LA DOMINAZIONE ROMANA
La Sardegna dal III secolo
a.C. appartenne ai romani che vi arrivarono nel 238 a.C.
profittando dell'impossibilità dei cartaginesi, appena
battuti nella I guerra punica, di difendere l'isola.
Dal 238 al 111, per centoventi
anni, i sardi, soprattutto quelli dell'interno, opposero
una ferma resistenza alla penetrazione romana.
Fino al I secolo, la Sardegna
doveva essere divisa in due zone fondamentali: da una parte,
nel Sud-Ovest e, forse, nelle zone Sud e Centro-orientali
di pianura , che praticavano un'economia legata soprattutto
al grano, organizzata attraverso la presenza del latifondo
e l'intermediazione commerciale di imprenditori romani;
dall'altra, nel Centro e nel Nord-Est, le popolazioni montane,
gelosamente fedeli alla civiltà protosarda, che vivevano
soprattutto di pastorizia attraverso l'uso comunitario della
terra, dei pascoli e dei boschi(1).
Da Livio si apprende che
lo stato di semi-indipendenza perdurava, in qualche punto,
ancora all'Età di Augusto.
La romanizzazione della
Sardegna fu, comunque, profonda ed estesa: anche nelle zone
dell'interno, che presero il nome di Barbaria.
I romani organizzarono
il latifondo ed estesero la coltivazione del grano, diffusero
la coltura dell'ulivo e la coltivazione della vite. Furono
costruite importanti strade, fra le quali, la più
importante per la Trexenta, l'arteria che congiungeva Cagliari
ad Olbia, passando per l'interno dell'isola.
Il percorso stradale costituì
per la Trexenta un importante veicolo di romanizzazione.
La grande arteria Carales-Olbia
per Biora (Serri), a prevalente carattere strategico, attraversava
la Trexenta, per poi transitare nelle zone più disagiate
dell'isola, minacciata dalle razzie e dal brigantaggio delle
popolazioni della Barbaria del Centro-Nord montuoso.
La Sardegna era attraversata
da quattro grandi arterie, che sostanzialmente seguivano
i tracciati che erano già stati punici: due strade
interne che collegavano le stazioni centrali e intermedie
dell'isola, e due litoranee: l'occidentale e l'orientale.
Collegati alla Carales-Olbia
per Bioram, la cui realizzazione risale ai primi secoli
del dominio romano, possono rilevarsi, in Trexenta, diversi
villaggi, di cui resta traccia.
Nel territorio di Selegas,
la strada doveva passare presso la chiesa della Vergine
d'Itria -una Madonna del Buoncammino- dove è conosciuto
il villaggio medioevale di Arcusila.
L'impianto in opus vittatum
mistum ed in opus testaceum di cui s'individua un ambiente
quadrangolare di metri 3,15 di ampiezza, con finestra e
canalette passanti nella muratura, e sul quale s'insedia
la chiesetta campestre, è di sicura origine romana.
Alcuni tratti della strada
furono riconosciuti dallo Spano presso Seuni, oltre che
a Senorbì.
Nel suo tracciato trexentino,
da Senorbì per Suelli e Seuni, fino all'altipiano
di Mandas, l'arteria doveva trovare appoggio in stazioni
di servizio, svolgendo un importante ruolo di protezione
del latifondo(2).
Al momento della conquista,
tutte le terre sarde furono confiscate e divennero agro
pubblico del popolo romano.
Le pianure isolane conobbero
un nuovo padrone, più duro e più deciso, intenzionato
a ricavare da essa quanto più possibile.
La monocoltura cerealicola
conobbe un nuovo impulso, e la tradizione letteraria è
ricca di testimonianze relative al grano sardo ed alla funzione
che esso assolse in diverse circostanze, soprattutto della
storia della Repubblica(3).
Il trapasso dell'isola
dai sardo-punici ai romani procurò ai primi un duro
colpo, per la perdita totale delle terre e degli averi,
per cui tutte le terre pubbliche e private delle città
e popolazioni, passarono d'autorità all'"Ager
publicus" e alle costituite comunità agricole(4).
Le terre confiscate, in
parte furono lasciate ai vecchi proprietari, non più
in proprietà, ma in affitto; altre furono concesse
a famiglie italiche per il loro sfruttamento; altre ancora
a società appaltatrici, che, in genere, le disboscavano;
altre, infine, furono assegnate in proprietà a proletari
provenienti da Roma(5). Molte terre furono distribuite anche
ai soldati, da Silla in poi.
Tutte le grandi famiglie
romane dell'Età repubblicana e imperiale possedevano
vaste proprietà nell'isola e, come vedremo, anche
in Trexenta; proprietà che dovevano essere adeguate
all'importanza e alla forza economica delle stesse famiglie.
La grande proprietà
agraria a coltura estensiva, sviluppatasi nell'Ager pubblicus
populi romani, si fondò su una conduzione essenzialmente
schiavista(6). Se i titolari, residenti in città,
usavano personalmente o attraverso propri amministratori,
curare sul luogo, per parte dell'anno, gli interessi dell'azienda,
nel latifondo dimoravano i braccianti delle campagne -schiavi,
ma anche coloni indigeni, lavoratori liberi e affittuari-
decentrati in piccoli nuclei o raccolti in borgate, spesso
in prossimità delle ville rustiche padronali(7).
A fianco dei latifondi
e grandi proprietà del patriziato romano si crearono,
nell'isola anche le piccole proprietà, a fianco del
Demanio pubblico.
La concessione in affitto
era gravata da un canone annuo, il "vectigal",
al quale si aggiungeva la decima parte dei prodotti della
terra: decima, che in caso di necessità, poteva essere
raddoppiata e pagata ai produttori a prezzo di requisizione(8).
In Sardegna si possono
identificare tre tipi di latifondo: quelli pubblici, quelli
privati e, infine, quelli imperiali, tenuti a titolo privato
o quali beni della Corona.
I primi avevano in comune
lo sfruttamento, in forma più o meno comunitaria,
delle terre, ma erano di natura molto diversa. Infatti,
a fianco di latifondi in zone pianeggianti, destinati essenzialmente
a colture agrarie, vi erano latifondi nelle zone montagnose
e boscose.
Esempio tipico di latifondo
appartenente a privati è quello di Atte, la nota
liberta e concubina di Nerone, sito nel Nord-Est dell'isola(9);
mentre latifondo imperiale doveva essere quello amministrato
da Amelia Onorata, anch'essa liberta imperiale, i cui latifondi
dovevano estendersi nel Parteolla (Donori) e in parte della
Trexenta(10).
Gli attuali territori di
Selegas, Ortacesus, Guasila, Guamaggiore e Senorbì,
dovevano, presumibilmente appartenere al latifondo imperiale,
amministrato da Onorata, e destinati alla coltura granaria.
Il latifondo comprendente le ville predette -dove, peraltro,
i ritrovamenti di tombe e resti di fattorie romane, sono
frequenti- erano destinati alla coltura granaria, per cui
era necessario allontanare dal seminato le greggi di pecore,
che venivano relegate ai margini del Campidano granario,
alle falde del Cixerro, in un territorio fortemente argilloso
e adatto solo a pascolo ovino, denominato "S'acqua
cotta"(11). Era questo un ademprivio dei pascoli, che
scaturisce dalla "Pasqua pubblica romana", dall'istituto
del pubblico pascolo romano: "Ademprivia seu pascula
comunis"; ed era un pascolo autunnale-invernale di
una o più ville. Mentre nel periodo primaverile-estivo,
il bestiame rude doveva essere destinato al pascolo brado
nei salti di "Pranu Sanguni", "Casargius"
e Brigargius", che in periodo romano dovevano essere
boschi ghiandiferi(12).
In genere la direzione
delle aziende agrarie era composta, in ordine gerarchico,
dal proprietario agricoltore, ch'era anche capo azienda,
il "pater familias" e dal fattore "villicus",
che assisteva il personale e disponeva i lavori agricoli
a seconda delle stagioni e delle colture(13).
Alle dipendenze del capo-azienda
o del fattore erano i braccianti "mercenarii",
e anche la servitù, sia addetta alle colture che
al bestiame(14).
Nelle grandi aziende, come
i latifondi, esisteva un soprintendente o amministartore
capo, detto "curator" o "procurator"
se amministrava proprietà imperiali; questi era,
generalmente, un liberto(15). Da lui dipendevano varie altre
figure, fra le quali: il "dispensator" ossia il
cassiere-contabile; il "villicus" ovvero il fattore;
l'"actor" o sotto-fattore; i "monitores",
che erano gli scrivani che tenevano i registri; l"artiensis",
che aveva in carico gli attrezzi e le macchine agricole
e ne curava la manutenzione e la conservazione; il "cellarius",
che aveva le chiavi della dispensa e della cantina(16);
ecc..
Il personale bracciante
era distribuito secondo le capacità. Fra questi si
distinguevano: l'"arator", che disponeva il sistema
di aratura e guidava l'aratro -il che rappresentava un vero
e proprio onore civile-; l'aggiogatore di buoi predisponeva
i gioghi per l'aratura e per i carriagi aziendali, accudiva
i gioghi al pascolo e nella stalla e si chiamava "jugarius";
il "bubulcus" era addetto alla doma dei buoi e
al loro governo. Veniva poi il bracciante generico detto
"politor", che veniva destinato alla dissodatura,
vangatura, zappatura(17), ecc..
A servizio della grande
azienda, con officina e dipendenti vi erano anche gli artigiani(18).
I braccianti generici erano,
nella maggior parte, schiavi che componevano la "familia";
avevano un'assegnazione mensile in natura, di frumento,
olio, vino, ed altre cibarie nonchè l'alloggio e
il vestiario(19).
Per l'igiene del personale,
in ogni azienda, grande o piccola, v'era il bagno, specie
per i contadini.
Il toponimo di "bangius",
dato comunemente in Sardegna a molti ruderi, che si trovano
nelle nostre campagne (molto frequenti anche in Trexenta)
si riferisce, appunto, a ville rustiche, che avevano il
loro bagno per i lavoratori aziendali.
Le pianure della Sardegna
e la Trexenta, costituirono sempre una delle più
importanti fonti di approvvigionamento di cereali per Roma
e per la penisola.
L 'economia isolana continuò,
così, ad essere orientata verso la monocoltura cerealicola,
ed il grano sardo riuscì a risolvere gravi crisi
dell'approvvigionamento di Roma , della penisola, e nelle
lotte per la conquista dell'Oriente mediterraneo.
La Sardegna fu, perciò
assieme alla Sicilia e all'Africa una delle tre fonti di
approvvigionamento di cereali per lo Stato romano: "Tria
frumentaria subsidiaria reipublicae", così si
espresse Cicerone.
I primi secoli dell'Impero
videro le pianure della Sardegna impegnate nelle colture
cerealicole in una struttura, come si è visto, di
tipo latifondistico.
Ereditando gli indirizzi
agrari dei cartaginesi, ma di certo determinando nuove forme
di utilizzazione e trasformazione del territorio, la colonizzazione
romana è documentata in Trexenta dal III secolo a.
C. fino alla tarda antichità.
Doveva esistere nella regione
una fitta distribuzione della popolazione in "vici"
e "pagi" connessi al latifondo(20). Vi si riferiscono
resti di edifici, materiali e necropoli rinvenute anche
a Selegas: Madonna d'Itria, Nuritzi(21), come testimoniano,
per quest'ultimo sito i numerosi frammenti di anfore, brocche
e stoviglie di ceramiche fini da mensa di fattura locale
e d'importazione italiana e Nord-africana, raccolti su tutta
l'area archeologica e nei terreni circostanti(22).
I resti cimiteriali rinvenuti
a Selegas oltre che a Guasila, Guamaggiore, Senorbì,
si collocano tra l'età repubblicana e la tarda antichità
ed attestano i riti della cremazione e dell'inumazione(23).
Inoltre, l'intenso processo
di romanizzazione, tradottosi nei primi secoli dell'Impero
in un'ampia promozione alla cittadinanza degli elementi
indigeni e favorito dalla presenza delle truppe di occupazione
variamente dislocate, portò ad un nuovo fermento
economico, avvertito particolarmente nelle città
dove affluivano le ricchezze delle campagne, e ad un notevole
sviluppo demografico(24).
Il processo di romanizzazione
così intenso, indusse lo Spano ad ipotizzare la derivazione
del nome stesso della regione, dall'esistenza di trecento
oppida(25).
La zona era in tempo romano,
come del resto ai giorni nostri, una delle più fertili
dell'isola, interessata dal sistema agrario latifondista
e proiettata sul maggior porto isolano -quello di Carales-
da cui partiva la maggior parte delle derrate sarde verso
Roma.
Quando nei primi decenni
del IV secolo d. C., la crisi dell'Impero avanzerà
inesorabile, l'autorità centrale continuerà
a fare affidamento sulle pianure sarde ed a premere su di
esse per assicurare gli approvvigionamenti.
Una colorita descrizione,
contenuta in una lettera di San Paolino di Bordeaux, riporta
questa affanosa ricerca di grano sardo. Fra il 409 e il
431 il proprietario di una nave da carico, il cristiano
Secondiniano, fu costretto dalle esigenze, in pieno periodo
invernale, a porre la sua nave al servizio dello Stato ed
a recarsi nell'isola per trasportare a Roma cereali ed altre
vettovaglie che i contribuenti sardi usavano come tasse
in natura. Fatto il carico, una flotta colma di granaglie
iniziò il viaggio di ritorno durante il quale la
nave incappò in una tempesta, che causò la
morte di tutto l'equipaggio, ad eccezione di un solo marinaio,
quello che San Paolino raccomanda caldamente nella sua lettera(26).
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