LE COLTURE AGRARIE
Il grano è al centro della rotazione delle colture.
La cerealicoltura estensiva si organizza durante l'annata.
In media si coltivavano sei o sette qualità di
graminacee e di leguminose, che ruotavano intorno alla
coltivazione del grano; oltre ad alcune colture specializzate,
quali la vite, l'ulivo, il mandorlo.
Data questa diversità di coltivazione, ogni stagione,
ogni mese, ogni settimana, erano e sono caratterizzati
da una serie di attività differenziate.
Essendo il grano al centro della rotazione delle colture,
l'avvicendamento più comune e ripetuto, anche per
quattro o cinque coppie d'annata, era quello grano-leguminosa
(specialmente fave). Rotazioni meno importanti erano le
seguenti: grano-cece; grano-lenticchie; grano-pisello;
oppure triennalmente: grano-orzo-maggese, e poi, di nuovo,
grano-leguminosa; oppure grano-maggese-maggese e, quindi
di nuovo grano.
Oggi, per il maggese è molto coltivata la Sulla,
che dura due anni e il Trifoglio irriguo, che dura anche
cinque anni.
Le leguminose più coltivate sono le fave. Va notato
che molte zone a maggese si trovano, spesso, fra i terreni
a "bidatsoni".
L'annata agraria "annada" corrisponde a un
anno solare, ma più che con l'anno astronomico
coincide con l'andamento metereologico delle stagioni.
Verso la metà di settembre incominciano i grandi
lavori per la nuova annata, che consistono nella preparazione
dei terreni e delle sementi.
L'aratura "aringiu" si effettuava con l'aratro
di ferro trainato da un giogo di buoi: il cavallo, a Selegas
non era molto usato a causa dei terreni, molto spesso,
scoscesi. Gli aratri di ferro sono stati introdotti ,
nella Sardegna meridionale, già nei primi anni
del secolo e negli ultimi anni del secolo scorso, ma la
loro diffusione massiccia e prevalente si ebbe solo dopo
la prima guerra mondiale.
"S'arau de linna" o "arau sardu",
aratro a chiodo, che il La Marmora crede che sia stato
introdotto in Sardegna dai romani, era ancora molto usato
fino agli anni quaranta e oltre, sia per gli usi normali
dell'aratro, sia, specialmente, per "akkorai",
cioè per fare le gore di deflusso dell'acqua piovana
sovrabbondante, per la sistemazione idraulica dei campi;
questo aratro rovescia, infatti, le porche da ambo le
parti. Nello "akkorai", l'aratore pratico eseguiva
un solco maggiore e centrale, per ricevere e convogliare
le acque delle "koras" laterali, detto "sa
kora maista".
L'aratura delle fave terminava a novembre e, contemporaneamente,
avveniva la semina, dentro il solco.
L'aratura dei terreni a grano durava da metà novembre
fino a metà gennaio, dopo di che si effettuava
la semina, a spaglio.
L'aratura per l'orzo avveniva dopo la semina del grano.
E' da tenere presente che verso la metà di ottobre
si faceva, e si fa, anche la vendemmia, con tutti i lavori
per la vinificazione e la prima "skrattsadura",
scalzatura, delle vigne.
Verso la metà di dicembre si faceva la prima zappatura
delle fave. Sia per le fave che per il grano erano necessari
tre mesi di zappatura, che tenevano impegnato il personale
tutta la giornata, dalla mattina fino al tramonto.
L'orzo si zappava, raramente, a maggio, e a tale lavoro
partecipavano anche le donne.
Verso la fine di maggio s'iniziava l'estirpazione delle
fave e dei piselli. I ceci, invece, si estirpavano dopo
la mietitura del grano.
Le fave si lasciavano dissecare nelle piante e si estirpavano,
come le altre leguminose, quando la fase di essicamento
era tale da precedere la deiescenza dei baccelli, e non
tanto avanzata che ne provocasse la caduta durante lo
strappo della pianta. Una volta estirpate, le fave, raccolte
in piccole fascine, venivano lasciate sul terreno a completare
l'essicamento. Si trasportavano, poi, con il carro a buoi,
all'aia, dove avveniva la trebbiatura, che durava alcuni
giorni. Parte del raccolto serviva per governare i buoi
e per provviste di casa, la restante parte veniva venduta
ai commercianti.
Il carro a buoi e, secondariamente, il carro a cavallo,
è stato il principale mezzo di trasporto sino agli
anni sessanta. Senza di esso non era possibile svolgere
le principali attività agricole, in una situazione
come quella di Selegas, e, più in generale, della
Trexenta,
caratterizzate da una forte dispersione e polverizzazione
dei fondi e della necessità di lunghi e giornalieri
spostamenti e trasporti dai campi alle aie comuni, e dai
campi alle case d'abitazione nel paese.
La proprietà di almeno un giogo di buoi e di un
carro era anche il primo passo e il primo segno di un'ascesa
verso la situazione di coltivatore autonomo.
Finita la raccolta delle fave, a giugno-luglio, si iniziava
la mietitura, che durava per almeno un mese; la trebbiatura
e la spagliatura del grano terminava verso la fine di
luglio.
La mietitura "sa messa", si eseguiva, fino
agli anni sessanta, a mano, quando la spiga "sa cabitza"
era già matura e col "collo" color cera
"su zugu ceratzu"; ma i culmi dovevano essere
ancora un pò freschi e verdi nelle parti nodose
"nùus", per evitare che parte della cariosside
cadesse per terra e affinchè fosse possibile formare
dei legacci per i covoni mediante un mannello di culmi
mietuti in profondità.
Il lavoro doveva essere iniziato al mattino, prestissimo,
già prima dell'alba, quando le piante sono meno
aride e rese più elastiche dalla rugiada. E' per
questo motivo, che per la maggior parte della mietitura,
i lavoratori pernottavano in campagna.
La mietitura doveva essere "pulia" e onesta,
non lasciando o riducendo al minimo le spighe del grano
che durante il lavoro si perdono cadendo per terra. Prima
d'iniziare il lavoro era necessario scegliere il punto
del campo da cui partire, secondo una direzione: si sceglieva,
cioè "sa tenta", che dipendeva dall'inclinazione
delle piante di
grano. Era, infatti, necessario disporsi nella direzione
opposta all'inclinazione del grano, affinchè il
taglio potesse avvenire senza che le ariste toccassero
il viso del mietitore. I mietitori si disponevano affiancati
a circa tre metri l'uno dall'altro.
Terminato di mietere l'ultimo campo, il giorno della
fine della mietitura, "a s'akkabu de sa messa",
"sa kambarada", la squadra dei cottimisti, metteva
tutta la sua arte e tutto il suo impegno per fare una
"maniga de agoa", cioè l'ultimo covone.
A questo fine si lasciava, nella parte migliore del campo,
che veniva mietuto per ultimo, nel bel mezzo dell'ultima
"tenta", un quadrilatero di grano da mietere
per ultimo. "Sa maniga de agoa" doveva essere
"totu arrulada", tutta ricciuta nelle ariste,
per essere la più bella e la più vistosa;
si collocava su un carro al quale erano "giuntus",
attacati, i migliori buoi.
Questa "maniga de agoa" veniva collocata "in
sa furcidda di ananti", nella forcella di legno davanti
al carro, per esere bene in vista e al posto d'onore.
I vari covoni, intanto, erano stati portati nell'aia,
coi carri a buoi. Le aie erano, a Selegas, in terreno
comunale. Ogni proprietario ne occupava una parte e pagava
una quota al Comune, sulla base dell'area occupata.
Ogni aia doveva avere lo spazio sufficiente per girarvi
il bestiame che doveva effettuare la trebbiatura, e doveva
essere bene esposta a tutti i venti, e specialmente al
Maestrale, affinchè le cose trebbiate potessero
essere ben ventilate. Scelto nell'aia il posto dove si
dovevano "sterri", spargere, le spighe del grano
per essere trebbiate,
si scopava ben bene quel tratto e, quindi, vi si distendevano
i covoni slegati "si sterriada sa maniga". Le
spighe si dovevano disporre in ordine ed in circolo, con
le spighe "sa cabitza" in dentro, in maniera
che i chicchi, calpestati e rimossi dalla spiga, risultassero
dentro la circonferenza, e gli steli, che formavano la
paglia, al di fuori. Formato così il mucchio di
ciò che si doveva trebbiare a calpestio, poteva
incominciare l'opera o il lavoro del bestiame.
I cottimisti dovevano avere, dal padrone, il grano direttamente
nell'aia, pulitissimo e direttamente dalla "massa".
Così era per tutti i servi agricoli, e per il grano
che si doveva al Monte granatico.
Il grano residuato "in su fundali 'e sa messa",
nel fondo della massa, non si dava mai "po sa skarada",
ma dopo averlo pulito ben bene e "fattu a ciliru
e cilireddu", se lo prendeva il padrone, senza mischiarlo
a quello più pulito.
Il grano, fin dai primi anni del secolo, in grande misura
si è sempre venduto. Fino agli anni cinquanta si
conservava la quantità per la panificazione casalinga
quindicinale, ma, in seguito, e specialmente oggi, si
vende di solito tutto il raccolto di grano e si acquista
il pane e le paste alimentari.
Dagli anni trenta in poi, e sino agli anni sessanta,
Selegas aveva due trebbie fisse locali, altre trebbie
venivano fatte pervenire dal Campidano. I Monti granatici
sono scomparsi negli anni sessanta, ed oggi, il grano
si ammassa nel locale Consorzio Agrario.
Attualmente l'aratura viene fatta con i trattori. Per
il grano si fa una prima aratura di fondo con bivomero
o trivomero, di circa 30-40 centimetri di profondità,
quindi si appiana il terreno, sempre con l'ausilio del
trattore, con l'estirpatore e l'erpice.
Segue la semina, che viene eseguita tramite una seminatrice
trainata da un trattore, che contemporaneamente concima
il terreno.
Verso febbraio si effettua una nuova concimazione di
"copertura". Verso aprile, sempre col trattore,
viene effettuato il diserbo.
A giugno-luglio si miete con la mietitrebbia ed il grano
viene direttamente conferito all'ammasso.
Per le fave la semina si effettua contemporaneamente
all'aratura, fatta da trattori. Il metodo di raccolta,
tuttavia, è rimasto immutato.
Il Trifoglio irriguo dura quattro-cinque anni, la Sulla
due anni: ciò consente di far riposare il terreno,
che poi viene coltivato a grano.
L'impiego dei trattori, di cui molti agricoltori sono
forniti, ha comportato la quasi completa eliminazione
dei mandorli, d'ostacolo alle manovre dei mezzi meccanici
oggi impiegati. L'avvento della meccanizzazione delle
operazioni agricole ha acuito la piaga della disoccupazione,
come si è evidenziato nella parte relativa al Censimento;
piaga che già preesisteva, sia pure sotto forma
di lunghi periodi di disoccupazione e di sotto-occupazione,
che duravano, in media, circa quattro mesi all'anno; ma,
a volte, anche cinque o sei. I numerosi lavoratori giornalieri,
infatti, trovavano lavoro soprattutto nel perio
do della zappatura (inverno-primavera), dell'estirpatura
delle leguminose (fine primavera) e della mietitura. Un
modo di rimediare alla fame cronica conseguente ai lunghi
periodi di disoccupazione era quello di farsi assegnare
dai "messaius mannus" dei terreni da coltivare
a "mes'a pari", provvedendo a tutta la manodopera
a forza umana.
Con l'introduzione della meccanizzazione, anche quest'ultimo
rifugio è venuto a mancare, e fra il 1961 ed il
1971 circa 400 seleghesi su 1800 sono dovuti emigrare,
anche attirati dal miraggio di un posto sicuro nell'industria.
In conseguenza della scarsità di manodopera, sono
diminuite anche le superfici vitate.
Grandi vigneti sono quelli dell'azienda Argiolas a Turriga
e Ungrera.