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IL MEDIOEVO
La Trexenta dai romani
passò, come il resto dell'isola, ai Vandali nel 456
d.C. e, quindi, ai Bizantini nel 534 d. C..
Ai vandali, ma forse ancor
prima ai punici, si deve il legame che unì, per tutto
il Medioevo, la Sardegna all'Africa. Inoltre, la Chiesa
Sarda era legata a quella d'Africa, così come per
la Sardegna passava la via che univa il Papa alla Chiesa
Africana. Né il rapporto Sardegna-Africa, fu col
tempo, dimenticato: ancora nel XII secolo il geografo arabo
Edrisi, così si esprimeva a proposito della popolazione
dell'isola(1): "I sardi sono di schiatta Rum Afariqah
(latina d'Africa); sono gente di proposito e valorosa, che
non lascia mai l'arme".
Con la conquista bizantina
la Sardegna formò una delle sette Provincie africane,
messe alle dipendenze di un Prefetto del Pretorio residente
a Cartagine; ebbe, però, come la Numidia e la Mauritania,
un proprio Praeses e un proprio Dux(2).
Mentre il Praeses, che
aveva il compito d'occuparsi dell'Amministrazione civile,
risiedette a Cagliari, il Dux (Duca), al quale era affidata
l'Amministrazione militare, ebbe come sede Forum Traiani
(Fordongianus), centro utile al controllo dei barbaricini(3).
La cultura greca ebbe grande
importanza nel processo di modellamento e di influenza nei
confronti delle istituzioni economico-sociali e delle tradizioni
della Sardegna.
Con la cacciata dei vandali,
il cristianesimo orientale fu liberamente praticato dai
monaci eremiti in tutte le contrade sarde(4).
I monasteri a rito greco
furono, anche in Sardegna, affollatissimi(5).
S. Teodoro fece la grande
riforma monastica eliminando dal monachesimo il quietismo
contemplativo orientale e imponendo il lavoro obbligatorio
in tutti i monasteri da lui dipendenti, nonchè l'eliminazione
della schiavitù(6). Il principio basilare fu contenuto
nella massima: "Il monaco deve vivere in Dio, ma senza
cessare di essere attivo ed utile ai suoi simili."
La febbre monastica giunse
a tal punto che nel X secolo si dovette vietare la trasformazione
delle chiese in monasteri, limitando a 8-10 il numero dei
monaci per il servizio di chiesa. Anche in Sardegna fiorirono
i monasteri rurali e le aziende agrarie fiorite intorno
ad essi debbono essere state assai numerose ed estese(7).
Dal principio del VII secolo,
la Sardegna subì gli influssi ecclesiastici di Bisanzio,
più che di Roma(8). Se ne ha traccia nei nomi e nel
culto dei Santi del menologio greco: a Selegas, basti ricordare
Sant'Elia e la Madonna d'Itria, una "Goiditria",
cioè Madonna del Buon Cammino, la cui chiesa è
posta lungo l'antica strada punica e romana che da Cagliari
conduceva verso il Gerrei e le altre regioni Centro-orientali
dell'isola; una caratteristica costante delle chiese dedicate
a questa Madonna è, appunto, la loro ubicazione in
prossimità di strade esistenti in epoca storica.
La chiesetta della Madonna d'Itria doveva essere la parrocchiale
o, comunque, la chiesa intorno alla quale sorgeva il centro
rurale romano-bizantino e basso-medioevale di Arcu o Arcusila,
ancora abitato nel XII-XIII secolo e ricordato in un
Componimento pisano del
1322-58. Arco o villa d'Archo, è nominato anche nei
conti del sale del 1347/8, 1362/3 e 1389/91, risulta disabitato
nel 1421(9).
Un'altro centro sopravvissuto
nel periodo bizantino doveva essere il centro rurale che
sorgeva nei pressi del nuraghe Nuritzi, dove sono stati
ritrovati reperti archeologici di quell'epoca(10).
Anche in località
Santo Stefano(11), dove sono state ritrovate resti di tombe
paleo cristiane, doveva sorgere un centro abitato, con relativa
chiesa, dedicata al Santo, la cui statua, secondo alcuni,
è, tuttora, custodita nella chiesa parrocchiale di
Sant'Anna.
L'obbligatorietà
del lavoro cui erano tenuti i monaci deve aver provocato
la razionalità dei monasteri, con ricche produzioni,
tali da determinare nell'isola il risveglio generale dell'agricoltura.
Fu un risveglio generale di attività agricole e artigianali
che posero la Sardegna nelle condizioni di organizzarsi
politicamente e militarmente, e di resistere agli attacchi
arabi, respingendo i loro tentativi di sottomettere l'isola(12).
Quasi bilingue era la Chiesa
sarda nel nono e decimo secolo, e greche le iscrizioni nelle
chiese: e in caratteri greci è scritta qualcuna delle
più antiche carte sarde. I sardi non avevano nessun
interesse a perdere quell'ombra di indipendenza che li legava
all'Impero Romano d'Oriente, il quale per molti secoli fu
l'unico Stato che avesse una flotta, la quale contrastasse
agli arabi il dominio del Mediterraneo(13).
Ancora oggi il culto di
San Teodoro è abbastanza vivo in Sardegna ed il Santo
è venerato come Patrono a Siurgus, toponimo uguale
a quello di un monastero del Monte Athos. Anche S. Basilio
e Sant'Andrea Frius derivano il loro nome dal culto bizantino.
Il cristianesimo in Trexenta
si diffuse molto presto, in considerazione del fatto che
la regione era importantissima per le ricchezze che vi circolavano
col mercato granario, per la massa degli schiavi che era
necessario strappare al paganesimo. Per tali motivi, il
cristianesimo, entrando nelle terre imperiali, portò
una ineluttabile rivoluzione sociale, introducendovi numerosi
culti, che sono, appunto, particolarmente e quasi esclusivamente
della Chiesa greca.
A Selegas abbiamo Sant'Elia,
il Santo degli eremiti montani. A Siurgus sorgeva un monastero
dove si festeggiava la Chimisis, la Vergine addormentata:
la nostra Assunta. E alla Vergine addormentata, vestita
di bianco e carica d'oro, coi sandali dorati, come una vera
Imperatrice bizantina, accorrevano dalle ville frumentarie
della Trexenta, gli aratori e i mietitori degli attuali
villaggi e di quelli oggi scomparsi. Salivano al grande
Santuario in devoto pelegrinaggio, con canti sacri(14).
Nel IX secolo, la Sardegna,
che era stata virtualmente abbandonata da Bisanzio, era
amministrata da un Ipatos o Console, che aveva assorbito
le funzioni di Duca e di Preside. Dopo la completa conquista
della Sicilia da parte degli arabi, la situazione nel Mediterraneo
divenne difficile e, data la lontananza da Bisanzio e la
mancanza di aiuti militari, si costituì un nucleo
di maggiore resistenza contro gli ara
bi, che continuamente assaltavano
le coste dell'isola. Per una migliore difesa e per una più
accurata amministrazione, la Sardegna fu divisa in quattro
zone o Luoghi, da cui ebbero origine i quattro Giudicati
autonomi di Cagliari, di Arborea, di Torres e di Gallura.
Dal Kamil di Ibn al Atir
e dagli storici arabi posteriori, si apprende che le incursioni
arabe sarebbero iniziate nel 710-711, si ripeterono nel
735-736, nel 752-753, nell'816-817 e, ancora, nell'821-822,
per riprendere nel 934-935 e, infine, nel 1015-1016 con
la massiccia impresa di Museto, comprendente un centinmaio
di navi e un migliaio di cavalli(15). L'incursione moresca,
a intervalli e spesso massiccia, provocò danni ingentissimi
alle popolazioni rivierasche e a tutta l'economia agricola
della fascia costiera, per una profondità di 10 o
20 chilometri. Il timore di cadere nelle mani degli incursori,
indusse le popolazioni più esposte ad abbandonare
terre e villaggi, arrettrando all'interno.
L'ossessionante azione
araba creò in tutta la fascia costiera lo squallore
e il deserto, per cui sparirono interi villaggi e città
fiorenti.
Così anche le fiorenti
aziende agrarie create dal monachesimo nelle zone litoranee.
Al loro posto ricrebbe il cisto e l'asfodelo, e per lunghi
secoli rimasero in completo abbandono.
Nelle sue cronache, Ibn
al Atir descrive la Sardegna come un'isola abbondantissima
di frutta, e Abu-al-Maliasin conferma la notizia, considerandola
ricca produttrice d'ogni sorta di frutta(16).
Intanto i quattro Giudicati
di Cagliari, Gallura, Arborea e Torres, sorti in seguito
all'isolamento da Bisanzio, si consolidavano, riuscendo,
infine, con l'intervento delle Repubbliche di Genova e di
Pisa, a porre fine alle scorrerie arabe.
Il Giudicato di Cagliari
occupava la parte meridionale ed orientale dell'isola, quello
di Arborea la parte Centro-occidentale, Logudoro o Torres
quella Nord-occidentale, la Gallura, infine quella Nord-orientale.
Il tracciato dei confini
era forse dettato originariamente da preoccupazioni difensive
contro le incursioni degli arabi, ma poteva contemporaneamente
riflettere la suddivisione tra rami differenti di una medesima
famiglia.
La grande pianura del Campidano
era ripartita tra i Regni di Cagliari e di Arborea; il massiccio
montuoso della Barbagia tra Cagliari, Arborea e Logudoro.
Il Giudicato di Cagliari
era il più esteso, con il tratto costiero più
lungo, e comprendeva due grandi regioni dedite all'agricoltura:
la pianura alluvionale del Campidano meridionale e, ai suoi
margini, le colline marnose e calcaree del Parteolla e della
Trexenta.
I documenti che dopo tre
secoli di tenebre e quasi di silenzio, nella seconda metà
dell'XI secolo riprendono a divvenire numerosi, ci mostrano
un popolo che parla e scrive già un linguaggio romanzo
derivato dal latino, quello che ha conservato meglio i suoni,
il timbro e
la struttura latina. Questo
linguaggio si estendeva quasi uniforme su tutta l'isola,
ma già si profilavano i caratteri, che, accentuandosi,
dovevano separare il dialetto campidanese dal logudorese.
Selegas fece parte della
Curatoria della Trexenta, nel Giudicato di Cagliari.
Il primo cenno su Selegas
si trova nell'atto di donazione di Torgotorio, Giudice di
Cagliari, fatta a suo figlio Salusio di Laccon(17).
Nel 1057 lo scisma fra
la Chiesa Latina e Greca, fu per la Sardegna un fatto storico
con profonde e complesse conseguenze.
La Chiesa Sarda, a culto
e rito greco, legata alla Chiesa Orientale per aver ascritto
a questa i propri Vescovi, si trovò ad un tratto
come in mezzo ad un cataclisma(18). Deve essere avvenuta
la secolarizzazione dei monasteri, consistente nelle concessioni
di questi ai Giudici. I monaci, posti dinanzi all'aut-aut:
o con noi e, quindi, accettare culti e riti Latini e trasferire
alla Chiesa Romana tutti i diritti e poteri della Chiesa
Sarda, oppure attendersi anche un'azione di forza: risoluti
a perdere tutto, devono aver legato i loro beni ai Giudici,
che divennero, così, proprietari dei fondi. Questo
vastissimo patrimonio passò, nei secoli successivi
(XII-XIII secolo) in potere dei monasteri Benedettini(19).
Nel Medioevo giudicale
le aziende dei Benedettini si estendevano in ogni contrada
dell'isola.
Particolarmente regolamentata
era la cerealicoltura, d'importanza vitale per l'isola.
La coltura della vite ebbe un notevole sviluppo ed
anche la coltura dei fichi,
cara ai monaci greci, si mantenne anche nelle aziende Benedettine(20).
La consociazione della vite con gli alberi da frutto era
molto praticata. Si coltivavano il melo, il pero, il fico,
il castagno, il pesco, l'albicocco, il susino, il mandorlo,
il ciliegio e, particolarmnte, il sorbo e il giaggiolo(21).
Base dell'organizzazione
agricola era la "domos", costituita da accorpamenti
di più fondi, più o meno estesi e che, se
coltivati, rappresentavano le unità poderali più
razionali.
Le "domos" dovevano
avere una schietta struttura religiosa, dovevano risalire
al VII-IX secolo, come "massae" ecclesiastiche(22).
La domo si divideva in due parti agrariamente distinte:
parte coltivata "domestia" e parte destinata agli
allevamenti del bestiame, denominata a seconda della sua
natura: pratu, saltu, silva.
La "domestia"
la si arava e coltivava variamente: a orto, frutteto, oliveto,
vigna, e a cereali. Le domestiche dovevano estendersi, per
la maggior parte dei casi, intorno al monastero e/o alla
chiesa titolare della domo(23). Nella domo vi erano anche
servi e serve.
Il servo agricolo nel XII
e XIII secolo era uno schiavo della gleba, che per crudele
destino di nascita, doveva servire, senza possibilità
di riscattarsi, malgrado potesse celebrare nozze legittime,
contrattare e possedere terreni, essere attore e testimonio
in giudizio. Nel contempo egli poteva essere però
oggetto di compravendita, di divisione, di permuta e di
donazione(24).
I figli nati da servo erano
servi anche loro, e se i genitori erano di due diversi padroni,
i loro figli venivano ripartiti fra i padroni; se ne avanzava
qualcuno, questo veniva posseduto per latus, ossia per metà.
Il servo era considerato "quadrupedia" ossia quadrupede.
Era "integru" (intero), quando il proprietario
possedeva i quattro piedi; era "ladus", quando
ne possedeva solo la metà o due piedi; "in tres
pedes", quando ne possedeva 3/4 ossia tre piedi; "un
pede", un piede, quando ne possedeva 1/4. Le frazioni
inferiori ad un piede si calcolavano in giornate di lavoro.
I servi, a seconda del
lavoro che facevano, venivano variamente classificati: v'erano
i "terrales", che erano destinati alla coltura
dei campi; "servos de juales", destinati a carri
e aratri trainati da buoi, ecc..
Oltre i servi, nelle "domos"
e fuori di queste, vi erano i "liveros de paniliu",
discendenti da liberti e obbligati a taluni servizi presso
il padrone da cui in origine dipendevano, seguendo le sorti
del patrimonio cui erano legati. Per cui potevano essere
venduti, pignorati e donati. Erano questi i "maistrus
in perda e calcina et in ludu et in linna", che completavano,
con i loro mestieri e con il loro lavoro artigianale, le
necessità del centro in cui viveno.
Le attività fondamentali
del centro curtense erano quelle agricole, che venivano
chiamate "opere" e che consistevano nell'"arare,
messare, vineare, ecc.". Il lavoro era svolto in gran
parte dai servi. Alle donne erano affidate, soprattutto,
la casa, la filatura, la tes
situra "genezu donnigu";
era consuetudine che le donne "moiant et cogant et
purget et sabunerent et filent et tessant et, in tempus
de messare, messent omnia lunis, sas ki non ant aere genezu
donnigu".
La classe più numerosa
nelle ville sarde era formata dai servi. Ogni distretto
territoriale, ogni villa viveva della produzione interna.
Mancava l'occasione e l'esigenza dei commerci. La moneta
non era che l'unità di misura per gli scambi in natura.
La ricchezza era rappresentata principalmente dal possesso
dei servi destinati alla produzione dei frutti della terra.
Perciò la struttura delle classi sociali era molto
semplice: ad una classe di potenti e di privilegiati faceva
appena riscontro una grande massa d'inferiori(25).
A capo della scala sociale,
accanto al Giudice, stavano i parenti più stretti
della sua famiglia, i fratelli e i figli, ai quali erano
riservate le cariche maggiori del Regno e venivano concesse
le terre più redditizie. Venivano poi gli altri parenti
della famiglia giudicale, pur essi privilegiati. Seguiva
la classe più numerosa dei Nobili e potenti che formava
l'aristocrazia del Giudicato. Essa era costituita dagli
alti funzionari ecclesiastici, Vescovi e Abati, e dalle
famiglie più ricche, i cui membri erano detti "Majorales";
anche a questi venivano concesse cariche pubbliche(26).
La Chiesa, con i suoi Vescovadi
e monasteri, grandi possessori fondiari dell'isola, godeva
di larghe immunità finanziarie e perfino giurisdizionali(27).
Nelle ville rurali vi erano
sicuramente liberi dotati di piccoli possessi fondiari e
di servi, ma non erano molto frequenti, né la loro
condizione si distingueva marcatamente da quella dei coloni
e dei servi che avevano guadagnato una parziale libertà(28).
L'organizzazione amministrativa
del Giudicato era fondata sopra una divisione in distretti
territoriali denominati "Curatorie", posti sotto
il governo di un funzionario Regio, eletto direttamente
dal Giudice, che aveva il titolo di "Curatore".
Questi distretti erano
formati da un numero più o meno ampio di ville legate
ad un determinato territorio e rispondenti verso una villa
più importante, la quale fungeva da capoluogo.
Il Curatore era posto alle
dipendenze immediate del Giudice e aveva il governo generale
del distretto. Egli soprintendeva all'esazione dei diritti
fiscali e alla prestazione delle opere dovute al Giudice
e ai suoi rappresentanti; sorvegliava sui beni spettanti
al pubblico potere e alle ville; esercitava un controllo
sugli agenti Reali del distretto, ecc.. Nello stesso tempo,
il Curatore aveva la giurisdizione ordinaria del distretto.
Contro la sentenza del Curatore era ammesso ricorso al Tribunale
suprenmo del Giudice. Inoltre, il Curatore aveva funzioni
di polizia e regolava il servizio armato, sia per la guardia
delle ville, sia per il servizio armato dovuto, in determinati
casi, al Giudicato(29).
E' probabile che il Curatore
tenesse la sua residenza nella villa più importante
del distretto, dove si radunava l'assemblea locale (Corona);
ma questa villa non aveva un'organizzazione diversa, né
diritti superiori alle altre(30).
Nel territorio della Curatoria
sorgevano le ville organizzate nella Scolca, la guardia
giurata che proteggeva i beni ed i prodotti di ogni centro
rurale, ed aveva per capo un pubblico funzionario, il "Majore",
a cui competeva la polizia della villa ed il controllo dei
minori funzionari curtensi(31).
Il Majore era alle dipendenze
del Curatore da cui era eletto per un biennio o anche per
un numero maggiore di anni. Egli dirigeva l'amministrazione
della villa, provvedeva alla sicurezza del suo territorio,
apprezzava i danni recati alle coltivazioni e alle persone,
assisteva il giudice ordinario nel Tribunale(32).
L'organizzazione della
villa sarda si esprimeva, come si è detto, nella
Scolca. Questa indica una guardia, una custodia che si rivolgeva,
principalmente, alla difesa della proprietà privata
ed aveva perciò un precipuo scopo di polizia interna,
non già uno scopo militare(33).
Nel marzo di ogni anno,
tutti gli abitanti della villa, tra i quattordici e i settant'anni,
giuravano di non recar danno ad alcuno nelle persone e negli
averi e di denunciare tutti coloro che avessero recato danni.
Questo giuramento riguardava tanto lo spazio abitato, quanto
quello circostante delle coltivazioni, che formavano la
cosidetta "Habitacione"(34).
A capo di questa società
stava, appunto, il Majore, che prendeva, perciò il
nome di Majore de Iscolca, insieme con le guardie giurate
(Jurati) e con le altre minori cariche curtensi(35).
La villa abbracciava tutto
lo spazio sottoposto all'autorità del Majore, anche
oltre l'"habitacione". Ad ogni villa era, infatti,
legato un territorio, e in questo erano compresi i beni
privati, i beni comunali, i saltus Regi e gli spazi eremi,
su cui si stendeva il potere di polizia di questo funzionario(36).
Il Giudicato di Cagliari,
prescelto in epoca romana e bizantina come sede delle maggiori
magistrature civili e militari, fu, nell'oscuro periodo
dei Regni sardi, il maggiore e più autorevole interlocutore
di Bisanzio e dell'Impero. Questo ruolo gli consentì
di assimilare più profondamente, rispetto ad altri
territori isolani, gli usi e i costumi della civiltà
bizantina, e di maturare, prima degli altri, una coscienza
istituzionale(37). Il ruolo che il Regno di Cagliari svolse
in ogni Epoca, fu sempre profonadamente legato alla conformazione
ed alla posizione del suo territorio. Contava, infatti,
all'interno dei suoi confini, una delle zone pianeggianti
più fertili e significative di tutta l'isola: il
Campidano di Cagliari e numerose Curatorie la cui produzione
di cereali costituì sempre un elemento determinante
per i Sovrani.
Tra la metà del
secolo XI e la metà del secolo XII si assiste, in
Sardegna, alla nascita di 14 nuove Diocesi(38).
Questa ridefinizione delle
circoscrizioni ecclesiastiche può essere stata ispirata
dalla preoccupazione di rielaborare gli antichi Vescovadi
greci, di cui, soltanto quattro: Cagliari, Sulcis, Torres
e Civitas sarebbero sicuramente sopravvissuti al tramonto
della presenza bizantina(39). La nuova situazione è
anche, probabilmente, il riflesso dell'aumento della popolazione,
come pure di una tappa decisiva del movimento di colonizzazione
rurale(40). Le pianure e le colline cerealicole beneficiarono,
infatti, di 11 Diocesi: 4 a Nord, 4 ad Ovest, 1 a Sud (Dolia)
e 2 ad Est, Suelli e Galtellì. La Diocesi con sede
a Suelli compare per la prima volta nella storia col suo
Vescovo San Giorgio, nativo di Cagliari, eletto nel 1070
all'età di 22 anni, e morto fra il 1112 e il 1117.
A Suelli, piccolo paese della Trexenta e, quindi, entro
il territorio della Diocesi Dolienses, con la quale formava
un "enclave", aveva sede la Diocesi Barbariense,
che comprendeva l'Ogliastra, la Barbagia di Seulo e giungeva
fino a Nord, comprendendo Orgosolo e Oliena(41). La sede
di Suelli doveva apparire più propizia per il Vescovo
di Barbagia poichè il luogo si trovava tra la via
fra la Barbagia e Cagliari, non troppo distante da quella
per esercitarvi le funzioni vescovili, non troppo remota
da Cagliari, sede del Giudicato.
La villa di Suelli fu donata
a San Giorgio da Torgotorio, Giudice di Cagliari, testimonio
ed ammiratore delle sue virtù, in occasione di un
miracolo fatto dal Santo in suo favore e narrato dallo stesso
Torgotorio nella carta di donazione. Tale Carta fu confermata
da Benedet
ta de Laccon, Giudicessa
di Cagliari, con diploma del giugno 1215, che si conserva
nell'Archivio Arcivescovile di Cagliari. Anche Sinispella
fece dono a San Giorgio dei villaggi di Simieri e di Sigi.
La Cattedrale di Suelli
era officiata da un arciprete con la prebenda di Tortolì,
e da sei canonici(42).
Le fonti circa la Chiesa
Doliense(43), a cui apparteneva la Trexenta, iniziano col
1089. Il 30 giugno di tale anno, infatti, il Vescovo di
Dolia, Vigilio, firmò in qualità di testimonio,
un atto del Giudice di Cagliari, Costantino, in favore del
monastero dei SS. Giorgio e Genesio, dipendente dal monastero
di S. Vittore di Marsiglia. Questo documento pone così
nella storia scritta il nome del primo Vescovo della Diocesi
di Dolia.
La giurisdizione ecclesiastica
della Diocesi di Dolia si estendeva dall'attuale Soleminis
fino a Serri e Nurri, a Est ad Armungia, e a Segariu ad
Ovest, fino ai limiti di Villamar. La Diocesi comprendeva
92 parrocchie, posto che includeva le Curatorie di Dolia,
Trexenta, Seurgus e Gerrei.
La sede episcopale di Dolia
era l'attuale basilica di San Pantaleo, che fu eretta intorno
al 1170 su una ex costruzione paleo-cristiana del secolo
VII o VIII, quindi bizantina; ciò trova conforto
nei ritrovamenti avvenuti durante gli scavi effettuati,
nel 1925, sotto il bresbiterio. Nell'occasione, oltre a
numeroso materiale archeologico fu trovato un pozzetto battesimale
scavato sulla roccia, del tipo ad immersione, che era usato
nei primi secoli del cristianesimo;
ed ancora, un frammento
di pilastrino in marmo, dagli esperti attribuito fra il
VII e X secolo. Sotto l'attuale altare ne fu ritrovato un'altro
di epoca precedente.
Il Capitolo di San Pantaleo
di Dolia era formato da dodici canonici, uno dei quali era
decano.
Il 20 luglio 1219 Torgotorio
-Pietro di Massa- Giudice di Cagliari, fa donazione ampia
e irrevocabile a suo figlio Salusio di Laccon -Guglielmo
di Massa- ed ai di lui eredi e successori, della Incontrada
di Trexenta, in contemplazione del matrimonio che doveva
contrarre Adelasia (Malaspina); e, nel diploma, descrive
minutamente tutti i luoghi, città, villaggi, terre,
salti e boschi, compresi nella donazione, ed una accurata
descrizione dei confini della regione(44). Incontrada è
un termine che si trova frequentemente negli antichi diplomi
sardi, e significa una grande estensione di territorio nei
rispettivi Giudicati dell'isola. Queste Incontrade prendevano
il nome o del paese principale o dalla posizione geografica
e topografica, o dalle produzioni naturali, o dalle industrie
più comuni che li distingueva gli uni dagli altri.
Nella loro ampia cerchia comprendevano varie Curatorie.
"In nomine Patris
et filii et sptus Sci amen.
Ego Iudex Torgodori pro
voluntade de Dominu Deu potestando parti de Calari pro puru
amori qui appo a fillu miu Salusi de Laccon de grado et
de certa sciencia li fazu donationi et irrevocabili inter
vivos dessa Incontrada de TREXENTA a isse et a filios suos
et heredes suos et generatione sua dessa dita Incontrada
de TREXENTA cum sas villas
populadas et sensa populari,
et saltus, terminis, vassallus, hominis et feminas, domus,
rius, mizas, funtanas, pardos, montis et pasturas, silvas,
molentis et atterus pegus de bestiamini, et totu sos ceteros
dretus et pertinentias, et confinis dessa dita Incontrada
de TREXENTA, cum totu sa Jurisdictioni alta e baxa civili
et criminali prossas quales villas et saltus, terminis et
lacanas dessa Incontrada sunti custas: sa villa de GUEYMAJORI,
sa villa de SELEGAS, sa villa de SANCTU SATURJU, sa villa
de SINCEJ, sa villa de SITGI, sa villa de SIMIELJ, sa villa
de ARCO, sa villa de SENORBI', sa villa de SEGOLAY, sa villa
de ARIXI MAGNO, sa villa de ARIXIA PICCIA, sa villa de PLANO
NEOYS, sa villa de SCU BASILY, sa villa de FRIUS, sa villa
de DONNIGALBA alba, sa villa de DONNIGUALA, sa villa de
ALLUDA, sa villa de VILLACAMPO, sa villa de BAXO DE ONJGO,
sa villa de FUGAT de Sitilj, sa villa de BARRALA, sa villa
de FONTANA SICINJ, sa villa de...., sa villa de DEY, sa
villa de LIRJ, sa villa de GIOSO, sa villa de STEBERA, sa
villa de SURBAU, sa villa de NECACESOS, sa villa de ZURY,
sa villa de BANXO DE NIRI, sa villa de PAU, sa villa de
FRAUS, sa villa de SEGACIU, sa villa de CARRARXO, sa villa
de SANCTA JUSTA de Lanexi, sa villa de GUOEZILA, et totu
sas atteras villas qui siant dintru de sa Incontrada de
TREXENTA, sa quali Incontrada cum totu sas villas, hominis,
feminas, domos, rius, mizas et fontanas, pardos et montes,
pasturas et silvas, molentis et totos ateros pegus bestiaminj,
et totus ateros dretus qui nos tenemus facemus donationj
a filiu nostru SALUSSI de Lacono pro puru amori et pro contemplatcionj
de su matrimonju qui fagujt da voluntadi nra cum Dna ADALASIA,
sa quali donationj bolemus qui siat irrevo
cabili, et bolemus qui
siat pro jssu et pro totu sa generationi de legitimu matrimonju;
sa quali Incontrada li donamos cum totu sa jurisdictioni
alta et baxa cum su criminali meri et mixti iperj; cum totos
sus saltus terminis cum sas villas et incontradas seguentis
etc....
...Sa quali Incontrada
de TREXENTA, saltus, terminis et lacanas in supra naradas,
cum sos hominis et feminas, domos, rius, pardos, funtanas,
mizas, montes, planos, silvas, et totus aterus deretus,
et pertinente jurisdictionj, qui nos tenemus in sa dita
Incontrada, damos de grado nostru, et puru amori assu fiju
nostru SALUSSI de LACCON pro substentazoni et contemplazoni
dessu matrimonju qui issu faguet cum sa dita DONNA DALASIA,
et volumus sa dita donationi, siat pro issu, heredes et
subcessoris suos, et la damus cum totu sa jurisdictioni,
altu et baxu, civili et criminali, meri mixti ipperj, et
totus sos deretus pertinentes qui nos emus in sa dita Encontrada
de totu li femus donactioni. Furunt fatus sus ditus attus
in sa villa de SUELLJ XX dessu mesi de lampadas, anno incarnationis
Domini nostri Iesu Christi millesimo duecentesimo decimo
nono. Furunt is testimongius clamados et presentis sus honorabilis
Donno Atzercho Utualj, Contini de Zori, Atzercho de Uda,
Basilj de Lacono. Et pro majori seguridadi, et firmadu dessu
fudi missidu su sigillo commui dessu ditu Senjori Judigi
de issu mandu seri pendenti in hoy missidu JUDIGI TROGUODORJ...".
Il ruolo che la Sardegna
svolse nell'economia del Medioevo, è in gran parte
indiretto: non affonda, cioè, le sue radici nelle
condizioni interne, ma nella particolare posizione geografica
dell'isola. Fra
le diverse rotte che tessevano
tutto il Mediterraneo, la più breve e la più
sicura era la cosidetta rotta insulare, quella che nel basso
Medioevo sarà la "via delle spezie".
Le navi che dagli estremi
porti occidentali dovevano recarsi oltremare toccavano le
Baleari, la Sardegna, Creta e Cipro.
la Sardegna, per converso,
ha sempre rappresentato l'antemurale della penisola italica,
dalla Toscana alla Liguria. Qui era la chiave della difesa,
e dell'offesa, nei confronti dei nemici africani o iberici.
La Sardegna medioevale,
quindi, vive per la sua fascia costiera, piuttosto che per
le sue effettive posibilità di produzione(45).
Genova e Pisa, sin dall'XI
secolo davano inizio, in concorrenza, alla conquista dei
mercati sardi: mercati di vendita da un lato e mercati d'acquisto
dall'altro, per il sale, i prodotti dell'agricoltura e della
pastorizia.
Pisa e Genova favorirono
la ripresa della vita economica isolana nonché la
formazione di una classe mercantile sarda venuta fuori dai
maggiorenti prima ancorati alla terra.
Del resto, se non si tiene
conto del ruolo di primissimo piano che giocarono i fertili
Campidani, comprese le aree collinari della Trexenta, tra
le più importanti dal punto di vista della produzione
dei cereali, nelle scelte dei governanti sardi, non si potranno
comprendere a fondo le vicende politiche dei quattro Regni,
e non si potrà va
lutare a fondo l'azione
dei vari Sovrani, che non sempre erano strumento dei pisani
e/o dei genovesi, perseguendo pur essi, anche se destinati
a perdere, propri disegni politici(46).
I quattro Giudicati avevano
una spiccata vocazione terrigena.
La stessa economia di tipo
curtense, basata quasi esclusivamente sull'agricoltura e
sulla pastorizia, conferma questa vocazione.
I Giudici, lasciarono,
appunto, ai pisani e ai genovesi la colonizzazione delle
coste ed il conseguente predominio commerciale nel Mediterraneo(47).
Un altro elemento della
rinascita agricola sarda fu costituito dalle nuove fondazioni
monastiche. Benedettini (Vittorini) e Camaldolesi, soprattutto,
contribuirono alla ripresa agricola. Anche questo fenomeno,
in parte, rientra nell'ottica continentale dei Giudici,
i quali chiamarono i monaci anche per risollevare le sorti
dell'enorme patrimonio agricolo dell'isola, caduto in deplorevole
abbandono dopo la partenza dei monaci bizantini(48).
Le vastissime concessioni
fondiarie venivano, infatti, condizionate "ad plantandum,
ad stirpandum" affinchè i monaci "ordinent
et lavorent et edificent et plantent".
I monasteri isolani disponevano
di numeroso bestiame, di forti produzioni di formaggio,
di vino, di carni salate e affumicate, di lardo in particolare,
conservati in vaste cantine, in caciaie e in magazzini saturi
di ogni ben di Dio. Inoltre, disponevano di grandi quantitativi
di lana e di pelli d'ogni genere. Erano monasteri naviganti
nell'abbondanza e nella più sfacciata ricchezza,
i cui Abati non
disdegnavano di trascorrere
le loro giornate a cavallo, a caccia, seguiti da numerosi
invitati e servi e addestratori di falchi(49). Producendo
nei loro monasteri il necessario per la comunità
e i loro stessi vestimenti, i monaci non spendevano nulla
della moneta che incassavano con la vendita dei loro prodotti,
né per l'acquisto di terre, di vigne o di case, poichè
quanto acquistavano lo ripagavano con i prodotti dell'agricoltura
e dell'allevamento o con prodotti dell'artigianato monastico(50).
L'economia agricola della
Sardegna era legata intimamente all'interesse dei monaci,
e il denaro era fine a se stesso, e non mezzo di progresso:
i servi che producevano così ingenti ricchezze non
ne traevano alcun beneficio; considerati come animali da
lavoro, ed essendo, persino i figli, spartiti fra i monasteri
come il bestiame.
Il 28 novembre del 1223
Papa Onorio III accolse la Regola di Francesco d'Assisi,
di cui il 6° capitolo dice: "Frates Nihil approprient,
nec domum, nec locum, nec aliquam rem, sed tamquam peregrini
ed advenae in hoc saeculo in paupertate et humilitate Deo,
formulantes vadant pro elemosyna confidenter". Povertà
assoluta, dunque, fino all'elemosina(51).
Nel 1254 Papa Innocenzo
IV pubblicò una Bolla in cui si leggono queste gravi
parole(52): "Intanto i nostri uomini di chiesa, divenuti
gente di legge, cavalcando superbi destrieri, vestiti di
porpora, coperti di gioielli, d'oro, di seta, riflettendo
i raggi del sole, scandalizzato dal loro acconciamento,
fanno per tutto mostra orgogliosa di sé; e nelle
persone loro, in luogo del Vicario di Cristo, si danno a
conoscere credi di Lucifero,
ed eccitano le ire del popolo, non solo contro sé
stessi, ma contro la Sacra autorità, che indegnamente
rappresentano...".
Anche Sant'Antonio, in
una delle sue prediche esclamava(53): " L'avarizia
rode alcuni preti anzi mercanti. Salgono sul Monte Tabor
che è l'altare d'oro; e del Sacramento della Salute
fanno letame di cupidigia".
In Sardegna, la pacifica
rivoluzione di Francesco d'Assisi, che aveva fatto aprire
le porte della libertà ai servi, schiavi dei campi,
provocò l'esodo di questi dalle aziende dei monaci
della Chiesa e dei grandi proprietari laici, senza che nessuno
potesse arrestarne la partenza, assettati come erano di
libertà(54).
Era una massa incalcolabile.
Molti si ribellavano e si redimevano dalla schiavitù
determinando il crollo pressochè subitaneo dell'agricoltura
monastica e di tutti gli Ordini ricchi(55).
Il Medioevo finì,
in Italia ed anche in Sardegna, con l'emancipazione dei
servi, con la libertà degli schiavi.
Nel corso del XIII secolo
il Giudicato di Cagliari si dissolve: la vecchia capitale,
già denominata Castello (o Castrum Callari), viene
assunta sotto il dominio diretto di Pisa, mentre il paese
viene diviso fra le grandi famiglie pisane: Visconti, Gherardesca,
Donoratico e Capraia, che avevano cooperato all'impresa
conquistatrice e che riconoscevano, a titolo feudale, da
Pisa, il loro possesso.
D'altronde, il predominio
completo di Pisa nel Giudicato di Cagliari si ebbe già
verso il 1190, quando il governo cagliaritano passò
a Guglielmo di Massa. Si ebbe in questo periodo il completo
dominio di Pisa.
Penetrava, in questo periodo,
nell'isola, la famiglia pisana dei Conti di Capraia(56);
Guglielmo, infatti, vedovo di Adelasia Malaspina, si univa
poco prima del 1206 con Giuisiana di Capraia.
Attraverso questo matrimonio
i Capraia si inserivano nelle vicende sarde.
Agli inizi del XIII i Capraia,
che , originari del Valdarno inferiore, discendevano dai
fiorentini Alberti, Conti di Mangona e di Vernio, si dividevano
in due rami: quello degli Alberti, imparentato con i Donoratico,
e quello dei Capraia, imparentato con Guglielmo di Massa.
Da Pisa, il Conte Guido
Capraia e i suoi familiari, associati nel Comune alla consorteria
dei Visconti, passarono in Sardegna e, approfittando della
loro parentela con il Giudice Guglielmo e con Ubaldo Visconti,
oltre che delle lotte sorte in quel volgere di tempo fra
gli stessi Visconti e i Massa, vi si affermarono in brevissimo
tempo.
Nel 1256 si ebbe in Sardegna
un duro colpo per i pisani: l'erede dei Massa, Ghiano, Giudice
di Cagliari, firmò un'alleanza con i genovesi. Ma
effettuata una spedizione in Sardegna nel 1257, riconquistarono
il Castello di Cagliari e rioccuparono il Giudicato.
Nella lotta tra Genova
e Pisa per il predominio nel cagliaritano ebbe una posizione
di rilievo Guglielmo di Capraia, che con Giovanni Visconti
e con i Conti di Donoratico, Ugolino e Gherardo, capeggiò
la spedizione e, dopo la sconfitta dei genovesi, consolidò
la sua potenza nell'isola.
Così nel 1257, effettuata
la spedizione, sconfitti i genovesi a Santa Igia, i pisani
divisero il territorio del Giudicato in tre parti, decretando,
con ciò, la fine di diritto del Giudicato stesso.
La prima parte, quella
orientale, fu assegnata a Giovanni Visconti, Giudice di
Gallura; la seconda, quella centrale, comprendente anche
la Trexenta, fu affidata a Guglielmo di Capraia; e divisero
la terza parte, quella occidentale, in due parti assegnate
rispettivamente a Ugolino e Gherardo di Donoratico. Lasciarono
poi al Comune le saline e il controllo del Castello di Cagliari,
al quale diedero un'organizzazione di tipo comunale. Distrussero,
infine, la villa di Santa Igia.
In seguito alla tripartizione
Guglielmo di Capraia, già Giudice dell'Arborea, si
trovò quale Signore della Terza parte del cagliaritano,
in possesso di zone molto ricche per l'agricoltura e la
pastorizia. Già in possesso della Marmilla, che faceva
parte del Giudicato d'Arborea, ebbe, oltre alla Curatoria
di Trexenta, quelle di Gippi, del Gerrei, del Parteolla,
di Nuraminis, di Decimo, e del Campidano di Cagliari, appellandosi
"magnificus vir dominus Guglielmus, comes Capraie,
iudex Arboree et tertie partis regni callaritani"(57).
Tuttavia, dopo la battaglia
della Meloria, fra pisani e genovesi, Mariano di Bas Serra,
Giudice d'Arborea, ebbe la possibilità di diventare
facilmente Signore del Terzo del cagliaritano, già
dei Capraia, e la morte di Anselmo, figlio di Guglielmo,
agevolò la sua Signoria(58).
Il 4 gennaio del 1295 Mariano
dettò il suo testamento, lasciando al figlio Giovanni
d'Arborea e al Comune di Pisa le terre del cagliaritano,
già dei Capraia. Inoltre, già nel 1300 i pisani
avevano confiscato le terre di Nino Visconti e vi avevano
inviato un Vicario a governarle, così come fecero
per la parte già dei Capraia, ed avevano affidato
a due Rettori le terre già del Conte Ugolino; soltanto
gli eredi del Conte Gherardo conservarono i loro possessi
nel Sulcis(59).
Nel 1301 nelle terre dei
Capraia risiedeva, dunque, un Vicario: Riccardo o Roberto
de Barga, un canonico , che a perpetua memoria del Giudice
Giovanni d'Arborea faceva costruire un palazzo, sede della
Vicaria, in una villa, andata poi distrutta, fra Furtei
e Villamar, quella di San Pietro di Bangius o Bangiu Donnico(60).
E nel 1303 il Podestà di Pisa, giurava di conservare
e di difendere le stesse terre, che per testamento erano
state cedute al Comune dal Giudice.
Nel 1313, infine, a maggiore
sicurezza, furono stabilite, da parte del Comune, norme
per il governo della Trexenta e di Gippi, e nei due territori
furono mandati un Rettore per ciascuna regione, e funzionari(61).
Cronologicamente, la Sardegna
pisana durò al massimo settanta anni circa. Quando,
caduti i Giudicati (tranne l'Arborea), si affermò
in Sardegna, il dominio diretto delle due Repubbliche marinare,
e princi
palmente di Pisa, questa
continuò a far ricorso all'ordinamento feudale. Il
Comune ritraeva redditi dai tre Giudicati di Cagliari, di
Gallura e di Logudoro oltre che dalle città e dai
castelli ivi situati. Ma bisogna ricordare che accanto al
Comune, che deteneva le maggiori estensioni di territorio,
anche altre istituzioni operanti nella città di Pisa
ritraevano dalle terre della Sardegna, ad esse pervenute
per via di donazioni o in qualunque altro modo(62).
Fra esse, il primo posto
spetta all'Opera di Santa Maria di Pisa, che possedeva terre
nei quattro Giudicati; con servi, serve e bestiame, amministrati
da propri funzionari(63).
Anche i privati cittadini
pisani possedevano terre in Sardegna; in particolare i mercanti
che investivano in terreni parte del ricavato delle loro
speculazioni o che ne ottenevano la gestione dal Comune(64).
Vasti territori venivano ancora ceduti all'autorità
di un Signore, tenuto a certe prestazioni e alla promessa
di fedeltà.
A tale titolo si ebbero
anche certe concessioni al Vescovo di Dolia e ad altri Enti
e Signori, che avevano nelle loro terre giurisdizione di
mero e misto imperio e che erano tenuti all'obbligo del
servizio militare.
La maggior parte del territorio
annesso alle ville era coltivato a grano e ad orzo, come
si evince dai Registri delle rendite che i possessi terrieri
sardi fruttavano al Comune di Pisa(65).
Le terre adibite alla coltivazione
dei cereali venivano qualificate come "aratoriae".
Esse avevano, generalmente, vasta estensione,e, in prevalenza,
diversamente da quanto si verificava nell'alto periodo
giudicale, erano cinte
da siepi o da fossi, che impedivano l'ingresso del bestiame;
ad esse si contrapponevano le terre di minore estensione
adibite alle stesse colture, dette "corrigiae"(66).
La quantità di semente
che ciascun fondo poteva ricevere era indicata col nome
di "postura". Le campagne erano ricche di case
sparse, alcune delle quali appartenenti al Comune e da esso
cedute in affitto a sardi; altri edifici erano i "vestari",
ricoveri per il bestiame, locali adibiti al deposito di
biade e paglia, alloggiamenti destinati ad ospitare gli
Ufficiali del Comune che si recavano nelle campagne per
la sorveglianza e l'amministrazione dei beni, e per l'esazione
dei tributi(67).
Il Comune affidava le sue
terre alle comunità delle ville, che per esse corrispondevano
un censo annuo; oppure provvedeva direttamente alla coltivazione
di esse per mezzo dei suoi servi ed ancelle, che erano numerosi
in ogni villa. Talvolta il Comune preferiva affidare le
sue terre a degli appaltatori, che si impegnavano alla corresponsione
di un canone annuo(68).
Accanto ai possessi fondiari
del Comune erano poi quelli degli indigeni. Vi era, quindi,
anche nell'epoca pisana, un ceto locale formato da uomini
liberi, che sfruttavano anch'essi le risorse agricole e
della pastorizia(69).
Vi era anche una categoria
di contadini senza terra, probabilmente liberi, che praticavano
la mezzadria, indicati come "palatores"(70).
Accanto alla coltura del
grano e dell'orzo, aveva un posto preminente quella della
vite. Essa veniva coltivata in filari, che dovevano essere
formati da un certo numero di ceppi, tanto che l'estensione
ed il valore delle vigne erano indicati dal numero dei filari
che le componevano.
Anche la coltivazione degli
alberi da frutto aveva la sua importanza. Il primo posto
per quantità di prodotto e per diffusione, spetta
al fico. Tale albero veniva coltivato nelle vigne o in aperta
campagna, isolato o in vaste estensioni, che prendevano
il nome di "sementa ficuum"(71).
Oltre al fico, erano coltivati
l'arancio, il cotogno, il mandorlo, il pero, il susino.
Per la Trexenta, oltre al fico, che era il più diffuso,
è ricordato anche il melograno(72).
I 5/6 del raccolto di grano,
commercializzato, anche nelle annate di abbondanza, a prezzi
troppo alti -per interessare il mercato rura- le-, erano
consumati dalla popolazione urbana o esportati. Soltanto
la sesta parte rimaneva nelle mani dei coltivatori, per
assicurare le sementi per l'annata successiva e perpetuare
così il sistema(73).
La stragrande maggioranza
dei rustici era costituita, ormai, da uomini liberi. Erano
ripartiti in due categorie(74): quelli soggetti al pagamento
del "datium", e i liberi, normalmente affrancati
dalle imposte reali e personali, eccetto un tributo in denaro,
il "donamentum".
Questi ultimi appartenevano
alla categoria dei "Liveros de caballo", menzionati
nella Carta de Logu, cioè miliziani equestri armati
ed equipaggiati alla sardesca, che erano in tutto 285, nell'antico
Giudicato di Cagliari, verso il 1316-1323. Ciò che
distingueva i miliziani a cavallo dagli altri villici, oltre
al fatto che fossero affrancati dalla maggior parte delle
imposte che gravavano sui loro compaesani, era il servizio
militare ad arbitrio del Sovrano. Dovevano essere proprietari
di un cavallo da guerra di un certo valore (almeno 8 Lire)
e, inoltre, delle proprie armi e dell'equipaggiamento. Erano,
altresì, tenuti a presentarsi a tutte le mostre e
cavalcate e a qualsiasi altra convocazione. Non vanno, tuttavia,
confusi con una vera e propria casta militare.
Riassumendo: i tributi
in denaro erano: il datium, imposto a ciascun abitante di
ciascuna villa; il donamento, il tributo per la silva; la
roatia; il tributo per il salto; quello per i segni di vacche;
i diritti dovuti dai possessori di vigne; il diritto dovuto
da chi vendeva vino di propria produzione; il diritto di
taverna.
I prodotti dell'agricoltura
erano dovuti da parte di coloro che possedevano gioghi di
buoi, che aravano, e da parte dei palatori. Coloro che allevavano
maiali erano, invece, tenuti a versare una parte del loro
peculio.
I Prelievi e il fiscalismo,
in Trexenta, verso il 1320, risultava il seguente(75): N°
di centri abitati 24; numero di contribuenti 607; Datium
28,8%; Donamentum 6,1%; Diritti servili 2,4%; Cereali 49,5%;
Bestiame 0,1%; Vino 6,1%; Demanio 7,0%; Prelievo medio per
contribuente 43,7%.
Introiti (in Lire, Soldi
e Denari aquilini minuti): Diritti in denaro 578,11; Diritti
in natura 656,2; Demanio 92,8; Totale 1.327,1.
LA
PREISTORIA - I
FENICIO PUNICI - LA
DOMINAZIONE ROMANA - IL
MEDIOEVO - LA
DOMINAZIONE SPAGNOLA - IL
PERIODO SABAUDO E IL XIX SECOLO - IL
XX SECOLO
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