CULTI E TRADIZIONI
Selegas fece parte, sino all'8 dicembre
1503 della Diocesi di Dolia, le cui origini risalgono
all'anno 1000. Le fonti circa la Diocesi Doliense ed il
suo Vescovo iniziano esattamente col 1089. In tale anno,
infatti, in documenti storici, appare la firma di VIGILIO
come "Episcopus Doliensis". La sede di questo
antico Vescovado era Dolia o villa San Pantaleo (ora Dolianova)
e la giurisdizione episcopale si estendeva su 92 chiese
parrocchiali.
In San Pantaleo sedeva anche un Capitolo
con un arciprete e otto canonici; la denominazione, localmente,
era "Piscopatu de Olia".
Dalla data del 1089 inizia la serie certa
e cronologica degli "Episcopi Doliensi" con
Vigilio, seguito da Benedetto dei Marsigliesi (1112);
Aliberto o Alberto (1120); Rodolfo (1163); Guantino (1217);
Pietro de Cilo o Decili (1261); Gonario de Milii (1306-1308,
che partecipò al Concilio generale di Vienne, in
Francia); Orlando (1317); Francescovo (1334); Saladino
(1342); Giovanni del Bardassino (1355):; Nicolò
I (1364); Giovanni II (1380); Secondo de Moris (1391);
Giacomo (1394); Nicolò II di Bonifacio (1397);
Goffredo Sigarlia (1403); Ludovico (1429); Giovanni Martim
(1432); Giovanni Arcedi (1451) -rinunciatario-; Antonio
Proavo (1451); Pietro Pilares (1480 o 1482 -rinunciatario-
nel 1513 nominato Arcivescovo di Cagliari); Raimondo de
Loaria di Saragozza (1484); Augusto de Leonis (1485);
e l'ultimo Vescovo ufficiale di Dolia Pietro Ferrer o
Feria (1493), deceduto nel 1502.
Con Pietro Ferrer cessa la Diocesi Doliense:
per decreto di Alessandro VI del 12 aprile 1502. In seguito
alla morte del Ferrer fu disposta la soppressione e l'incorporazione
nella Archidiocesi cagliaritana. La Bolla Ufficiale e
definitiva della soppressione del Vescovado di Dolia fu
promulgata dal Papa Giulio II l'8 dicembre 1503. Da allora
il titolo della Chiesa Doliense fu assunto dagli Arcivescovi
di Cagliari.
La chiesa parrocchiale di Selegas è
dedicata a Sant'Anna.
Si racconta che ad una donna, che si
era recata in campagna a fare legna sia apparsa una signora,
la quale le raccomandò di sollecitare il parroco
locale affinchè si erigesse una chiesa in regione
"Pranu su Prunu Sceddaxiu" in onore della Santa.
La pianta della chiesa, di stile tardo-gotico,
ha forma rettangolare. All'interno vi sono otto cappelle:
quattro da una parte e quattro dall'altra, ed è
arricchita dal marmo dell'altare e della balaustra; vi
sono pure degli archi di pietra viva, alcuni a tutto sesto
ed altri a sesto acuto.
Nella parte centrale della volta, ricostruita
nel 1902, si nota un dipinto firmato dal pittore Parenti
Oreste, con incisa la data della sua esecuzione: 1902.
Il dipinto raffigura Sant'Anna con la
Madonna bambina poggiata sulle ginocchia.
Il campanile è dotato di quattro
campane; la più antica, risalente al 1608, porta
incisa la scritta : Seligas.
Si racconta che i marmi necessari alla
edificazione dell'altare e dela balaustra fossero destinati
alla chiesa dei Martiri di Fonni, un paese dell'interno;
ma, poichè il trasporto veniva effettuato con carri
a buoi, il caricò si fermò a Selegas. I
buoi, infatti, giunti in paese, non risposero più
ai comandi dei conducenti e vi si fermarono: gli abitanti
di Selegas, nella convinzione che questo fosse un segno
della volontà di Sant'Anna, decisero che i marmi
dovessero restare nella chiesa della Patrona.
Da un documento inedito risalente al
1777, conservato nell'Archivio Arcivescovile di Cagliari,
risulta che nella villa di Selegas vi erano tre chiese,
una delle quali fondata ed eretta dagli eredi Marroccu,
verosimilmente nel 1700; delle altre due si dichiara di
non aversi menzione della loro antichità.
Oltre alla chiesa di Sant'Anna, che era
ed è la parrocchiale, delle altre due, una era
dedicata a San Pietro e l'altra è la chiesa rurale
della Vergine d'Itria.
Sui resti della chiesa di San Pietro
venne riedificata nel 1810 l'attuale chiesa dedicata a
Sant'Elia. La chiesa rurale della Vergine d'Itria, distante
dal popolato due miglia e mezza, era custodita da un eremita
che viveva di elemosine.
Dal documento citato, si evince che a
Selegas non vi erano altre chiese rurali profanate, né
interdette al culto, così come non era mai esistito
alcun convento di religiosi, non essendovi stata, in alcun
tempo, casa di religiosi.
La chiesa parrocchiale viene descritta
in buono stato, così come in buono stato risultava
l'ossario e l'adiacente cimitero.
Già nel 1777 risultava esistere
l'oratorio pubblico eretto col titolo della Vergine del
Rosario, dove, tuttavia, non si celebravano, né
messe, né uffici divini.
Esisteva un'unica Confraternita con l'invocazione
del SS. Rosario, fondata da un religioso domenicano, predicatore
quaresimale. Non risulta l'anno di fondazione della Confraternita,
né il nome del religioso.
La Confraternita, governata dal Rettore
e dagli addetti, spendeva i redditi che le provenivano
da 36 starelli di terreno dato in affitto, da una donazione
e da una questua fatta ogni anno dalla "priorissa",
per la cappella della Vergine e per la sua festa.
E' precisato che nella villa di Selegas
non esisteva alcuna reliquia, a riserva del legno della
croce, venerato dal popolo in maniera "preziosa e
autentica"; tuttavia, secondo una notizia del gesuita
Francesco Ortolano, del 1623, accanto alla pila dell'acqua
benedetta sarebbero riposte le reliquie dei martiri Virgilio
e Serso, giustiziati nel 303 d.C..
Né la chiesa parrocchiale, né
quella rurale erano soggette ad alcun diritto di patronato,
sia da parte degli abitanti del paese, sia da parte dei
forestieri; mentre sulla chiesa di San Pietro avevano
diritto patronale gli eredi Marroccu, per averla fondata
e dotata degli arredi necessari al culto.
A Selegas, oltre al parrocco, vi erano
tre curati. La rendita del parrocco era di lire 2.000,
e un terzo della Decima, mentre la restamte parte della
Decima serviva per i curati e per le spese correnti inerenti
la chiesa.
Nella chiesa parrocchiale si celebravano
due feste per la Patrona Sant'Anna, una alla seconda domenica
di maggio, l'altra nel suo giorno specifico.
In occasione della festa di Sant'Anna
si facevano corse di cavalli, che costeggiavano il paese,
mentre in occasione della festa della Vergine d'Itria
si faceva una particolare questua. In genere, le feste
non conoscevano disordini di alcun tipo.
Oggi, le feste principali sono quella
della Patrona, il 26 luglio; Sant'Elia, la seconda domenica
di luglio; e Santa Vitalia -la cui chiesa è stata
ricostruita nel 1950 dove si trovava la precedente, eretta
nel 1887 da Padre Domenico F. Serra-, che si festeggia
il primo lunedì di ottobre.
I componenti il Comitato dei festeggiamenti
si chiamano "obreris", col loro Presidente che
prende il nome di "obreri majori" o obriere
capo. Il nome "obreri" deriva dallo spagnolo
"obra", che significa opera o virtù;
"obrere" che significa operaio, "obreria",
rendita di chiesa, "obrayero" capo di operai,
che può avere anche il significato di capo di congregazione
religiosa, che opera per rendere più belle le feste.
Essi organizzano i divertimenti, regolano
le spese, si mettono d'impegno per far divertire il popolo
durante lo svolgimento delle feste religiose. In tali
occasioni, specialmente per la festa della Patrona, in
tutto il paese è un affaccendarsi delle famiglie:
vengono gli ospiti degli altri paesi e bisogna accoglierli
bene per dimostrare il gradimento della loro visita.
Per la festa di Sant'Anna, oltre alla
corsa dei cavalli "su paliu de Sant'Anna", si
correva anche a "pariglie"; il vincitore riceveva
un premio dal Comitato.
La festa di Sant'Elia è la festa
dei giovani, "sa festa de is bagadius", e sono
questi che costituiscono il Comitato per i festeggiamenti.
Altra importante festa religiosa è
la festa dell'Immacolata Concezione: "Sa Suncursa
Manna de Selegas". Per questa festa, al posto degli
obrieri, sono le "priorissas", con a capo "sa
priorissa manna", assistita e coadiuvata dalle "priorisseddas",
ragazzette, che a turno, con lo scorrere degli anni, da
"priorisseddas" passeranno a "priorissa
manna".
La festa della Madonna del Rosario, come
si è visto, era organizzata dalla Confraternita
del Rosario, che oggi non esiste più.
Come in tutta la Spagna, Portogallo,
Italia, Francia ed altri numerosi Paesi del mondo cristiano,
anche in Sardegna, ogni anno, alla vigilia delle feste
di San Giovanni Battista e di Sant'Antonio Abate,
si accendono dei grandi falò,
chiamati in dialetto "fogus" o "fogoronis".
Intorno alla data della festa di San Giovanni, ricorre
il solstizio d'estate.
A Selegas, per San Giovanni "Santu
Juani de froris", si facevano "fogoronis"
di legna e di paglia lungo le strade, e si saltavano.
Altra festa importante era quella di
Sant'Isidoro, mentre la festa di San sebastiano, talvolta
si trascurava,
Sant'Isidoro è il Patrono degli
agricoltori e si festeggia nel mese di maggio. In occasione
di questa festa si eseguiva la più grande pulizia
annuale degli animali da lavoro.
Isidoro, che fu, in vita, agricoltore,
nacque nella città di Madrid in Spagna nell'anno
1110, ed era sposato con Maria Turiba, contadina anch'ella,
e di grande virtù. Per la sua festa, nei paesi
agricoli della Sardegna, ed anche a Selegas, c'era l'usanza
di far uscire i buoi ed i cavalli "mudaus",
ornati, con "gutturadas", collane ricamate,
e con fiori, e limoni e arance conficcate sulla punta
delle corna. I buoi e i cavalli si portavano in processione
e ricevevano la benedizione del parrocco, insieme coi
campi e coi contadini che li conducevano. Vuole la leggenda
che questo Santo contadino protegga i seminati da ogni
male e da ogni tempesta.
Durante la Quaresima era in voga in tutta
la Trexenta, ma soprattutto a Selegas, l'antichissima
usanza di "Giuanni Spadinu e Maria Codreddara".
Il mercoledì delle ceneri, le donne non dimenticavano
di fare, con le forbici, due figurine di cartone, le quali
rappresentavano un uomo e una donna, e cioè marito
e moglie. L'uomo era chiamato
"Giuanni Spadinu" e la donna
"Maria Codreddara". Alla donna si facevano sette
piedi, mentre l'uomo veniva rappresentato con una spada
in mano. I piedi della moglie servivano a contare le settimane
della Quaresima. Ogni settimana che passava, veniva tagliato
un piede a "Maria Codreddara", così che
quando erano finiti i sette piedi, era finita anche la
Quaresima.
"Giuanni Spadinu", con la spada
in mano, rappresentava il segno della difesa della propria
moglie "Maria Codreddara", contro i malefizi
dei diavoli.
Il giorno di Pasqua, quando Gesù
risorge, le due figurine venivano bruciate.
Durante la settimana Santa, quando Gesù
è morto, in segno di lutto, non si sente più
l'argenteo e solenne suono delle campane chiamare in chiesa
i fedeli. A Selegas, come in altri paesi sardi, si usava
che una squadra di ragazzi andasse in giro per il paese
per indicare alla gente l'ora di recarsi in chiesa per
le funzioni religiose. Questi ragazzi, muniti di "mattraccas"
e di "tabeddas, si trascinavano dietro un grosso
e vecchio tronco che percuotevano ritmicamente, assieme
alle "matraccas".
Per tutti i Santi, la campana maggiore
del campanile del paese, piangeva "tokkendu s'adoppiu"
o "addoppiendu" per tutta la notte, mentre la
"priorissa" della chiesa parrocchiale portava
del cibo, che veniva depositato nel campanile, dove veniva
consumato dal sacrestano e da altre persone che vi si
riunivano.
Il carnevale, a Selegas si svolgeva con
molti divertimenti. Si ballava nelle piazze e nelle case
del paese, si friggevano e si offrivano le "zippulas",
si colmavano grandi "salateris de brugnolus"
coperti di miele e di zucchero, ed inaffiati da buon vino.
Le maschere -fra le quali non mancava
mai, per far ridere, la comica figura "de sa viudedda"
e "de sa mamm'e titta", la balia, correvano
a cavallo per le vie tortuose del paese, ed a colpi di
bastone cercavano di colpire ed uccidere delle galline,
che pendevano legate ad una fune i cui capi erano fermati
ai muri opposti della strada. Di notte, poi, si faceva
baldoria mangiando le galline uccise durante la gara di
corsa a cavallo; e si facevano pantagrueliche cene, con
molti invitati, durante le quali non mancavano i canti.
Durante i divertimenti per il carnevale
era costume antichissimo di legare una bella ragazza ad
una sedia con un grande fazzoletto fra il braccio e la
spalliera della sedia, detta "sa bragadera".
Un giovinotto le dedicava, cantandola, una canzone, anche
d'amore; come premio, il giovane otteneva di ballare con
la ragazza, che in tal modo poteva liberarsi.
Questa canzone, o "mutettu",
veniva chiamata, appunto, "canzoni de muncadori",
canzone di fazzoletto, la cui esecuzione variava a seconda
dell'estro del cantante.
L'ultima domenica di carnevale si faceva
"su carnevali motu", cioè il carnevale
morto, costituito da un fantoccio, che veniva messo a
sedere sopra una carretta o carriola, con una botticina
di sotto. In testa portava un imbuto "unu imbudeddu",
all'interno, un lungo tubo di
canna, chiamato "sa tuponella",
che andava a finire dentro la botticina, attraverso il
buco detto "su maffu". A "su tingioni"
si appliccava il rubinetto per fare uscire il vino.
Le maschere, vociando allegramente, portavano
il fantoccio del carnevale morto, di casa in casa, dicendo
che "carnevali motu" aveva una grande sete,
e pregavano di invitarlo a bere. La botticina del carnevale
"sa carradedda de carnevali motu" veniva sempre
riempita, grazie agli inviti di buon vino che gli venivano
offerti, e così veniva procurato tutto il vino
per il divertimento, che, appunto, consisteva anche in
grandi bevute.
Il fantoccio, alla fine della festa,
si bruciava in piazza, fra allegre risate e grida festose.
Il giorno di "carnevali motu"
si faceva anche la pentolaccia; una grande pentola veniva
appesa in una grande stanza e, fra i divertimenti e le
gozzoviglie, si cercava, bendati, di romperla: "de
segai sa pingiada".
A Selegas è rimasto vivo il ricordo
dei balli in piazza, come quello "de su sprigu",
durante il quale, una ragazza, seduta al centro del cerchio
formato dai ballerini, si lasciava corteggiare, rimirando
attraverso uno specchio il ballerino che le danzava attorno.
Nel ballo detto "de su babbu de is orfanas",
il ballerino fungeva da padre de "is bagadias"
e, ad una ad una, le invitava al centro del cerchio, dove
si ripeteva quanto descritto a proposito del carnevale.
Ciascuna ragazza, infatti, sedeva su una sedia, posta
al centro del cerchio formato nella danza ed ascoltava
le lodi che il "babbu de is orfanas"
cantava in suo favore affinchè
si facesse avanti un corteggiatore. Il corteggiatore,
a sua volta, cercava di conquistare la ragazza, alla quale
era lasciata la facoltà di accettarlo o meno. Il
ballo proseguiva, in tal modo, per tutta la serata.
Ma il ballo più significativo
è senz'altro "su ballu cantau", accompagnato
dalla musica di "Andimironai". I cantanti stanno
al centro del cerchio composto dai danzatori, e cantano,
con voce lenta e malinconica, ispirando un passo lento
e ondeggiante.
Il costume femminile di Selegas, usato,
peraltro, assieme a quello maschile, solo a fini folkloristici,
è composto da: camicia, corsetto, giacchino, gonna,
grembiule, e da un fazzoletto di seta posto sul capo.
La camicia è di lino bianco, ricamata a "puntu
vanu", con larghe maniche che, coperte dal giacchino,
si stirano con pieghe ad organetto. Il corsetto "su
cossu" è di broccato azzurro a fiori dorati
e guarnito di nastri. Il giacchino è di seta nera,
con maniche strette leggermente aperte all'interno, fino
al gomito; stretto in vita, è raggrinzato a pieghe
fittissime e lunghe. Il grembiule, "su deventabi",
è di seta o raso, guarnito di trine e pizzi. La
gonna è blu, in passato nera o color "papassa",
guarnita di trine e balza di diverso colore, terminante,
talvolta, "a puntas a puntas" e con larghe pieghe
dette "tavellas"; il tessuto usato è
"s'arrasigliu", conosciuto in Sardegna da almeno
300 anni. Sul capo si portava un piccolo fazzoletto rosso
per raccogliere i capelli, "su turbanti", sul
quale nelle grandi occasioni si usava indossare "su
mucadori de seda mannu".
I gioielli erano d'argento e consistevano
prevalentemente in due "ganceras", una portata
sul petto e l'altra appesa in vita.
La foggia del costume maschile, semplice,
ma allo stesso tempo elegante, ricorda quello dei greci
e degli egizi. Il tessuto, d'orbace, è stato oggi
sostituito dal panno di lana. Si compone della camicia
con ricami a "puntu vanu" con piccolo collo
e larghe maniche, calzoni larghi di lino bianco e le ghette,
"is crazas", tenute su da un fiocco, sempre
rosso, a simboleggiante l'appartenenza alla categoriapreminente
dei lavoratori agricoli, dentro cui si infilavano le estremità
inferiori dei calzoni, i quali potevano anche essere portati
sciolti sul ginocchio. Sui calzoni s'indossava, infine,
il gonnellino, sempre di panno nero.
Sulla camicia si indossava "su farsettu",
un gilè nero bordato di nero o di bordeaux, stretto
in vita da un cinturone di pelle; sopra "su farsettu"
s'indossava, nel periodo invernale, un giubotto di pelle
senza maniche, "sa mastruca".
Non mancava mai il copricapo, "sa
berritta", girata all'indietro nei giorni feriali
e davanti nei giorni festivi.