custodi, che vigilavano su quei tesori. In particolare colpiva la nostra fantasia il racconto di quella gigantesca mosca, a tutti nota come musca macedha, che in qualche grotta vicino ad una località chiamata sa domu de is abis, custodiva il tesoro più ricco che si potesse immaginare a Ballao.

Nel racconto si narrava anche di janas, che nelle notti di luna piena celebravano i loro riti nei pressi dell’antico pozzo nuragico di funtana crobetta, vicino a quelle grotte ricche di magia e tesori. Rimanevamo incantati e ci sembrava di vederle volteggiare in aria ad aspettare che la luna si specchiasse nelle acque della sorgente magica.

Dicevano delle lotte combattute dagli antichi per sterminare un gran numero di mosche giganti, custodi di chissà quali tesori, una però se l’era scampata, la più terribile e grossa; e di essa si erano perse le traccia.

Nella nostra incoscienza giovanile decidemmo così di progettare e vivere l’avventura che ci avrebbe segnato per tutta la vita.

Era una domenica di primavera e assieme a Boriccu, Jacu ed altri amici della nostra banda, decidemmo di andare alla caccia di quella gigantesca mosca e del tesoro che custodiva; risalendo la stretta valle del Flumendosa ci avviammo verso sa domu de is abis e nel nostro cammino incontrammo molte persone, ma a nessuno rivelammo le nostre intenzioni. Arrivati quasi a destinazione, nella zona di funtana crobetta, cercammo tracce delle janas, sperando che potessero aiutarci a scoprire il tesoro, ma ben presto dovemmo rinunciare, perché nel frattempo s’era fatto tardi e quindi rinviammo la ricerca alla domenica successiva.

Trascorremmo la settimana pensando solamente alla domenica; la mattina andavamo a scuola ed il pomeriggio lo trascorrevamo a fare i compiti oppure a giocare, scorrazzando per le strade del villaggio. Il sabato sera ci riunimmo per decidere cosa fare; ciascuno di noi propose un piano, qualcuno aiutandosi anche con dei disegni tracciati per terra, ma c’era sempre qualcosa che non tornava, finché a Fieli, forse il più sveglio della banda, non venne in mente la proposta vincente. <<Ragazzi, disse, andiamo e passiamo la notte a funtana crobetta, così potremo spiare di nascosto le janas, mentre celebrano i loro riti, visto che domani è una notte di luna piena>>.

L’indomani, verso sera ci avviammo alla nostra meta e lungo strada, per nostra fortuna, non incontrammo anima viva. Dopo una mezz’ora di cammino, arrivammo a destinazione e ci nascondemmo dietro dei lentischi, in attesa dell’arrivo delle janas; alcuni di noi si addormentarono per qualche ora, ma un po’ prima della mezzanotte eravamo tutti ben svegli e pronti all’azione. Quando da lontano sentimmo le campane suonare lo scoccare della mezzanotte, comparvero, volando bassi sulla linea dell’orizzonte, illuminati quasi a giorno dalla luna, degli strani esseri, mezzo donne e mezzo farfalle; una jana, perché capimmo che di esse si trattava, andò a posarsi su dei massi che delimitavano l’ingresso al pozzo, mentre le altre continuarono a volare nei pressi, sfiorando i cespugli dietro cui eravamo nascosti… ed ebbe inizio uno spettacolo che ci avvolse in un misto di paura e di curiosità. Quando la luna si rifletté sul fondo del pozzo, trovandosi ad essere perfettamente perpendicolare all’imboccatura che si apriva al sommo della sua cupola, le janas entrarono a turno, recitando bizzarre formule, che ci sembrarono un misto di preghiere e magie, e si bagnarono in quelle acque, che per loro erano evidentemente sacre; poi scomparvero nella direzione in cui tramontava il sole. Noi tentammo anche di seguirle, ma ben presto dovemmo rinunciare.

L’indomani trovammo una buona scusa per non entrare a scuola e così andammo a continuare l’esplorazione della zona verso cui si erano allontanate le janas. Boriccu ci disse che la zona era conosciuta come sa domu de is abis, perché evidentemente era un posto ricco di alveari. Arrivati nelle vicinanze di alcune grotte, fummo colpiti dal buio profondo e da quel grande silenzio che proveniva dal fondo della più grande di esse e così ci assalì un’improvvisa paura, che ci costrinse a rientrare prima del tempo.

Qualche giorno dopo, Antoixeddu, il più piccolo ed il meno smaliziato dei componenti della nostra banda, mentre per strada giocava a biglie con una ragazzina del vicinato, si lasciò scappare qualcosa sulla nostra missione segreta, anche se sul momento non dette eccessivo peso a questa sua ingenuità. Quando fece cenno della cosa a Boriccu, la domenica per punizione fu lasciato a casa, per fargli capire che i segreti non dovevano essere svelati a nessuno.

Occorse qualche mese per dimenticare quella paura che ci aveva assalito davanti a quella misteriosa grotta, ma alla fine la curiosità e il desiderio d’avventura ebbero la meglio e così decidemmo di riprendere la nostra caccia.

Quel giorno partimmo molto presto ed arrivammo nel punto in cui avevamo interrotto le ricerche, intorno alle nove. Boriccu ci rincuorò e ci disse che questa sarebbe stata la volta buona, anche perché nell’aria avvertiva un grande senso di tranquillità.

Appena però entrammo nella grotta, sentimmo in lontananza come un pesante respiro di qualcuno che dormisse profondamente ma, nonostante in noi riprese quel senso di oscura paura, continuammo a camminare; ad un certo punto, aguzzando la vista nella penombra, scorgemmo qualcosa che si muoveva, era come se qualcuno si stesse svegliando da un lungo sonno e stentasse a rendersi conto di quanto gli accadeva attorno. Ma soprattutto fummo come ipnotizzati da quel luccichio sempre più intenso, che ci arrivava dall’angolo più lontano della grotta. Antoixeddu fu il primo ad aprire bocca, tentando di convincerci a non proseguire, ricordandoci i pericoli cui andavamo incontro. Boriccu questa volta riuscì a far valere la sua autorità, chiamando pappe molli quelli che volevano abbandonare e minacciando l’allontanamento dalla banda per gli stessi. Le parole del capo ci convinsero a proseguire, ma quando arrivammo in fondo alla grotta, la delusione per quel che vedemmo fu niente rispetto al terrore che ci assalì, qualche attimo dopo.

Il luccichio si rivelò una roccia ricca di quarzi su cui si rifletteva un raggio di luce che penetrava da una fessura dall’alto, mentre quella massa che piano piano si stava svegliando era proprio quello che mai avremmo voluto vedere… sa musca macedda. Grande, enorme come una casa, con quel pungiglione capace di trapassarti da parte a parte in un batter di ciglia, scossa da un tremito sempre più violento, prese ad avvicinarsi verso di noi, paralizzati momentaneamente da quanto avevamo scoperto. Dopo qualche secondo ci rendemmo conto del pericolo che stavamo correndo e scappammo a gambe levate verso l’uscita della grotta, con la mosca che si dava la caccia. Come vedemmo la luce del giorno, ci dirigemmo verso dei massi sulla sinistra della grotta e non vedemmo che dall’altra parte i nostri genitori e i nostri fratelli ci cercavano con ansia, allarmati dal racconto di Vitalina, la ragazzina cui Antoixeddu aveva raccontato tutto. Come la mosca apparve all’imboccatura della grotta, fu accolta da un fitto lancio di pietre e quant’altro, cosa che però non fermò la sua corsa di noi. Quando non avemmo più sassi da tirare, aumentò in tutti noi il terrore a mano a mano che la mosca si avvicinava verso di noi; quando arrivò talmente vicino a noi da poterci guardare negli occhi, avvenne qualcosa di straordinario e di impensabile. Forse si ricordò di quanto male aveva subito da parte dei nostri antenati, che avevano ucciso tutte le sue compagne, forse vide in noi dei cuccioli non da aggredire, ma da proteggere, sta di fatto che avvenne un miracolo. In qualche modo ci fece capire che voleva essere cavalcata da tutti noi e così docilmente obbedimmo e tra la meraviglia e la paura dei nostri familiari, si levò in volo e ci portò in giro a mostrarci dall’alto tutto il salto del nostro villaggio; scoprimmo allora quelli che erano i veri tesori della nostra terra: i fiumi dalle acque abbondanti e pulite, i boschi risparmiati dagli incendi e dai tagli, le montagne incontaminate…

Se oggi pensiamo a quanto abbiamo fatto e stiamo facendo per distruggere quei nostri tesori, ci viene da pensare a quante mosche sarebbero necessarie per custodirli e conservali per i nostri futuri figli.

 

Gli alunni della classe seconda media di Ballao

Disegni di Jonathan Arba

 

 

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